Meloni-Salvini contro Schlein-Lepore

Per Niccolò Machiavelli i nuovi Principi per crescere devono costruire dei nemici. E la destra leghista/post-fascista ha individuato in Bologna il bersaglio centrale. Il crescendo di critiche – fisiologiche e democratiche – si è nelle ultime settimane trasformato in un sistematico attacco a Palazzo d’Accursio e in particolare al Sindaco Lepore. Il quale è stato oggetto di intemerate da parte degli esponenti locali del duo Lega-FdI, in particolare per le sue posizioni sui diritti civili, ma anche sui diritti sociali nella proposta della città – ancora da costruire in pieno – “più progressista”. Quel progetto rappresenta un Manifesto ostile su tutti i fronti all’agenda del governo di destra-destra che guida il Paese. Per Palazzo Chigi la città felsinea è il principale e più credibile, e perciò pericoloso, avamposto dell’opposizione sociale, culturale e politica al disegno di ridefinizione dei rapporti di forza in Italia. Il principale avversario, ma anche il baluardo da cui il PD e i suoi alleati potrebbero rilanciare la sfida, e perciò nei radar meloniani disturbano la navigazione futura.

La distanza è netta e profonda, con il rischio, e forse per qualcuno è anche una volontà e un auspicio, che si trasformarsi in frattura. Su tutti i temi cruciali Roma e Bologna sono agli antipodi. Sulla Costituzione, sulla memoria, ma soprattutto sulla storia dell’antifascismo, sullo ius soli e quindi sulla definizione di cittadinanza. Le urla contro le lezioni di Lepore di civismo nelle scuole vanno al di là di uno scandalo solo immaginato. Sui migranti dopo la strage di Cutro, Bologna ha per l’ennesima volta mostrato pietas e solidarietà, mentre a Roma il Governo restava di sasso sulle dichiarazioni del Ministro Piantedosi, allineate alla tradizione del predecessore leghista. Sul progetto nazionale, Lepore ha più volte chiaramente indicato la strada per tenere insieme il Paese evitando che il Sud rimanga stritolato dalla riforma di c.d. autonomia differenziata che suona quale secessione dei ricchi, mentre Fratelli d’Italia ha ormai appaltato alla Lega (nord) il tema per ragioni di equilibrio coalizionale. E anche sulle famiglie omogenitoriali il punto di distinzione è chiaro.

La sinistra bolognese che guida però l’opposizione presenta un Pantheon progressista, mentre la destra-destra una lettura ultra-conservatrice e reazionaria, con chiari tratti di nazionalismo identitario. Sul piano sindacale la Presidente del Consiglio condanna l’”estrema destra” parlando dal palco della Cgil, ma non riesce a rimarcare la matrice fascista dell’assalto alla sede del sindacato, mentre Bologna dialoga con i rappresentanti del mondo del lavoro e della cooperazione e difende i patrioti/partigiani. Dalla città a misura di bambino e di pedone che la giunta bolognese sta varando, alla velocità da incrementare sulle autostrade proposta da Salvini. Il quale ricorda ancora amaramente il colpo di schiena civico-politico delle Sardine che lo mandò al tappeto proprio da Bologna e che consentì a Stefano Bonaccini di rimanere guida della giunta regionale. Insomma, un armamentario di differenze che al di là dei singoli punti, marcano il territorio e preparano il confronto futuro. Meloni e Salvini da un lato e Schlein/Lepore dall’altro. Bologna è sempre stato un simbolo politico, bacino elettorale della sinistra e fucina di amministratori locali; luogo di sperimentazioni e di contaminazioni, di elaborazione politica e di progetti elettorali, dalle prime giunte di centro-sinistra fino all’Ulivo, le primarie e Romano Prodi, fino alla prima segreteria donna del PD. E ancora la persistenza di uno zoccolo duro nei collegi uninominali alle politiche scorse. La contrapposizione non fa bene a nessuno se finalizzata a sé stessa, ma il conflitto ideale e politico, viceversa aiuta a decifrare e a chiarire le posizioni, ad elaborare. Il conflitto di idee, quando sano e pacifico, è un motore di cambiamento. Gli attacchi al duo Schlein/Lepore parlano più di quanto non dicano le dichiarazioni zelanti dei singoli esponenti della destra. La neosegretaria e il sindaco sono giovani (meno di ottanta anni in due), con un ricco pedigree politico e amministrativo e hanno idee chiare sul futuro del centro-sinistra. C’è un nuovo paradigma che va al di là delle singole politiche: la destra ha indicato il campo di battaglia futuro, ha marcato il territorio per scavare le trincee del confronto elettorale del domani prossimo. Bologna è insomma nel mirino politico delle forze di coalizione maggioritarie in Parlamento: è un salto di qualità, il riconoscimento di un ruolo guida del campo progressista, individuato in Bologna e nei suoi massimi rappresentanti, ma anche un potenziale rischio di sistematico attacco. L’asse Bologna – Roma è sempre più caldo e nazionale. 

