Lazio e Lombardia, quanto conta la scelta dei candidati alla presidenza della regione

  • L’elezione popolare diretta del presidente del governo regionale ha accentuato dal 1995 i tratti “personalizzati” delle elezioni; gli elettori in modo significativo assumono la propria decisione (anche) in base alle caratteristiche dei candidati alla guida della giunta.
  • La quota di elettori che vota il solo candidato presidente è pari in Italia, nelle regioni a statuto ordinario, a circa il 9 per cento con un valore prossimo al 10 per cento per i candidati di centro-sinistra, per i quali si registra un trend crescente rispetto a quello per il centro-destra in calo dal 1995 (-5 punti percentuali).
  • Nel complesso i candidati del centro-sinistra ottengono in media risultati migliori in termini di voti raccolti sulla propria figura rispetto agli omologhi di centro-destra.

Lombardia e Lazio saranno test elettorali importanti per entrambi gli schieramenti posto che sono interessati quasi 12 milioni di elettori, oltre un quarto del totale nazionale. La Lega (Nord) mira a confermare il suo candidato in Lombardia, e in Lazio il Pd cerca di bloccare una emorragia di consensi e di senso.

Due appuntamenti cruciali che chiamano direttamente in causa le alleanze, i programmi, ma soprattutto i candidati alla carica monocratica.

Il mio editoriale per Domani lo potete leggere qui

Una città senza padri

Editoriale per il Corriere della Sera

Una città senza padri? Quasi tre anni orsono il Centro San Domenico ospitò una pregevole lectio del prof. Stefano Bologni, eminente psicoanalista di fama internazionale. Il quale indicò con competenza quanto la città fosse, e sia, da lustri, senza guida. Senza una figura paterna che sappia e intenta guidarla (non ammise la figura materna non per spregevole maschilismo, ma perché è proprio così è psicoanaliticamente, disse). Più prosaicamente lo avevamo scritto. Lo avevamo persino previsto, involontariamente. Lo avevamo invocato l’intervento del padre romano ché proprio a Bologna pare non si riesca a gestire in forma ordinata la fase di selezione di candidature nel PD e per il centro-sinistra. Senza primarie nulla salus, che non sono un balsamo, ma rappresentano la più alta forma di partecipazione specialmente in una fase di fratricidio incipiente, e poi sono una delle caratteristiche del PD. Eppure, ci sono figure assai degne e meritevoli, da (in ordine alfabetico) Alberto Aitini, Elisabetta Gualmini e Matteo Lepore. E altri potenziali. In una città che ha molte risorse intellettuali. Ma, adesso, alla deriva nel processo di gestione della selezione degli aspiranti sindaco, la città, o meglio il centro sinistra sta sommando una pessima prova sul piano qualitativo. Le ambizioni sono tutte legittime, ma il senso di realtà non andrebbe varcato. La misura è colma. Ritengo indecoroso il dibattito su presunte candidature di personaggi privi di lignaggio, di alcuna minima credibilità. Il fatto che se ne discuta è un segno inequivocabile di quanto sia depressa la contesa ideale in città; alcune boutades in passato sarebbero passate in cavalleria, oggi aprono i titoli dei quotidiani. Ma non bisogna rassegnarsi, io non lo faccio, al declino. Chi tace per tattica è complice.

A Palazzo d’Accursio si sono scontrati, confrontati e misurati figure del calibro di P. Cervellati, B. Andreatta, G. Campos Venuti, G. Fanti, G. Dozza, Renato Zangheri, A. La Forgia, G. Celli, P. Casini, M. Cammelli, G. Dossetti, L. Pedrazzi, I. Dionigi… per rimanere su una lista non esaustiva, ma indicativa.

