Quirinale, l’identikit del perfetto candidato alla presidenza della Repubblica

Il mio editoriale per il Domani 

Molti voti, ma, soprattutto, pochi veti”. Per accedere al soglio quirinalizio è necessario raccogliere un numero cospicuo di consensi, ma per farlo è indispensabile essere il meno invisi possibile. Evitare cioè il giuoco dei veti incrociati che tante illustri vittime ha mietuto sulla strada della presidenza della Repubblica. Dal 1948 in Italia ci sono stati undici presidenti per dodici mandati (Giorgio Napolitano rieletto nel 2015) nonché il capo provvisorio dello Stato, Enrico De Nicola, preceduto da Alcide De Gasperi che da presidente del Consiglio ricoprì per poche settimane lo stesso ruolo nelle concitate fasi post elezione dell’Assemblea costituente e referendum istituzionale. Guardando alle principali caratteristiche professionali, sociodemografiche e politiche dei capi dello Stato è possibile indicare un “profilo” che sintetizzi – senza velleità statistiche – qual è il cursus honorum che favorisce l’ascesa al Quirinale. Sebbene sia stabilito per legge che è necessario aver compiuto il cinquantesimo anno di età per essere eleggibili, l’età media di chi ha ricoperto la carica è comunque molto più elevata di quella indicata nella Carta. Settantadue anni aveva in media chi è stato eletto sino ad ora alla presidenza della Repubblica, con tre di loro sulla soglia degli ottanta. Sandro Pertini il più anziano (82), seguito da Napolitano (81) e da Carlo A. Ciampi (79). Sul versante opposto il più “giovane” fu Francesco Cossiga, che aveva meno di sessanta anni (57) al momento dell’elezione. Soltanto altri tre presidenti sono stati eletti avendo meno di settanta anni: Giovanni Gronchi (68), Giuseppe Saragat (66) e Giovanni Leone (63), che insieme ad Antonio Segni (71) sono i soli ad essere sotto la media complessiva. 

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Giuseppe Saragat: socialdemocratici

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Dopo un liberale e due democristiani fu il turno di un socialdemocratico. Che aveva già tentato la scalata alla Luna contro Segni. E per poco non riuscì nell’impresa, che forse però avrebbe intimorito gli avversari del nascente centrosinistra per l’avvicendamento tra un esponente conservatore della Dc e uno riformista dei socialisti.   

Saragat aveva maturato grande esperienza politica e competenze. Da ministro degli esteri, ambasciatore a Parigi. E soprattutto in qualità di (primo) presidente dell’Assemblea costituente tra il 1946-47. E soprattutto segretario del partito socialdemocratico, a più riprese, prima e dopo la parentesi del settennato al Quirinale. Da antifascista fu costretto all’esilio in Francia negli anni Venti, per poi tornare in Italia all’indomani dell’8 settembre ed essere però arrestato, recluso a Regina Coeli e condannato a morte dai nazisti. Con lui c’era a condividere la sorte un altro futuro capo dello Stato, e socialista, Sandro Pertini. Entrambi liberati grazie a una audace azione di partigiani, avvocati, socialisti, degna di un film d’azione. Ininterrottamente deputato dal 1946 sempre ri-eletto nella circoscrizione di Torino – città natale – fino all’elezione presidenziale e successivamente senatore a vita per diritto. Fu artefice della cosiddetta scissione di “palazzo Barberini”, un’operazione politica d’avanguardia, lungimirante che puntò a scardinare l’asse tra Pci e Psi per proporre una politica di stampo socialdemocratico riformista proprio partendo da una critica al marxismo ortodosso. Ne nacque il Psli nel 1947 e coerentemente con questa scelta si oppose alla strategia elettorale del cartello delle sinistre social-comuniste alleate nel Fronte popolare nel 1948. Le vicende successive alla pubblicazione del Rapporto segreto di Nikita Chruščёv sui crimini dello stalinismo fecero barcollare molte delle certezze socialiste e l’alleanza strategica con i comunisti. Saragat e Nenni, acerrimi nemici, siglarono un patto di alleanza (il famoso incontro di Pralognan, in Francia) che di fatto aprì la strada alla futura creazione del centrosinistra organico con la Dc. E in cui, nel 1963, proprio Saragat ebbe un ruolo di rilievo ricoprendo la carica di ministro degli esteri nel primo Governo Moro. 

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Antonio Segni: le accuse di golpe, lunga esperienza di governo, solo due anni al Quirinale

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La presidenza meno longeva della storia repubblicana. Un anno e mezzo soltanto il periodo trascorso da Antonio Segni alla guida della carica monocratica più importante. 