La Destra conservatrice che manca all’Italia

Il mio editoriale per il RIFORMISTA

Tornate nelle fogne. Carogne fasciste. Molti dei gerarchi, degli esponenti del regime e del partito nazionale fascista erano effettivamente vili e meritavano anche di essere estromessi da ruoli politici, istituzionali e sociali apicali nel sistema repubblicano successivo alla Liberazione e alla nascita della Repubblica. È così sostanzialmente avvenne, sebbene l’epurazione fu parziale nell’azione del governo Parri e insieme all’amnistia del ministro Togliatti resero l’esclusione di quanti coinvolti criminosamente con il regime mussoliniano meno efficace. La messa al bando del disciolto partito nazionale fascista e la limitazione dei diritti politici (in deroga temporanea all’articolo 48 della Costituzione) per i capi responsabili del regime furono un compromesso, ma anche un chiaro segnale di liberazione e di tentativo di riconciliazione nazionale. Di fatto, poi, gli epigoni del fascismo, riorganizzati nel Movimento sociale italiano, furono esclusi dall’accesso al governo, insieme al PCI – sebbene in forme limitate ed evolute nel tempo -, nella nota conventio ad excludendum, che impediva appunto l’ingresso alle stanze governative per i partiti antisistema. 

La guerra di Liberazione dal nazifascismo, la guerra civile, dall’8 settembre del 1943 al 25 aprile del 1945 non era stata per nulla superficiale e in varie zone del Paese, specialmente al Nord, aveva reso sanguinose le ferite sociali profonde generate dal fascismo e dal conflitto mondiale. Come disse con celeberrima retorica Sir Winston Churchill di lì a poco calò una cortina di ferro tra l’Est e l’Ovest, e in tutto ciò l’Italia faceva, letteralmente, da confine. La Guerra Fredda ebbe inizio e con essa la necessità di Stato, derubricata ipocritamente a “ragione collettiva” inibì ogni serio, diffuso, condiviso processo di elaborazione dell’onta autoritaria, delle leggi razziali, dell’odio, della guerra. La memoria non fu e non divenne storia comune, rimarcando distanze e distinguo che acuirono diffidenze, avversione e violenza. L’”armadio della vergogna”, un mobile addossato con le ante a una parete affinché non disvelasse il contenuto di documentazione inerente alle stragi nazifasciste del dopo Armistizio, segna simbolicamente quel rifugio della memoria, tentativo di scappare dal, senza elaborare il Ventennio, e gli interrogativi circa la natura del “consenso”. In Germania i figli interrogarono i padri e i nonni circa le loro attività nel periodo totalitario, mentre in Italia il contesto nazionale ed internazionale, insieme a una congrua dose di viltà e malcostume morale, frenarono una seria discussione sul passato, e come superarlo senza dimenticarlo. 

