Il PD, gli uomini e i pesci

Editoriale per Corriere della Sera (Bo)

Le sconfitte possono fornire grandi insegnamenti. Mentre il successo, se non governato, può condurre fuori strada. La vittoria alle elezioni regionali per il centro-sinistra e il Partito Democratico comportava un rischio potenziale, maggiore per certi versi persino di quello derivante da una storica sconfitta. Il pericolo della perdita di memoria, della cancellazione, della rimozione, del superamento dell’ostacolo congiunturale rimanda gli individui, le organizzazioni, e quindi anche i partiti, ad una condizione di scampato pericolo, di soddisfazione e appagamento rispetto allo stato ansiogeno che precede la prova cruciale. Da una prostrazione raccontata, da proclami di modestia e autodafé nell’imminenza dell’esame elettorale si puo’ facilmente passare alla rimozione, all’arroganza, e quindi alla reiterazione di comportamenti consolidati.

Dopo oltre un anno non è giunta notizia di approfondimenti ragionati, lunghi, critici, profondi, indipendenti e conflittuali sulle ragioni della vittoria. Proprio i successi contengono, sempre, le cause profonde delle sconfitte. Per non continuare a “sorprendersi” delle avanzate della Lega (Nord), delle scarse prestazioni del centro-sinistra che in tre lustri almeno ha visto erodersi non solo il consenso elettorale, ma anche la penetrazione sociale dei suoi valori, la rete di connessioni civica ossia di quella sub-cultura “rossa” che non era affatto composta solo di voti.
Dunque, discutere in sedi pubbliche le cause della penetrazione sociale, culturale e infine, solo infine, elettorale della Lega (Nord). La quale continua a macinare consensi, anche se perde le elezioni. Nel 2019, alle celebrate consultazioni regionali, il partito guidato pro tempore dal Sen. Matteo Salvini ha prevalso in 4 province su 9 dell’Emilia-Romagna. La Lega è giunta prima in tutti i comuni della provincia di Ferrara, in quasi tutti (tranne uno) in quella di Piacenza, in quasi tutti (tranne due) in quella di Parma e in quasi tutti (tranne 4) in quella di Rimini. Inoltre, è stata primo partito in 21 comuni di Forlì-Cesena, 13 Reggio Emilia, 28 di Modena, 12 di Bologna e 2 di Ravenna. Ossia il partito di Salvini è giunto primo nei due terzi dei municipi (63% dei casi, se vi pare poco; erano il 33% nel 2018 e l’8% nel 1996). Infine, la coalizione progressista ha perso 3 seggi consiliari rispetto al 2014, mentre la Lega ormai ha fagocitato l’intera opposizione. Ma tutto questo è passato in cavalleria perché l’importante, come scrivono e dicono in privato in molti, in troppi, è vincere. Anche senza convincere. Basterà aspettare la prossima buriana per spaventarsi di nuovo, per additare il nemico alle porte, per invocare il sostegno dei cittadini contro la presunta presa della fortezza Bastiani da parte dei barbari. Che poi tali non sono. Si tratterebbe di alternanza, fisiologica in democrazia.
Vittoria elettorale quale viatico senza minimamente mettere a fuoco le distorsioni, senza porre al centro dell’analisi la società, le sue contraddizioni, i messaggi che invia – palesi o subliminali -, le reinterpretazioni necessarie alla luce dei cambiamenti strutturali del XXI secolo. Il PD sembra aver fatto tutto questo d’emblée, subito, senza remore. Avanti, verso la prossima battaglia con slancio ardito e fiducia nelle magnifiche sorti e progressive del “buon governo locale”. Ma alla prossima sconfitta, inevitabile nella società delle appartenenze flebili, statene certi, emergerà di nuovo lo stupore e lo sconcerto, misto a sdegno per il comportamento elettorali di molti che proprio non avranno capito quanto il centro-sinistra sia “superiore”:
La paura di perdere pur contro un avversario modesto è stato il fattore scatenante della mobilitazione. Ma queste paure sono ricorrenti, e del resto la storia della Lega Nord e del centro-destra in Regione parlano chiaro. La Lega governa decine di comuni, è primo partito in molte aree specialmente “interne” e puo’ contare su alleati potenti quali le paure (i diversi, la globalizzazione, la città, etc.), i mutamenti sociali in un contesto da ridisegnare, la crisi economica e la disoccupazione. Che sono fenomeni relativamente inediti e recenti a queste latitudini, ma che proprio per questo tendono ad essere paradossalmente più incisivi.
La lettura della vittoria, effettivamente rapida e superficiale, è stata sagacemente agganciata alla prestazione extra-ordinaria del candidato Presidente del centro-sinistra e ad una non bene specificata centralità del movimento delle cosiddette “Sardine”. Se, dunque, Stefano Bonaccini è l’alfiere della vittoria del centro-sinistra, e se una parte rilevante della vittoria è da ascrivere alla capacità di amministratore e di campaigner del Presidente della Regione, non resta che confermare che i “Problemi” permangono. Si sarebbe trattato cioè di una vittoria “personale”, della capacità di un uomo solo di fare la differenza. Viceversa, taluni, come Nadia Urbinati, hanno fornito un’interpretazione della vittoria del centro-sinistra ascrivibile principalmente al contributo delle Sardine. In assenza di dati empirici approfonditi sul punto specifico, possiamo affermare che – vista la geografia del voto -, il peso di Bologna sia stato cruciale, ma che senza una leadership coerente la ri-mobilitazione di un elettorato già identificato e politicizzato non avrebbe generato surplus. Credo che in entrambi in casi si sottovaluti lo scollamento sociale, valoriale, culturale, e dunque elettorale tra le proposte del centro-sinistra e la società emiliano-romagnola. Il tempo e le energie per riflettere e porre rimedio esistono, viceversa, la débâcle è solo rimandata, e non ci saranno uomini o “pesci” a scongiurarla. Bologna non è l’Emilia-Romagna, certo. Ma l’Emilia-Romagna pesa su Bologna. E il comportamento degli aspiranti sindaco del PD a Bologna non lascia intravedere nulla di buono, se non fosse che il centrodestra è in eterno ritardo e perciò non competitivo, per ora. Lo schema è il solito: il PD lancerà i suoi peana prima del voto per fermare il “nemico”, ma all’uopo scatterebbero le prefiche. In assenza di riflessione, di studio, di introspezione sulle ragioni delle vittorie, il centro-sinistra si affida al caso, che è poi anagramma di caos. Per il proprio bene in futuro il PD dovrebbe augurarsi una sonora sconfitta ovvero una vittoria ragionata. Sarebbe salutare.

