Governi di minoranza

Editoriale per DOMANI

Una possibile soluzione alla crisi di Governo potrebbe essere meno complicata di quanto sembri. È sotto gli occhi, in bell’evidenza, come in un racconto di Edgar Allan Poe, per nulla celata, anzi. Minority Government and Majority Rule è il titolo di un celebre volume di Kare Strøm che analizza i cosiddetti governi di minoranza, i quali pur non beneficiando della maggioranza assoluta di seggi in Parlamento conseguono la governabilità e la stabilità. I fattori che hanno reso tali risultati possibili derivano sia da elementi contestuali che strutturali. I “governi di minoranza” e la “regola maggioritaria” esistono grazie a partiti solidi, disciplinati, coesi. Con una forza parlamentare di almeno un terzo e con l’opposizione divisa, comunque non in grado di coalizzare il resto della maggioranza parlamentare, e la benevolenza di partiti ideologicamente prossimi. L’aspetto ideologico è determinante poiché partiti pure in grado teoricamente di far bocciare l’esecutivo in carica, preferiscono tatticamente e strategicamente tenerlo in sella al fine di negoziare politiche, in taluni casi posti, e anche di trarne benefici elettorali. Storicamente è quanto avvenuto nei paesi scandinavi, in particolare in Svezia laddove il partito comunista non sosteneva, ma non osteggiava i socialdemocratici, coi quali in qualche misura dialogava e negoziava. Un po’, mutatis mutandis, quanto succede dal 2019 in Portogallo con il PS e la sinistra “estrema”.

I governi di minoranza sono comunemente, ed erroneamente, considerati un ossimoro, una bestemmia per la sacralità rituale del principio maggioritario, un’eccezione, necessità temporale. In Europa dal dopoguerra i governi rimasti in carica grazie al sostegno di una minoranza di parlamentari sono all’incirca un terzo del totale, con una dinamica analoga anche nella zona orientale post 1989. Tali esecutivi riescono non solo a durare, ma anche a produrre politiche pubbliche. Quanto i governi “maggioritari”.

Esecutivi di “minoranza” in Italia si sono avuti tra gli anni Sessanta e Ottanta, allorché la Democrazia cristiana procedeva a governi “monocolore” per stemperare tensioni interne alle fazioni, negoziare con gli alleati futuri, rimodulare gli assetti ministeriali, ma anche dopo il 1992 con assenza di maggioranza al Senato per Silvio Berlusconi nel 1994 e per Massimo D’Alema alla Camera nel 1999.

Tra il 1948 e il 2020 in Italia si sono succeduti 63 governi la cui durata media è stata di circa un anno. I Presidenti del Consiglio dei Ministri che li hanno guidati sono stati 29. A fronte di una durata media di 2.6 anni in Spagna con sette capi di governo, 3 anni in Germania con 8 cancellieri, 2.7 anni nel Regno Unito con 15 primi ministri.

Quindi il problema non è (solo) l’ampiezza della maggioranza, ma la sua natura. Le coalizioni italiane erano, e sono, litigiose, conflittuali, a tratti inconcludenti, inefficaci. Le tensioni dipendono dal tipo di partito/i che sostiene il Governo e ciò ne condiziona la durata e l’operatività. La quale nel caso dei “governi di minoranza” può essere accresciuta perché sono costretti a correre e sfidare continuamente gli avversari.

In Italia non ci sono partiti di governo come quelli scandinavi… solidi, disciplinati, coesi, ideologicamente coerenti, programmatici. La disciplina di partito è derubricata a orpello folkloristico del passato, a stalinismo ritorsivo delle libertà individuali, mentre l’andamento individualista, individuale, individualizzato e la ricerca della “felicità” e della fortuna politica personali sono declamate come virtù rinascimentali di esaltazione dell’azione e della volontà razionale. Il peana ultraliberista dall’economia e finanza applicato alla democrazia parlamentare. Con un minimo di prospettiva comparata, librata nello spazio e nel tempo, si vedrebbe, ad esempio, che la coerenza dei partiti americani, tanto celebrati in questi mesi (passerà), ha accresciuto negli ultimi anni il livello di disciplina interna. Con esiti negativi sullo storico pragmatismo in termini di approvazioni di politiche pubbliche condivise, ma con effetti positivi per talune questioni quali la programmazione e attuazione di riforme.