I partiti dell’arco costituzionale accettarono la presenza di un partito neofascista, che non rinnegava quasi nulla del fascismo, ma lo relegarono giustamente ai margini. Pertanto, la Destra conservatrice non ha avuto solide basi in Italia a differenza del resto dell’Europa occidentale, per i citati fattori nazionali ed internazionali. Il MSI era una formazione legata a doppio filo con il regime fascista, dal punto di vista ideologico e personale. La “politica del doppiopetto” di Giorgio Almirante solo in parte scalfì l’immagine di partito nostalgico, spesso ambiguamente troppo vicino ad ambienti eversivi, quanto meno fino alla campagna sulla “doppia pena di morte” del 1978 in piena emergenza terroristica. Ma l’MSI non procedette mai a rescindere i legami, personali e culturali, con il Ventennio. Non voleva farlo, non sapeva farlo, e in parte non poteva farlo ingabbiato nella Guerra Fredda italiana. Il progetto di Destra nazionale naufragò incagliato negli anni di piombo, mai rivisitati criticamente, mai condannati senza appello. 

Quel ignavo “non rinnegare, non restaurare” propugnato da Almirante che teneva in mezzo al guado il partito neofascista, in un gioco di specchi con il nemico comunista che permetteva alla Democrazia cristiana di ergersi perennemente a baluardo verso gli estremismi. Il piduista Silvio Berlusconi e il mutato scenario internazionale consentirono al MSI di accedere al mondo istituzionale che conta. Molto lavoro fu svolto da Gianfranco Fini che osò sciacquare panni e fez nell’acqua di Fiuggi nel 1995, eliminando i residui fascisti, emarginando l’ala oltranzista e revanchista. Mise Almirante in una teca e provò a creare una destra “normale”. Descrisse il fascismo come male assoluto, visitò Gerusalemme chinando il capo e aprì ai conservatori europei. L’ambizione fu però bloccata da colui che aveva aperto le porte delle istituzioni: Berlusconi espulse Fini reo confesso di tentato golpe e rigettò i nostalgici nelle mani del passato. L’eredità del MSI-Alleanza nazionale, mutatis mutandis, è stata raccolta, rinnovata e rilanciata da Giorgia Meloni. La quale ha le potenzialità per fagocitare la Lega Nord e diventare egemonica nel campo della Destra. Ma per farlo non dovrebbe tornare a un aureo passato, a “ordine, disciplina e gerarchia”, alla triade autoritaria “Dio, Patria e Famiglia”; non all’antico, ma continuare nell’azione di rinnovamento, di modernizzazione. 

Per capire se intenda diventare politicamente adulta sarà utile verificare se Meloni punta a costruire una forza della destra repubblicana, una ridotta della Lega Nord, una costola in franchising del partito di Marine Le Pen (che si ispirò al Msi…), ovvero una sezione fuori tempo e nemmeno troppo edulcorata di Alleanza nazionale. Per divenire centrali nel campo di centro-destra Fratelli d’Italia dovrebbe operare scelte radicali. Nessuna ambiguità sui diritti civili, niente indulgenze su blasfeme frasi di ex colonnelli aennini ebbri, né azioni squadriste come quelle dei delatori di immigrati “citofonatori” emuli di Salvini. La Destra repubblicana italiana deve ri-scoprire De Gaulle, Kohl, Thatcher, … non satrapi postsovietici, orientali o i populisti nazionalisti di estrema destra che pensano al 1918 con nostalgia. Casa Pound va abbandonata, nella forma e nella sostanza, al pari del tentativo di recuperare frange dell’estrema destra. La legalità e l’antimafia ribadite anche nelle scelte dei candidati locali. Il patriottismo sano può avere spazio insieme al ruolo dello Stato, dalla scuola all’economia, ma non può esserci acritica difesa delle forze dell’ordine anche quando ci sono evidenti reati e responsabilità personali.