Come il PD, nazionale e locale, possa anche solo minimamente considerare plausibili “candidature” di quanti hanno il pregio di aver organizzato una ben riuscita manifestazione di piazza appare irricevibile. Sono caratteristiche poco o punto rilevanti per entrare nell’agorà politica saliente. Qualcuno bisogna che lo dica, per uscire dall’ipocrisia che rischia di avviluppare il dibattito, con danni esiziali. I padri hanno abdicato, eterni adolescenti anche loro, a indicare la strada, a dare l’esempio, a redarguire. Lo spazio per i “ggiovani” è sacrosanto, figurarsi. Ma la distribuzione dei talenti non è ascrittiva né connessa intrinsecamente all’anagrafe. E quando i padri non svolgono il loro ruolo, i pargoli entrano in gioco. E poi raccogliere i cocci è complicato e doloroso. I partiti, le organizzazioni debbono svolgere un ruolo di filtro, di cesura e di censura, di selezione che avviene con superamento di prove. Nel settecentesimo anniversario dalla morte del Sommo Poeta, è forse utile ricordare che proprio Dante vedesse in Bologna non più la vivace città di studi, ma uno spazio infernale: «Qual pare a riguardar la Garisenda sotto il chinato quando un nuvol vada sovr’essa sì ch’ella in contrario penda, tal parve Anteo a me, che stava a bada di vederlo chinare…».

Bologna forse non è sazia e disperata come disse l’arcivescovo Biffi. Ma la pandemia, la crisi sociale ed economica, la hanno segnata. E la colpiranno profondamente, cambiandola. Per ripartire è necessario dare fondo a tutte le risorse economiche, intellettuali, sociali, politiche per rilanciare non solo il ruolo della città in Italia, ma la sua naturale propensione europea ed internazionale. Come ha ricordato Romano Prodi «il condiviso grande traguardo in grado di aggregare i necessari consensi esiste e si chiama Next Generation Eu». Su questo la città esprima progetti, idee, proposte, persone, ossia il meglio che ha. Che è tanto.

Sinistramente

Editoriale per RIFORMISTA

Un pregiudizio. Negativo. L’ottavo segretario del Partito democratico non ha nemmeno completato le operazioni di acquartieramento e rapidi come saette sono partiti profluvi di attacchi, richieste, raccomandazioni, imperativi. Preventivamente, gratuiti e scontati. Ultimo in ordine di tempo su queste pagine, e rilevante per autorevolezza, Angelo Panebianco ha segnalato che Enrico Letta starebbe preparando la sconfitta. Ovviamente non deliberatamente, non intenzionalmente votato e incline alla sconfitta, ma un atteggiamento conseguente all’analisi dello stato dell’arte. E lo starebbe facendo come desumibile dall’accento posto sul tema identitario e in particolare sul tema/bandiera dello ius soli. Si tratta di una lettura critica preventiva con un taglio liberale di destra. L’analisi è errata nel metodo e nel merito. Il ritiro preventivo nella trincea parlamentare dell’opposizione appare come una previsione senza elementi empirici che la sostengano, al limite un wishful thinking. Nel merito l’identità è esattamente ciò di cui ha bisogno il partito, esanime, esangue intellettualmente e introverso. Identità non automaticamente è sinonimo di ideologia, di chiusura. Serve a delimitare i confini. A indicare un “nemico” come insegna Carl Schmitt, non proprio un bolscevico rosso. Ed è bene che ciò avvenga, rispetto alla Lega Nord e alla destra estrema in genere, al populismo fluido grillino, e anche alle velleità residuali della sinistra “alternativa”.

«Progressista nei valori, riformista nel metodo, radicale nei comportamenti». Le parole di Letta sono un primo segnale di ricostruzione dell’identità riformista che il PD si diede nel 2007 con il discorso del Lingotto di Walter Veltroni. Il riformismo, contrariamente alla vulgata comune, non è un minus, non è la parte meno forte dei rivoluzionari. Anzi. È l’aspetto più ardito. Sintomatico che dal 1921, dopo il 1956, il 1968, il centro-sinistra italiano, il 1973, la solidarietà nazionale, e il 1989/1991 ancora se ne parli, quale questione da risolvere. Mentre il populismo avanza e le destre impongono l’agenda.  Il riformismo è meno cena di gala della rivoluzione. E fa più paura tanto che sono i riformisti gli obiettivi primari dei conservatori.