L’esecutivo “Conte II” potrebbe avviarsi dunque ad essere un governo di “minoranza” (quantomeno al Senato) ovvero decidere di costruire una coalizione con una maggioranza ancora più disomogenea anche rispetto al recente passato. Alcuni autori, eccentrici rispetto alla letteratura, li chiamano governi di maggioranza relativa, ma la questione rimane, non nominale, ma sostanziale. Il punto è pertanto politico.

Paradossalmente, ma non troppo, l’esecutivo Conte sarebbe più solido se decidesse di centrare l’azione parlamentare e di governo soltanto sulle forze costitutive, ossia Leu, PD e M5s. Sfidando in ciascuna occasione non la sorte, ma la solerzia degli avversari. Della destra, ma anche della palude non “moderata”, semmai centrista (per carità, le definizioni!), ma opportunista e trasformista. Rispetto ai governi di minoranza “classici” siamo di fronte al problema “coalizione”, ossia a più partiti e anche piuttosto eterogenei. Soprattutto per la “non” scelta, almeno non palese, del M5s. Che pure deve decidere se entrare, e rimanere, nel campo europeista/progressista ovvero tornare tra le fauci del populismo antistituzionale.

Senza Renzi il governo potrebbe teoricamente consolidarsi e rafforzarsi, ma ovviamente dipende dagli attori e, come detto, dal profilo e dalla omogeneità/prossimità ideologica dei componenti l’alleanza. L’orizzonte “coalizione di maggioranza” oltre che legittimo è una sfida ambiziosa. Espone l’esecutivo a una permanente roulette russa, a negoziazioni che generano micro-politiche (perniciose specialmente in questa fase storica) e alimentano lo scambio clientelare.

Un governo di minoranza, con un orizzonte temporale di circa due anni, potrebbe concentrarsi su alcuni punti programmatici (istruzione, lavoro, industria, tassazione, sanità) con progetti ambiziosi, ma ben definiti e chiaramente identificabili dalla maggioranza e dai cittadini. La navigazione sarebbe perigliosa, certo, ma non più che in una coalizione nella quale la varianza interna aumenterebbe in quantità e “qualità” rispetto a quella dell’alleanza appena disfatta. La storia militare è densa di casi in cui poche e organizzate truppe hanno tenuto testa, o sconfitto, masse e avversari numerosi ma indisciplinati.

L’opzione minoritaria e la prospettiva di un’azione coerente e mirata sarebbero anche un argomento ragionevole da sottoporre al Quirinale, anche in vista del semestre bianco durante il quale le turbolenze parlamentari e lo stallo decisionale sarebbero dietro l’angolo con un Governo esposto ai venti del negoziato perenne con singoli.

Lo scenario del governo di minoranza è plausibile, possibile e politicamente ragionevole. Dipende dagli attori politici, partiti e leader, decidere se intraprenderlo, deliberatamente quale opzione di lungo periodo.

Trasformismo italico

Editoriale per IL RIFORMISTA 

Milazzo. Ridente cittadina siciliana, un lembo di terra del messinese che si proietta verso le isole Eolie. Il fenomeno politico quasi omonimo – milazzismo – trae ispirazione però da Silvio Milazzo, politico democristiano e presidente della Giunta regionale. Il quale nel 1958 fu eletto grazie al sostegno del Partito comunista italiano e del Movimento sociale italiano a scapito di un altro candidato “ufficiale” democristiano. L’operazione, in chiave “autonomista”, che ebbe l’avallo delle segreterie nazionali del PCI e del MSI, provocò l’espulsione di Milazzo dalla DC e la sua giunta ebbe vita grama ed effimera. Con tanto di scomunica ecclesiastica per i comunisti.