L’autorevole intervento di Ernesto Galli della Loggia sul Corsera indica alla destra un possibile percorso modernizzatore che però, in realtà, rischia di risucchiarla negli anni Sessanta/Settanta. I concetti evocati rimandano alla destra postfascista e non a quella moderna e conservatrice. E proprio sull’antifascismo, mai “di professione”, ci mancherebbe, ma sempre necessario per le ragioni di italica smemoratezza, Fratelli d’Italia dovrebbe fare di più, molto. 

La Storia repubblicana include il 25 senza cui non c’è il 2 giugno, e su questo andrebbe fatto uno sforzo intellettuale. Nella sua risposta a Galli della Loggia Meloni quasi ribadisce il carattere fieramente identitario della Destra d’antan, mentre lo sforzo andrebbe compiuto nella direzione opposta a quella evocata. Non abbia paura di mollare gli ormeggi. Per costruire una Destra moderna Meloni dovrebbe definitivamente abbandonare gli ululatori di Eja! Eja! Alala e le schegge missine che continuano a infangare la storia patria rimestando in presunti allori del fascismo. Meloni dica chiaramente che non concede credito a millantatori di patrie da difendere, che non ci sono navi da affondare, porti da chiudere, manifestanti da manganellare e centri sociali da sgomberare. Punti alle idee della destra repubblicana, ha molti spunti da cogliere: dal partito repubblicano americano, ai think tank a esso legati, dalla destra francese a quella tedesca e persino spagnola e scandinava. Colleghi che frequenta meritoriamente visti i suoi recenti incarichi. Il suo contributo passerebbe alla storia come modernizzatore, viceversa sarà derubricato a transeunte e il partito avrà scarsa fortuna. La competizione con l’estremismo leghista non giova al partito ed ha breve respiro. Lo spazio elettorale per i conservatori è ampio, ma Fratelli d’Italia ha la zavorra del passato; presunto o reale che sia molti elettori lo percepiscono. 

Che i postfascisti del terzo Millennio “escano dalle fogne” per sempre non può che essere salutare per il Paese. Anziché rigettarli nelle mani del fanatismo vanno accolti e sostenuti i passaggi riformatori, se verranno. 

USA, Trump e le lezioni per l’Italia

Editoriale per IL RIFORMISTA

Sic transit gloria mundi. Silvio Berlusconi definitivo e cinico si pronuncia su assassinio di Muammar Gheddafi, che pure ha ospitato in Italia, con onori reali, accettando tende, amazzoni e cavalli al seguito. La fortuna è cangiante direbbe Machiavelli e gli amici dimenticano presto, e ti lasciano da solo. Deve aver pensato qualcosa di simile in queste ore il 45° Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, isolato da tutti. Tranne dai suoi fanatici sostenitori. Il popolo per il populista.

Verrebbe quasi da essere solidali con il magnate americano che pure non ha mai fatto o detto nulla che facesse presagire un mandato presidenziale all’insegna del rispetto delle istituzioni, della democrazia, dei diritti delle minoranze, della cooperazione pacifica e della riconciliazione nazionale. Gli arroganti, i potenti e i prepotenti ispirano quasi sempre umana pietas quando si avviano sul viale del tramonto, fisico e politico. Ma siccome siamo politica e non una congrega è necessario misurare i politici secondo i loro atti.

Le parole sono pietre, segnano le vite, il corso sociale degli eventi, offendono, lapidano, lacerano, mortificano e provocano reazioni. Generano emozioni ed esasperano gli animi. Per quattro lunghi anni, cui aggiungere quello delle primarie repubblicane che lo incoronò candidato, The Donald, non ha mai, in nessuna occasione celato la sua insolita, insolente, innata e ontologica disaffezione, insofferenza fisica e intellettuale per i vincoli legali, istituzionali e politici che controllano e bilanciano il potere presidenziale. Ha sistematicamente attaccato gli avversari in patria e overseas, gli intellettuali, i complotti di Washington, le corporations, i mass media, the deep State, i burocrati, gli alti ufficiali dell’esercito che non lo assecondavano, i servizi segreti, i consiglieri, i capi di Stato e di governo non allineati, gli stessi membri del suo gabinetto, che sono cambiati con una frequenza molto elevata. Le sedi istituzionali, diplomatiche, i social networks adoprati come clave per colpire chiunque non si allineasse. Scimmiottare gli disabili, irretire i “nazisti dell’Illinois”, fagocitare le critiche nelle conferenze stampa; sempre un metro in avanti verso il declino di questi giorni, delle settimane successive all’election day. L’imbarazzo delle cancellerie europee per le intemerate di Trump, le scortesie, gli incidenti diplomatici, l’arroganza palese e patente durante gli eventi internazionali (sposta in malo modo il primo ministro del Montenegro Dusko Markovic per guadagnare la prima fila durante un vertice della Nato).