Il riferimento di Letta ai circoli, ai militanti del Partito, alla nuova politica ambientale/economica, al lavoro, e lo ius soli rappresentano un punto di partenza che andrà sviluppato e praticato a livello parlamentare, nel dibattito e nella costruzione della coalizione. Proprio l’identità farà risalire la china al partito. Per cui l’azione di Letta non è per nulla velleitaria o votata alla sconfitta, semmai il contrario. Neanche avesse preannunciato il varo di un piano kolchoziano di economica collettivizzata, la nazionalizzazione della Renault o la tassazione dei grandi capitali. Tra l’altro una politica decisamente progressiva, e progressista, in ambito fiscale andrebbe propugnata da un partito riformista di sinistra non fosse altro che per attuare la Carta costituzionale. Quanto ai ceti produttivi che il PD non rappresenterebbe (più) andrebbe definita ex ante la categoria per evitare nella infruttuosa, anche se in parte ineludibile, conflittualità “impresa/lavoratori”, quasi che i dipendenti pubblici o gli operai non fossero produttivi a differenza degli imprenditori.

Inoltre, Panebianco segnala che il PD nacque per fronteggiare il maggioritario. Ovviamente, è esattamente il contrario: il sistema elettorale vigente al tempo della nascita del PD, e del PDL, era formalmente un sistema proporzionale, con premio di maggioranza. Un sistema proporzionale, majority assuring come nella letteratura internazionale. Ma la logica era quella proporzionale. Come del resto lo era, in parte, quella del 1994-2001 allorché le coalizioni stavano insieme più per vincoli esterni e politici (pro-anti Berlusconi) che per costrizioni formali/istituzionali/elettorali.

La logica maggioritaria era in declino stante la crescente frammentazione intra coalizioni. Il PD nacque nel 2007 non per rispondere al, ma per rilanciare il sistema maggioritario che era stato annichilito da coalizioni “pigliatutti”. Il continuo ricatto di partiti inesistenti e guidati da personaggi per nulla rampanti aveva logorato le esperienze riformiste del 1996-2001 e del 2006-2008. Lo scatto e lo scarto di Veltroni andavano in quella direzione: la vocazione maggioritaria, ossia essere centrali nella società (il vituperato “ma anche” era un forte riferimento nazionale) tanto da risultare egemonici culturalmente e baricentrici nell’azione parlamentare. In questa luce va interpretata la meritoria virata di Letta verso il sistema elettorale maggioritario (legge Mattarella o doppio turno). L’approdo del neosegretario PD pare quello dell’Ulivo 3.0. In questo senso, se proprio una critica ha da essere mossa all’Ulivo è che vinse nel 1996 grazie alla corsa solitaria della Lega Nord, mentre nel 2006 il centro-sinistra vinse per soli 24.000 voti, quasi per caso, e comunque grazie al surplus di consensi attirati dalla figura competente e rassicurante di Romano Prodi. Alla cui coalizione mancava una figura quale quella del PD, forte, trainante.  Di una forza riformista solida, ambiziosa, culturalmente frizzante l’Italia ha bisogno come l’ossigeno. Nei paesi laddove governano le forze progressiste, socialdemocratiche, democratiche, le condizioni complessive di vita sono decisamente migliori, come dimostrano cumulate serie di studi comparati. In Italia la sinistra ha governato per poco tempo e in assenza di una forza trainante e riformista le politiche sono state, colpevolmente, di breve periodo, di limitata gittata e scarsamente lungimiranti. Esattamente per l’assenza di una definita e definitiva identità del PD, prematuramente soffocato nella culla.

Ma il Belpaese coltiva un annoso anticomunismo senza comunisti. Per la borghesia italiana la Sinistra appare sempre, e comunque, indegna, inadeguata, sospetta, da redimersi. Non solo per evidenti, patenti, storiche e conclamate responsabilità e financo colpe, ma in quanto tale. In quanto soggetto che pur tra mille contraddizioni e inadeguatezze collettive e soggettive ha difeso i diseredati, i deboli, gli operai, la democrazia, ha combattuto le disuguaglianze. Ha promosso una stagione di diritti civili, tentando di sovvertire i rapporti di forza. Per i reazionari non fa specie se trattasi di turatiani, pajettiani, nenniani, craxiani o berlingueriani, sono un’unica melassa pericolosa per il popolo. O forse per le classi dominanti, da troppo tempo e in malo modo garantite. Alla borghesia retriva del Paese, da sempre asservita al potere politico ed economico, qualunque esso sia, e qualsiasi cosa dica o faccia, proprio non va bene che i meno abbienti alzino la testa.

Una sorta di bullismo intellettuale, un metaforico istinto omicida, un accanimento, terapeutico forse. Il PD sta faticosamente tentando di risollevarsi, ed è un bene che lo faccia, per il Paese. Al pari delle crisi interne che attraversano la Lega (sempre) Nord e Fratelli d’Italia che però confermano la loro chiara identità funzionale al consenso.