Superando la distanza ideologica, e il livello di polarizzazione parlamentare e sociale, è possibile che si verifichino alleanze tra partiti all’opposto del continuum tra (estrema) destra e (estrema) sinistra. Ad essere esautorato è il “centro” in un’alleanza tra destra e sinistra, il cui grado di estremismo dipende ovviamente dal contesto nazionale, dal periodo storico, dai partiti. Raro, invero, che accada, ma è successo anche al di fuori della Trinacria. Recentemente la coalizione in Austria tra i Verdi e i popolari di centro-destra (in passato alleati dell’estrema destra di Jörg Haider) richiama in parte lo scenario dell’alleanza tra “estremi”. Viceversa, le coalizioni “anomale”, tra avversari dichiarati e storici, in Europa si sono avute sotto forma di Große Koalition. La grande coalizione si ebbe tra l’altro per molti anni proprio in Austria, per ragioni storiche, non facilmente riproducibili altrove, di divisione in “pilastri” sociali ed economici/politici. In Germania (1966-69) allorché i liberali abbandonarono la CDU per allearsi con i socialdemocratici, e infine quasi ininterrottamente dal 2005. Il che rappresenta un problema soprattutto per l’SPD in cerca di identità, leadership, e politiche oltre che di voti per rispondere alla sfida dei Verdi, della sinistra e della rinnovata classe dirigente cristiano-democratica. Tra gli altri casi degni di nota, il Portogallo che per ragioni congiunturali nel 1983-85 vide la coalizione tra socialisti e socialdemocratici (di centrodestra), in un paese in cui le estreme contano pochissimo.

In Italia recentemente c’è stato il governo cosiddetto tecnico, in realtà iper-politico e iper-partitico, guidato dal senatore a vita Mario Monti tra il 2011 e il 2013 poiché raccoglieva l’intero arco parlamentare (meno la Lega Nord, A. Mussolini e D. Scilipoti).

Nel primo periodo del sistema partitico italiano viceversa, bisogna tornare agli anni Settanta, per trovare un’alleanza tra due partiti rilevanti opposti. La Democrazia cristiana e il Partito comunista diedero vita alla “Solidarietà nazionale” nel quadro del negoziato per il “compromesso storico”. All’indomani del rapimento di Aldo Moro i comunisti votarono, per la prima volta nella storia, la fiducia al Governo DC guidato da Giulio Andreotti, che pure osteggiava l’avvicinamento tra i due “partiti chiesa”. In generale si trattò di una notabile eccezione posto che in assenza di alternanza possibile né praticabile i cambiamenti di governo, di coalizione, di Presidente del Consiglio dei Ministri, avvenivano all’interno del circuito che comprendeva la DC e i suoi alleati laici, con l’(auto)esclusione di PCI e MSI.

L’Italia però è la patria del Trasformismo, la esecrabile pratica parlamentare per cui, su basi individuali, singoli parlamentari abbandonano l’opposizione per unirsi alla maggioranza in virtù di scambi (leciti o meno che siano non rileva) con la parte opposta portando in dono il proprio voto. Dagli anni Novanta sono cresciute le casistiche di deputati e senatori che non solo hanno lasciato il proprio partito, ma che hanno raggiunto il polo avverso, per varie e più o meno commendevoli ragioni.