Pertanto, osservare la cronaca recente è utile, certo, ma è anche profondamente noioso, intellettualmente pigro ché si perde la prospettiva. Il partito repubblicano, escluse notevoli, degne eccezioni quali D. Cheney, M. Romney, P. Ryan, Bush junior o J. McCain (che lo escluse anche dai funerali), si è accodato al Commander in chief. L’unica postura palesemente oppositiva a Trump e radicalmente ostile con costanza repubblicana è stata quella di Melania Trump, frettolosamente osannata, appunto, dai liberal ambo lato dell’Oceano, dopo averla prima irrisa come complice arpia. Suscita, dunque, un certo scetticismo tanta acrimonia nei confronti del Presidente uscente (vedremo in che forma), segnale inequivocabile della carenza di pensiero critico nei gangli delle istituzioni, un parossistico e pusillanime conformismo tipico della massificazione.

Oggi Trump è un paria. Ma fino a ieri The Donald era cercato, lusingato, non solo perché sì accade a chiunque detenga un po’ di potere (e Trump ne ha e aveva tanto in quanto Presidente USA), ma soprattutto per compiacenza, debolezza, stoltezza, arrivismo e conformismo. Nonché per condivisione di quello zeitgeist populista e antidemocratico che da due decenni almeno avvelena i pozzi delle istituzioni in America, in Europa e in Italia. Ovviamente.

Nell’ex bel Paese per anni hanno pascolato senza controlli idee e personaggi fautori di criminogene azioni, verbali e fisiche, contro le istituzioni democratiche, mortificate dall’insolenza baldanzosa e crapula. Oltre al ventennio berlusconiano che ha disseminato il campo di mine anti-istituzioni con “parole, opere e omissioni”, recentemente abbiamo avuto l’exploit dell’incompetenza osannata come punto vincente. L’ignoranza sbandierata e rivendicata sfacciatamente nei curricula. Il deputato neo-rieletto Luigi Di Maio pronunciò attacchi violenti nei confronti del Presidente della Repubblica. Reo, secondo la giurisprudenza costituzionale grillina, di applicare la Carta e di esercitare le sue prerogative senza però volere conferire l’incarico a uno di loro. Uno sgarbo tremendo. Attacchi irripetibili, oltre che irricevibili (ma questo lo sventurato non poteva saperlo, trincerato dietro lo scudo dell’ignoranza come qualità suprema), e che si esaurirono in un gracido gracchiare sfumato dopo poche ore grazie alla saggezza del Quirinale. Più che un colpo di Stato fu uno scenario macchiettistico, come il fautore del neoqualunquismo odierno nato dal V-day che ha sdoganato le pulsioni neofasciste celate. Mattarella è un signore nella vita e in politica e nelle istituzioni ché Pertini, Cossiga o Scalfaro lo avrebbero rinchiuso a Castel Sant’Angelo, in punizione sui ceci a leggere la Carta. Evocare l’impeachment non è tanto diverso da Trump che attacca e intimidisce il segretario di Stato della Georgia in cerca di voti per cambiare l’esito del voto. Due populisti che come infanti scalciano perché la realtà è diversa da come vorrebbero.