Ma l’Italia, Paese di baciapile reazionari, è colma di giaculatorie sostanzialmente antiprogressiste. Di baronie e di corporazioni autoreggenti ostile a ogni minimo mutamento sociale e dei rapporti di forza tra le classi. Ergo allorché i deboli, gli studenti, gli operai, i non garantiti, gli esclusi hanno provato, con lotte, e non senza costi umani e politici, a fra sentire la propria voce sono stati silenziati. Con le buone o con le cattive. È successo sia ai massimalisti, che pure ragionavano in una logica a somma zero, ma anche ai riformisti. Soprattutto a loro. Perché con le loro folli dee innovative puntavano e mirano alla riforma della società in profondità, alla radice, non allo scalpo di una vittoria simbolica di un pennacchio. I riformisti tentano con caparbia tenacia di mutare gli eventi, con strumenti pacifici, ma non velleitari.

Oggi il PD ha un nuovo leader, colto e raccolto, mite, persino troppo introverso. Ma apparentemente efficace nei metodi, almeno da quanto emerge dalla prime mosse. Sull’identità c’è ancora molto lavoro da fare in realtà: il PD, come ogni partito che voglia evitare di essere un semplice gruppo, deve coniugare due aspetti, due dimensioni. Una forte attenzione all’attuale, al contesto, alle dinamiche politiche, al realismo. Dall’altro, va rilanciata la questione ideologica, l’afflato intellettuale che come ambizione ponga al centro la lotta alla disuguaglianza, il cambiamento. Un occhio al “pane” e uno alle “rose” (Ken Loach), uno sguardo all’immediato e uno al sogno, all’utopia. La combinazione di queste due scelte definisce l’identità.

La disuguaglianza è aumentata, se la distanza tra il salario di un operaio e quello di un top manager è passata da 30 a 250 volte negli ultimi quarant’anni una forza che segnali e combatta questa disparità ci vuole. Se questo significa rimarcare l’identità, ben venga l’identità! Il PD deve stare dalla parte di chi ha di meno, di chi lotta, suda, studia, coltiva, produce, lava, con fatica. E con pochi mezzi. Chi ha tanto, chi ha tutto non ha bisogno dell’identità, dei partiti e della politica. Chi ha tutto è felice che tutto vada come è sempre andata. I reazionari di ogni risma se ne facciano una ragione. Sempre dalla stessa parte ci troverete.

Il Partito democratico e il centro-sinistra ripartano dai sindaci.

Articolo per DOMANI

In principio fu il 1993. L’anno dei sindaci. Eletti “direttamente” dagli elettori, capaci di catalizzare la voglia di cambiamento dopo l’annus horribilis del 1992, con la svalutazione della Lira e l’uscita (con la Gran Bretagna) dal sistema monetario europeo, e molto, troppo, altro. L’elezione dei sindaci rappresentò anche la sede dove sperimentare nuove dinamiche politiche, alleanze, e strategie. La sinistra vinse quasi ovunque nelle grandi città, il centro politico era disorientato, e mise alle corde la destra estrema in cerca di legittimazione e di un padrino. Che puntualmente arrivò: alle porte di Bologna disse che se lui – Silvio Berlusconi da Arcore – fosse stato un elettore romano avrebbe sostenuto senza esitazione Gianfranco Fini, contro l’astro nascente Francesco Rutelli. Entrambi candidati alla guida della capitale d’Italia. Il quel momento nacque il centro-destra, il centro-sinistra arrivò più lentamente.