La cosiddetta crisi di governo (politica e non istituzionale, per ora) dell’esecutivo (II) guidato dall’avv. Giuseppe Conte segnala inequivocabilmente un problema di
chiarezza politica tra elettori ed eletti. Le elezioni politiche del 2018 consegnarono un sistema partitico diviso in tre poli contrapposti e indisponibili a negoziare; lo stallo fu palese durante le prime consultazioni al Quirinale, superate solo in virtù dell’inversione programmatica del Movimento 5 stelle che decise di allearsi con i vituperati nemici capeggiati da Berlusconi-Salvini. Le trattative/negoziazioni/transazioni che avvengono in queste ore nelle adiacenze del Parlamento non devono scandalizzare sul piano morale, quanto mettere in allerta la responsabilità politica degli eletti rispetto al principe democratico. Vero che nel 2018, appunto, non c’era nessuna offerta di alleanze coerente con quelle dei governi Conte, e che pertanto le giravolte del M5s, in grado di allearsi a un tempo con l’estrema destra e con l’estrema sinistra, hanno scombinato gli assetti politico-parlamentari, ma rimane irrisolta la questione della lealtà elettorale.

La crisi di governo è prima ancora una profonda sconfitta dell’etica politica. Non si tratta di mettere in discussione il mandato imperativo, ma il mandato politico. Ciascun lato degli ultras pro/contro Conte ha argomenti politici/elettorali per giustificare ex post le proprie scelte. A chi analizza non rimane che porre la questione, sommessamente.  

A chi rende conto politicamente della propria scelta il parlamentare X che passa dalla destra alla sinistra o viceversa? Non al partito, non agli elettori, non al gruppo parlamentare. Semmai a un ordine del giorno verbale in una conventicola laddove le scelte individuali trovano ampia e rassicurante conferma circa la correttezza. Un indistinto grigio, in cui tutto è possibile, e i passaggi sono fungibili (del resto per anni si è declamato il bello del post “destra/sinistra”). C’è dunque un problema di tradimento politico non argomentato, giustificato e spiegato. Che investe a vari livelli tutti i gruppi politici. Non si tratta di piccoli, sparuti gruppi. Si tratta di centinaia di cambiamenti di schieramento politico durante le ultime legislature. C’è un problema strutturale; di regolamenti parlamentari, di cultura politica, di democrazia, di etica della responsabilità.

Il trasformismo (si veda Giovanni Sabatucci, Il trasformismo come sistema, Laterza) non è pernicioso poiché non si tratta del legittimo, e costituzionale, diritto alla libertà parlamentare senza “vincolo di mandato”, quanto per le conseguenze che genera in termini di “responsabilità”, di accountability. I cittadini/elettori non sapranno, o non vorranno sapere, chi ha cambiato casacca, chi è responsabili di cosa, e il tutto apparirà come un indistinto e non distinguibile copro omogeno dove le parti sono fungibili. Da lì, si alimenta il populismo che non a caso costruisce una dicotomia tra “noi” (popolo virtuoso) e “loro” (classe dirigente viziosa, per rimanere in metafora).

Il Parlamento è sovrano, si dirà. Vero, in parte. La libertà di espressione e di comportamento politico degli eletti deve essere garantito e tutelato. Sacrosanto. Ma, in assenza di un sistema elettorale di impronta maggioritaria (il Presidente Conte ha fatto riferimento a una riforma elettorale in senso proporzionale…) che alimenti il circuito eletto/elettore e di partiti strutturati, solidi e socialmente insediati, il rischio dell’assemblearismo è ricorrente.

Quanto dannosa fosse la pratica di mutare alleanza e schieramento politici lo notò anche Giosuè Carducci: «Trasformismo, brutta parola a cosa più brutta. Trasformarsi da sinistri a destri senza però diventare destri e non però rimanendo sinistri. Come nel cerchio dantesco dei ladri non essere più uomini e non essere ancora serpenti; ma rettili sì, e rettili mostruosi…».

In un Paese di “compari” è necessario porre chiarezza, rendere alternative le proposte, chiare le differenze, distinguibili le opzioni in campo, conseguenti le responsabilità. I cittadini potranno meglio valutare, confutare, decidere di sostenere ovvero di sanzionare chi governa e anche chi si oppone per quanto fatto o non fatto.