Indimenticabile il Presidente del Consiglio Giusepp(i) Conte prono dinanzi a Trump recitare il salmo del cambiamento: “il mio (non quello italiano, n.d.a.) Governo e l’Amministrazione Trump (pronunciato Truaamp) sono entrambi governi del cambiamento”. Assunto ovviamente come assioma di positivo (M. Damilano, Processo al Nuovo, Laterza) in quanto “nuovo”, scordando beatamente il presidente del vero change Barack H. Obama.

E ancora i grillini (di cui Conte è espressione e ispirazione) dichiarare urbi et orbi che tutto sommato Trump e Hillary Clinton pari sono, per cui non presero posizione, ossia la conferma dell’antipolitica. Ma anche l’intero programma (o minaccia) del Movimento 5 stelle è in fondo basato su un atto eversivo, celato come metafora di rinnovamento purificatore: aprire il Parlamento come una scatoletta! E quasi mai nessuno ha condannato sistematicamente tale atteggiamento, tutti colpiti da incurabile blesità istituzionale. Mentre il corpo dello Stato, delle istituzioni e della democrazia incassavano, indebolendosi. E la società si mitridatizzava, nutrita o esposta a piccole dosi di veleno. Fino a quando?

Personaggi in cerca di autore e photo op, come il casareccio senatore M. Salvini (eletto a Locri) che intrepido ottenne una comparsata con Trump (non ancora Presidente), il quale non lo volle incontrare nel 2019 e ne tessette pubblicamente, legittimamente le lodi, fino a ieri. Tace oggi. Del resto, sul piano internazionale e diplomatico il truce non è proprio a suo agio tra le feluche diplomatiche. Anzi sbanda, acerbo dell’abc istituzionale. Vasta è la letteratura sul tema, e scelgo solo per brevità e carità di patria gli attacchi costanti della Lega Nord e di Salvini al Quirinale, alla patria, alla Bandiera, all’inno nazionale. Mentre si sperticava a difendere i satrapi polacchi e ungheresi, o a far visita ai carcerati omicida, o a non votare le sanzioni contro il dittatore Lukashenko (astenuto come gli ignavi). Il sostegno alla Russia dell’amico Putin (e viceversa) salvo poi pietire un incontro con l’Ambasciatore americano a Roma per rimediare ché per fortuna l’asse atlantista dell’Italia è ancora solido e non guarda troppo agli autocrati. Sorvoliamo su Umberto Bossi che diede lustro al messaggio antidemocratico padano per due decadi. E nessuno a difendere tenacemente. Cercare risulta indarno. Anche Giorgia Meloni, eterna promessa, ondeggia tra i Conservatori europei e i nazional-reazionari di Polonia, Ungheria e USA, intrappolata nel ricordo del passato, e non condanna Trump, ma pare compatirlo, comprenderlo, compiacerlo.

Trump rimarrà nella storia americana per un grande merito, involontariamente palesato. Avere dimostrato non solo che il Paese è profondamente diviso, ma che esiste una parte della popolazione che detesta non solo Washington, ma anche la democrazia, che odia le minoranze e le diversità di ogni risma. Che abbevera il proprio bagaglio ideologico nella logica da saloon del far West.

Ma la Storia, non solo quella americana recente, ma anche quella europea ed italiana, dimostra, e dovrebbe insegnare che assecondare il populismo è periclitante.

Per cui, per il 2021, è necessario rilanciare l’impegno democratico e riformista. Si impegnino i democratici, di destra e di sinistra, a bloccare gli antidemocratici di ogni risma, dal radicalismo di estrema destra o estrema sinistra. Dai giustizialisti, ai rosso-bruni, ai populisti da tastiera o di campagna. Per evitare un brutto risveglio tra qualche mese.

L’insegnamento di Piero Calamandrei è sempre illuminante: «[…] la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni, e che io auguro a voi, giovani, di non sentire mai».

Confido nella capacità di resipiscenza degli italiani.