Il sistema elettorale maggioritario a doppio turno, meritoriamente richiamato da Enrico Letta quale prospettiva strategica per il PD, impose una dinamica bipolare e accrebbe la centralità dei capi coalizione, inducendo i partiti a operare una selezione più oculata dei candidati sindaco. Fu una vera primavera civica e politica. Rutelli, Massimo Cacciari, Leoluca Orlando, Antonio Bassolino – solo per citare i maggiori – rappresentarono uno slancio, il riscatto politico nel momento topico dell’antipolitica, del rigetto del primo sistema partitico della Repubblica, della presunta fine delle ideologie. I cittadini si identificavano con quei paladini del presidio repubblicano in un deserto di agenzie statali delegittimate, sventrate, mal gestite. Ancora oggi il Comune è l’istituzione cui gli italiani rimpongono maggiore fiducia, al quinto posto dopo il Capo dello Stato, le forze dell’ordine e la scuola (fonte: Demos, 2020). I sindaci sono il primo baluardo, e in molti casi l’unico, per la risoluzione di piccole e grandi questioni. Risposte a problematiche crescenti in quantità e qualità, sommersi di deleghe, competenze e responsabilità di fatto dinanzi a un crescente ritiro dello Stato e di territorialità, da sempre debole in Italia peraltro. I sindaci affrontano molte emergenze, ma senza risorse adeguate, né umane né organizzative, praticamente senza stipendio, senza emolumenti. Assimilati a una casta, peraltro inesistente, dal populismo antidemocratico emerso con il nulla intellettuale degli scorsi anni, ove chiunque si occupasse di “cosa pubblica” era messo alla gogna. Politici, persone, martoriate da una furia iconoclasta e abbandonati dai partiti. Emblematico il caso di Antonio Bassolino, politico puro, e ottimo sindaco, che ora rilancia la sua nuova romantica corsa verso Palazzo San Giacomo.

I sindaci rappresentano un tesoro sottoutilizzato, un capitale umano, politico ed elettorale che il centro-sinistra e il PD hanno lasciato fermo in banca. Andrebbero fatti investimenti per rendere produttive quelle risorse. E, ovviamente, non mi riferisco al dibattito interno al PD, che è recente. La questione è consolidata, per molti aspetti logorata.

Nei prossimi mesi si voterà, oltre che per il rinnovo del consiglio regionale in Calabria, in oltre mille comuni, tra cui sei capoluoghi di regione (Bologna, Milano, Torino, Napoli, Roma e Trieste) che fanno somigliare, mutatis mutandis, l’appuntamento autunnale a quello del 1993. Il centro-sinistra è ancora alla ricerca della sua identità, della capacità di proporre autorevolmente le sue idee al campo dei progressisti senza inseguire, assecondare, i populismi o gli estremisti. Partendo dall’agenda riformista, radicale nei principi e salda nei valori. Al centro di questa dinamica ovviamente dovrebbe esserci il PD, rinnovato in idee, programmi, persone. Attingendo proprio dalle centinaia di figure capaci, abili, quali i sindaci. Una vera e propria riserva repubblicana, che il partito pivotale del campo progressista non dovrebbe abbandonare. Andrebbero viceversa coltivati, allevati, quali nuovi futuri rappresentanti a ogni livello istituzionale e di governo. La gestione della res publica a livello locale è una fucina di politici, laddove si affinano le abilità di amministrazione, la conoscenza dei gangli della burocrazia, le inclinazioni negoziali, l’umiltà data dal rapporto con i cittadini, gli ultimi, i bisogni e le disuguaglianze. Investire massicciamente sulla formazione politica degli amministratori, coadiuvarli nella gestione non solo amministrativa, ma nella formazione continua. In questo la guida di Letta, e la sua esperienza alla guida della Scuola di politiche lasciano ben sperare. Anche l’enfasi posta sul partito territoriale, sui circoli, che ad alcuni potrebbe apparire demodé, in effetti rappresenta un investimento di medio-lungo periodo per 1) riattivare la base; 2) motivare gli elettori; 3) ampliare il consenso; 4) raccogliere risorse, umane e finanziarie, in vista delle future competizioni elettorali.

Sono decine le esperienze di buon governo e di amministratori capaci, riformisti. Dal primo cittadino di Bari, all’esperienza di Cagliari, da Reggio Calabria a Bologna, da Milano a Firenze, Bergamo e Latina. Ma anche le decine di sindaci di comuni “minori”, in un Paese con cinquemila comuni sotto i cinquemila abitanti, ossia il 70%. I comuni al centro di investimenti politici, istituzionali e di diritto ammnistrativo (la riforma del Titolo V), culturali e ovviamente di sostegno economico-finanziario. Le strutture della burocrazia comunale in molti casi sono esangui a causa dei tagli al personale, mentre in altri contesti la spinta locale è molto forte (in Francia esiste il ministero alla Città). Il Governo Draghi e il PD rimettano al centro i municipi e i loro cittadini.