La presidenza Segni rimarrà però nella storia per la famigerata vicenda del cosiddetto “Piano solo”, poiché sarebbe stato attuato all’uopo soltanto dall’arma dei carabinieri. Il piano fu elaborato nel 1964 dal Comandante dell’arma dei carabinieri con l’avallo del presidente della Repubblica, il quale tra l’altro convocò proprio al Quirinale lo stesso Giovanni de Lorenzo, durante la fase di consultazioni per la formazione del governo, senza che mai questa vicenda sia stata mai del tutto chiarita. Il progetto prevedeva azioni repressive nei confronti di politici, intellettuali, e figure di rilievo che fossero state ritenute pericolose, soprattutto esponenti della sinistra, e l’occupazione della Rai. Il punto dolente è che queste azioni sarebbero state svincolate dal controllo dei civili/governo, ma gestite direttamente dai militari. Una questione dai contorni inquietanti, anche se la storiografia ritiene fosse un’arma di pressione su Moro e Nenni per accettare posizioni più moderate per il centrosinistra e non un vero e proprio tentato golpe. Nenni comunque parlò di un evocativo “tintinnar di sciabole“.

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Giovanni Gronchi: il primo democristiano al Colle

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Un uomo scalzo corre nella notte romana. È Abebe Bikila e vince la maratona alle Olimpiadi del 1960. Da etiope fu una rivincita postuma rispetto all’Italia fascista, e po’ ricordò Jesse Owens a Berlino nel 1938 davanti a un furioso Hitler, e alla guerra che questa mosse al paese del corno d’Africa nel 1935. E che aveva preparato il complesso dell’Eur 1942 per l’esposizione universale che mai avvenne perché la guerra mondiale arrivò, certo, ma l’Italia decise di entrarvi con “maschio” entusiasmo. È il contesto nazionale e il proscenio internazionale che contrassegna la presidenza di Giovanni Gronchi, secondo capo dello Stato e primo democristiano a ricoprire tale ruolo. I giochi olimpici, i Trattati di Roma e il boom economico, nonché il sempre presente confine ideologico – simbolico e sociale – che divideva l’Italia al suo interno e ne faceva un limes naturale e geopolitico tra Est ed Ovest, ridiedero centralità politica alla Penisola dopo le ingiurie del conflitto. Il centrismo come formula politica (con Dc, Psdi, Pli e Pri) era entrato in crisi anche per la contrazione elettorale democristiana del dopo De Gasperi e non apparve più sufficiente per contenere le istanze delle incipienti pressioni sociali e rispondere alle crescenti rivendicazioni di diritti, sociali, civili, individuali. I segnali delle difficoltà della guida democristiana “indipendente” si erano palesati già con il governo Pella e con quello Scelba durante la fase finale del settennato di Einaudi. Solo la fermezza e irremovibilità di De Gasperi avevano consentito di evitare derive estreme ed alleanze pericolose come pure la componente di destra DC, legata ad ambienti curiali vicini al pontefice Pio XII, aveva tentato con “operazione Sturzo” alle comunali di Roma del 1952 puntando a un sodalizio con monarchici e nostalgici del ventennio. 

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Luigi Einaudi: prediche inutili

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Monarchico”. Il primo Presidente della Repubblica italiana aveva simpatie monarchiche e al referendum istituzionale del 2 giugno 1946 votò a favore della soluzione che in caso di vittoria avrebbe istituito una monarchia parlamentare. Luigi Einaudi aveva chiaramente manifestato la sua scelta di voto sulle pagine di un giornale (L’opinione) argomentando poco prima della consultazione che il suo timore fosse per una deriva social-comunista e comunque per una immaturità degli italiani ad affrontare la Repubblica. Il tutto, in puro stile einaudiano, sostenuto e suffragato da dati, numeri, fonti e citazioni. Insomma, un piccolo saggio pur nel sostenere una tesi e una posizione alquanto disallineate rispetto all’élite politica, ai partiti principali e agli intellettuali. La posizione pro-monarchia è da interpretare anche in relazione allo spirito dei tempi, e ad una sorta di populismo ante-litteram. In realtà Einaudi aveva ben presenti le differenze tra i due sistemi istituzionali e non votò monarchia per slancio verso i Savoia quanto per convinzione che in un inesplorato ed inedito scenario repubblicano la debolezza dello stato e dell’economia post-bellica avrebbero fatto naufragare la fragile ritrovata democrazia italiana. Una democrazia parlamentare cui, come ribadì nel discorso di insediamento presidenziale, “aveva dato più di una mera adesione”, proprio a rimarcare la distanza con la precedente opinione espressa nel 1946. 

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