Le radici della protesta. Autoritarismo borghese.

mio editoriale per IL RIFORMISTA

Nessuno controlla la Piazza, che però non è nemmeno spontanea. La radice della protesta mascherata dalla pandemia rimanda in realtà a una matrice autoritaria che per ora non ha spazio diffuso, ma che si allena per esperienze futuribili. La spinta principale a “scendere in piazza” deriva dalla paura: non del contagio o del confinamento, ma, piuttosto, della perdita di status. Il timore che la condizione di relativo privilegio venga messa in discussione dalla “crisi”, ossia dal cambiamento dalle politiche attuabili quali risposta alla crisi sanitaria, e quindi dalla potenziale riconfigurazione sociale che ne deriverebbe. L’impalcatura autoritaria dei movimenti si nutre sostanzialmente della preoccupazione della classe media di ritrovarsi in crisi economica, ma soprattutto di condizione e percezione sociale, ed è esposta alla temperie di tentativi di egemonia da parte di vari attori che però non hanno la forza intellettuale e organizzativa per guidarli.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il COVID-19 con il suo portato di impatto economico-finanziario, sociale, psicologico e politico è stato il fattore scatenante, ma solo in parte. Sarebbe infatti distorsivo considerare il “Virus” quale variabile determinante nel processo di attivazione di movimenti di protesta che in queste settimane, e probabilmente in quelle future, stanno crescendo nelle piazze italiane delle grandi città. Esistono ragioni più profonde, strutturali, sociali, economiche e politiche che hanno consentito ad alcuni imprenditori della piazza di attivarsi grazie alle opportunità offerte dalla pandemia.

L’Italia è un Paese fortemente diseguale (World Inequality Database e Banca Mondiale), con potenti elementi di divisione economica e quindi sociale che attraversano ambiti dell’intera comunità seppur con accenti diversi. Sono distanti le potenzialità tra grandi città e comuni interni, tra aree del Nord e periferie del Sud, tra giovani e adulti, tra uomini e donne, tra lavoratori e disoccupati, tra chi “ha” di più e chi possiede sempre meno. Tra il 1984 e il 2009 la percentuale di ricchezza posseduta dall’1% della popolazione è passata dal 6% al 10% circa, mentre contemporaneamente la concentrazione di fortuna nelle mani del 10% più abbiente dei cittadini è cresciuta dal 23% del 1985 al 32% del 2016%. Inoltre, sono quasi 2 milioni le famiglie in condizione di povertà assoluta, pari a circa 4,6 milioni di individui (7,7% del totale, Istat 2019).

La fragilità sociale derivante dalla disuguaglianza economica si somma alla scarsezza dei pilastri della mediazione politica, partiti e sindacati, un tempo numi tutelari dei più deboli e diseredati. I partiti, specialmente, quelli di sinistra, hanno quasi-abdicato alla funzione storica di lotta all’ingiustizia sociale, alla povertà, parola biecamente sostituita da anglicismi o neologismi. Un’onta da nascondere, un azzardo parlarne. Anche i sindacati paiono ormai rifugiati nella difesa dei difendibili, e non scovano più gli ultimi della classe, non incalzano nemmeno i governi nominalmente amici per politiche simboliche quali il rinnovo del contratto di lavoro dei dipendenti pubblici, dissanguati da anni di liberismo selvaggio, cui pare il Ministro Gualtieri voglia, meritoriamente, rimediare.

Ma la “povertà” da sola non basta a mobilitare, come evidente dalla Storia; si pensi alla Rivoluzione francese, su tutte. Senza la borghesia i sans-culottes sarebbero stati massacrati dalla gendarmerie di Luigi XVI. E, inoltre, è bene ricordarlo, non siamo ai moti per il pane ché l’Italia dispone ancora di un solido sistema di welfare, di strutture di sanità pubblica e universalista nonché di risorse materiali da redistribuire e, infine, di una rete di associazionismo solidale che all’uopo sopperisce alle carenze collettive.