Il PD non cambi simbolo

Il PD non cambi simbolo

Editoriale per Corriere della Sera (Bologna)

La Coca Cola investe milioni di euro in pubblicità ogni anno. E, sostanzialmente, non ha mai cambiato brand; la ragione principale è che i consumatori conoscono e si riconoscono nel nome e nel simbolo della bibita per eccellenza. E per questo lo ri-acquistano, ovvero lo detestano, ma sanno di cosa si tratta. In termini politici potremmo prendere l’esempio del partito Socialista Obrero Espanol, ossia il PSOE che non ha rinunciato ai suoi riferimenti “operai” e al simbolo benché possano apparire alcuni, come il garofano, il pugno e il termine “operaio” possano apparire come “superati”. Certamente, per evitare defezioni di elettori e di consumatori, partiti ed aziende tendono ad adattarsi al “mercato” di riferimento. Tutto sommato pero’ il cambiamento di nome e/o simbolo per essere credibile deve sostanziarsi in una mutazione di contenuto ed identità. Non ad una facciata. E’ la cruciale differenza tra il concetto di Partito nuovo e nuovo partito fatta da Antonio Gramsci.

Per queste ragioni, l’idea avanzata dal sindaco di Bologna Virginio Merola appare sbagliata nel merito, nel metodo e rischia di far sbandare il Partito democratico. Se l’intento è il rinnovamento allora le nuove proposte di “partito nuovo” vanno avanzate e discusse. Viceversa, se il tentativo e’ quello di una mosca cocchiera solo per le prossime elezioni comunali, forse è meglio soprassedere.

In sintesi, bisogna decidere se il problema è il cambio del simbolo del Pd (per le elezioni di Bologna) o la richiesta di un’unica coalizione dove l’etichetta civica richiama alla distanza e alla vaghezza nei confronti del politico? Del resto, l’utilizzo delle liste civiche viene spesso utilizzato a livello locale per sbiadire appartenenze politiche pensando di attrarre elettori fuori dallo schema destra-sinistra. A Bologna pero’ tale tattica pare lunare.

Il PD credo abbia bisogno di profonde riforme certamente, ma anche di conferme e di ri-costruire la propria identità, senza cestinare in un solo colpo la (breve) storia iniziata nel 2007 allorché si propose come “partito nuovo”. Come riportata dai media la prospettiva delineata da Merola parrebbe una rivisitazione tardiva e fuori luogo di una lista civica “Due Torri” 2.0 che pero’ non trova conferme empiriche quanto a capacità attrattiva. Illo tempore era tutto molto diverso, ma oggi, paradossalmente, l’identità rappresenta un potente attrattore di consensi. Dopo tutto, e non e’ poco, il PD e’ il primo partito in città e oscurando il nome apparirebbe come una forza che si vergognasse della propria storia e quindi celasse quanto ha fatto. Nel bene e nel male. Merola è politico di lunga esperienza, e quindi l’esternazione è plausibilmente legata al tentativo di superare l’impasse in cui la scelta della candidatura del successore pare stia incagliandosi.

Il Corriere di Bologna ha per primo aperto il dibattito sulle primarie, che paiono lo strumento meno doloroso per dirimere le dure lotte sotterranee di questi mesi, tra contendenti, aspiranti e gruppi di pressione.

La legittima aspirazione di Matteo Lepore pare essersi stranamente impantanata tra veti piu’ o meno palesi, autocandidature (alcune delle quali un po’ fuori luogo), nomi di papi stranieri e fughe dalle primarie. La soluzione è invece meno complessa. Il PD (primarie o meno) dovrebbe tornare a parlarsi, costruire consenso, con negoziazioni, intese e persino “scambi”. Quindi il dibattito sul nome/simbolo del PD pare un modo per “scappare” dal PD e dalla sua articolazione.

Il partito democratico e quello repubblicano negli USA, per rimanere al Paese in cui si voterà tra poche settimane, sono cambiati profondamente, a tratti radicalmente, negli ultimi decenni. Ma non hanno mai cambiato nome e/o simbolo. Cambiare il (solo) nome non serve, è sbagliato e soprattutto non basta a perseguire i fini indicati nella proposta avanzata in questi giorni. Per cambiare davvero servono nuove idee, nuove prospettive, nuovi orizzonti e una diversa collocazione geo-politica. Ma allora non basterebbero certo pochi mesi per approntare tale progetto in tempo per il voto. Pertanto il rischio, forse calcolato, è che azioni di marketing implichino quanto detto da Tancredi nel Gattopardo: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi.» Meglio discutere di contenuto che di etichette.