Partito democratico

Editoriale per CORRIERE della SERA (Bologna)

Durante la Seconda guerra mondiale il partito conservatore britannico e l’omologo laburista avevano due capi, due leader si direbbe oggi, che parlavano, eccome, di politica. Con visioni alternative, proprio mentre i nazisti si avvicinavano a Dunkerque, praticamente a Trafalgar Square. Un pericolo ben maggiore della pandemia con vaccinazione in corso, francamente. Un partito deve sempre parlare, o meglio discutere di, e confrontarsi con, le idee. È la sua matrice, la sua natura ontologica, la sua missione civica. In ore meste per il Partito democratico, a Roma come a Bologna, prefiche si levano a declamare la necessità di non occuparsi di politica. La ragione sarebbe la pandemia. Il nuovo lavacro intellettuale del millennio. La nuova rivoluzione materialista. Una scusa, una mossa che segna tutta la debolezza culturale, intellettuale e politica di una classe dirigente che è quasi ovunque diventata digerente, in grado di macinare tutto e tutti pur di rimanere ben piantata non nel Palazzo, che è una critica cretina, ma nel pantano dell’immobilismo culturale, dell’ignavia come rischio prospettivo. È un fatto, e le eccezioni, meritevoli e lodevoli, lo confermano.

Senza profonde revisioni intellettuali le organizzazioni politiche periscono. Navigano a vista, e rapidamente incontrano le secche del mero esercizio del potere, che è una missione nobile, ma sterile se diventa fine, e soprattutto senza prospettiva elettorale di lungo periodo, almeno nei regimi democratici. Per capire, e spiegare la crisi (di nervi, di intelletto, di idee) dei democratici è necessario astrarsi, e distrarsi, dalla cronaca. Dallo starnazzo e dai mutui improperi, dalle legittime ragioni di ciascuna fazione, di ciascun gruppo etnico impegnato in una guerra propugnata e propagata scientemente da signori della guerra terrorizzati dalla propria ombra, di notte e di giorno. In cerca di euristiche, di scorciatoie cognitive per capire il mondo, ma dopo le ideologie – non tutte totalitarie – ci sono solo le profferte à la mode di cartomanti mascherati da consiglieri del principe. Lo sbandamento, l’isolamento, le incertezze politiche e organizzative vengono da lontano. Le responsabilità non sono di “tutti”, ché altrimenti sarebbero di nessuno, ma sono distribuibili pro quota. Mancanze, dolo, colpe patenti e latenti, codardia, ignavia, pochezza, leggerezza, avidità… il carnet è vario e vasto. Ma non è il momento, non è opportuno disfarsi di una storia, che è poi la Storia di intere generazioni, di popoli, di operai, di lavoratori, di occhi, di lacrime di gioia e di dolore. Di fatica e speranza, di emancipazione e libertà, di lotta e diritti, di sogni e aspirazioni, di visione del mondo. Da cambiare. Di libri spezzati, di letture tradite e di filosofi dimenticati o abiurati. O semplicemente ignorati da giovani rampanti ripiegati sulle chat non in grado di capire nemmeno la sociologa del quartiere in cui vivono. Lo sgomento di una base ancora generosa, paziente, silente, e disposta nonostante tutto, e tutti, ad esserci. In prima fila, fiera e altera. La resipiscenza non è un processo indolore né facile. La reputazione e la credibilità si riconquistano ripartendo dai fondamentali, dal lavoro, dai diritti, dalle persone scelte per le cariche istituzionali, dai programmi, dalla visione di futuro, dalla lotta alla disuguaglianza. Un programma credibile si lega a persone credibili, con le loro storie e soprattutto con le loro idee, parlate e scritte. Senza scorciatoie, senza ricorrere a messia, ad enfant prodige, ad eccitazioni domenicali, a mobilitazioni da Internet, ma senza profondità alcuna. Ci vuole pesantezza! Il PD proceda dunque con una decisa tenzone ideale, fatta di proposte politiche e di visioni alternative. I democratici rimettano al centro la propria bandiera e la facciano agitare al vento, la facciano tornare cencio, straccio e la blandiscano come declamava Pasolini per “chi è coperto di piaghe […], per il bracciante, il calabrese africano […], l’analfabeta” affinché anche il più povero la sventoli.