Pertanto, delle manifestazioni di piazza delle ultime settimane è possibile ritenere tre punti fondamentali:

  1. La testa del movimento è a destra. Nell’estrema destra che punta a rilegittimarsi, dopo anni di laissez-faire civico, di smemoratezza storica e abbandono delle postazioni, delle casematte, dell’antifascismo, non nominale, ma della cultura repubblicana. Stoicamente coltivata dal Quirinale, ma trascurata dai partiti.
  2. Si tratta di un processo di ri-mobilitazione. Secondo Gino Germani, celebre sociologo politico emigrato in Argentina per le persecuzioni fasciste, la mobilitazione inizia quando la società inizia a disgregarsi. La mobilitazione secondaria, portata avanti da coloro che temono il protagonismo degli esclusi ben si addice alla fase in corso. Una sorta di contromobilitazione. Nel caso in specie però la borghesia non si scaglia contro i movimenti operai, ma contro il Governo, nazionale o sovra-nazionale che sia. Un paradosso, in parte, qualcosa di inedito e inquietante.
  3. Ad attivarsi non sono, ovviamente, i ceti popolari e popolani, ma è la classe media, la borghesia persino, ossia quei settori che sentono/temo una perdita possibile di status.

La borghesia dirige il proprio malessere e malcontento verso il Governo e le presunte élite. Che però, notorio, questo il grande abbaglio populista e il dramma culturale, non esistono. Specialmente in Italia abbiamo piccole burocrazie di partito e gruppi dirigenti di scarso lignaggio e leadership occasionale, ma per nulla egemonica.  È cruciale dunque capire, individuare e spiegare chi attiva il processo di mobilitazione, chi si attiva, ovvero è ri-attivato; chi è soggetto alla mobilitazione ed eventualmente alla smobilitazione. A dar vita al movimento sono “vecchie glorie” del neo-fascismo con cui la legge è stata troppo indulgente, insieme a ultras del calcio in astinenza da adrenalina domenicale. A questi si uniscono sinceri democratici esasperati dalla crisi economica generata dal COVID. Nella dilagante fase di individualismo e individualizzazione la lettura principale delle manifestazioni di piazza vede pertanto il malessere economico coniugato con un pizzico di sciacallaggio ribellista senza colore politico. È una lettura superficiale e dozzinale, mentre il disegno è piuttosto chiaro come la Storia del Paese e dell’autoritarismo di ogni latitudine. Certamente esistono delle differenziazioni tra grandi città e piccoli centri (sin ora non investiti, non a caso, dalle proteste), tra aree geografiche (il sud più esposto a derive di estrema destra e il nord all’estremismo di sinistra), tra lobbying di categoria, corporativismo, esasperazione, e ribellismo. Una sorta di potpurri in cerca d’autore e soprattutto di leadership che, statene certi, non sarà né Salvini – senza physique du rôle, né Meloni – che si ostina a non modernizzare il partito, tantomeno l’estrema-destra militante senza leader. La marea potrebbe però dilagare disintegrando parti della tenuta sociale.

Le Democrazie per quanto solide non possono però cavarsela con sermoni ed appelli al senso civico. I Governi hanno il dovere di rispondere alle istanze provenienti dal basso proprio per evitare di alimentare il fuoco autoritario. L’uomo piccolo-piccolo, il borghese di Cerami/Sordi fa più paura della massa perché potrebbe fare “scuola” e innescare un processo imitativo di rivolta e di disintegrazione del sistema. I partiti democratici dovrebbero intervenire e guidare, incanalare, assorbire la protesta e gestirla entro dinamiche istituzionali, senza timore di ricevere qualche sonora critica dato che la posta in palio è molto più grande di un piccolo sgambetto nei sondaggi. Il COVID ha solo reso palesi e patenti le contraddizioni sociali, economiche e politiche della società italiana che si risolvono soltanto con il conflitto. Dipende da chi avrà la capacità di guidare ed egemonizzare il processo di transizione, chi sarà in grado di mobilitare, eventualmente di ri-mobilitare, per evitare il rischio di smobilitare. Che significa, sempre Germani, una deriva autoritaria compiuta con silenziamento di ogni partecipazione degli esclusi.