Bologna e l’Emilia-Romagna sono sinonimo di tante cose in politica, specialmente per la sinistra. Certamente lo sono per le primarie; le prime con una certa rilevanza si tennero sotto le Due Torri a ridosso delle elezioni comunali del 1999, che ebbero un esito funesto per il centro-sinistra pur non essendone la causa. Vennero poi le primarie di coalizione, o meglio l’elezione diretta del candidato alla guida dell’Unione per le politiche del 2006. E la regione con a capo Bologna si distinse per partecipazione e soprattutto perché espresse il candidato futuro Presidente del consiglio, Romano Prodi. Primarie ideate, promosse e sostenute da Arturo Parisi, tra i principali ispiratori del Partito democratico. Che ebbe il suo rito e mito fondativo (Parisi dixit) proprio ai gazebo delle primarie nel 2007. La fine (troppo) anticipata della segreteria Veltroni aprì le porte alla guida emiliano-romagnola: prima Dario Franceschini da vice in carica passò alla guida del partito, poi perse le primarie contro Pier Luigi Bersani, di cui restò vice. Dal 2013 l’ultima regione rossa ha ceduto il passo, fino ad oggi. Ha contribuito per anni, silente, laboriosa e leale a riempire il carniere elettorale, di tessere e finanziamenti, del PD nazionale. Ora è giunto il tempo dell’ultimo forte progressista che pur tra mille difficoltà, cedimenti e qualche errore, ha tenuto la schiena dritta alle ultime politiche.
Tra i quattro candidati alla guida del PD, tre sono espressione della Regione. Il presidente della giunta in carica, la sua ex vice e attuale deputata, e la deputata di lungo corso Paola De Micheli. Tra loro ci sarebbe potuto essere anche un altro emiliano, il sindaco della città felsinea, che per ora rimane risorsa e riservista dell’esercito democratico. La sfida pare segnata da un ballottaggio Bonaccini-Schlein. Sono epigono della gloriosa storia degli amministratori locali progressista, che ora giungono al potere del partito. Potranno raccontare del “modello” Emilia-Romagna, un atout importante, ma che potrebbe non bastare e non soddisfare gli elettori italiani, in una fase di cambiamenti radicali – interni ed internazionali – che richiedono un salto di visione, un cambio di paradigma anche rispetto al porto sicuro dell’eccellenza regionale. Il duo Bonaccini-Schlein non parte dal nulla, ma questa volta la sola Emilia-Romagna potrebbe non bastare a governare il Paese lacerato da troppe crisi concomitanti, dalle disuguaglianze nord-sud e da un disegno leghista di secessione imbellettato da orpelli giuridici, e che va rigettato. Per ora la campagna è partita in sordina, poco entusiasmo, comunque limitato ai militanti, qualche scaramuccia, ma nessun vero duello che viceversa potrebbe accendere animi e attivisti e lanciare la volata alla partecipazione. Bonaccini e Schlein dicono di raccontare due storie diverse, opposte, e i rispettivi campi addirittura richiamano le categorie del massimalismo e del riformismo, usandole quali armi contundenti o medaglie da esibire a seconda del contesto, per segnare una distanza. In realtà, Bonaccini e Schlein appaiono, almeno sino ad ora, meno lontani di quanto sembri, e questo potrebbe essere un elemento positivo. Distinti, ma non distanti, diversi, ma non divisi, avversari, ma non nemici. Infatti, sebbene non sia la prima volta che l’Emilia-Romagna esprima parte importante della classe dirigente del PD, potrebbe essere l’ultima se all’esito del voto si materializzasse l’ennesima frattura tra vincitori e perdenti, iattura nella storia della sinistra italiana. Il passato e il futuro del PD ri-passano dalla via Emilia. In attesa di un confronto all’… Emiliana.