Non Conte o Renzi. Italia, chiamò.

Editoriale per IL RIFORMISTA

La leadership la fanno il testo e il contesto. I vincoli e le opportunità formali, ma anche le condizioni date, nonché, evidentemente, i caratteri individuali. Inforcare le lenti della razionalità è poco o punto utile, non aiuta a comprendere, tantomeno a spiegare la crisi politica in corso. Ciascuno tra gli attori in gioco ha un proprio set di idiosincrasie, tattiche, strategie, fisime, ambizioni, vizi e virtù. A volte compatibili, altre non riducibili a sintesi. Tentare di ricondurre ad unum la molteplicità secondo schemi “logici” non giova, e soprattutto non è possibile. I protagonisti della crisi si muovono secondo schemi dettati da agende personali e di parte, “testa e cuore”, “lacrime e sangue”, “sangue e …”. La dovizia di dettagli di cronaca fa perdere lo sguardo lungo. Per cui meglio non indugiare su singole dichiarazioni di taluno. Esistono vincoli istituzionali, nazionali e internazionali ben più ampi, stringenti e di lungo periodo. L’Italia, Paese fondatore dell’Unione europea, membro della Nato, non puo’ agire come se fosse sganciata da legami storici, culturali, economici/finanziari, militari ed istituzionali con il mondo circostante. Di cui è parte integrante e in alcuni casi anche componente essenziale, come l’Europa. La quale, in quanto organizzazione sovranazionale con sogni e aspirazioni federalisti, non puo’ permettersi che un Paese cruciale come l’Italia sia in crisi. Non, evidentemente, in termini di legittima e libera competizione tra i partiti, di equilibrio tra poteri e cambio di maggioranze, di scontro tra leader di partito, o di sovranità parlamentare. Quanto in riferimento a una crisi sistemica verso cui il Paese si sta avviando. A prescindere da chi sia alla guida nella congiuntura. L’Europa, e l’ambiente internazionale, per quanto biasimati da una mentalità politica prevalentemente provinciale e avventata, rappresentano l’àncora di salvataggio dell’Italia.

I principii, le regole – quelle scritte e le prassi -, i rapporti di forza, gli interessi nazionali, i patti siglati e quelli da concludere, i negoziati e le trattative. Un insieme, una fitta rete di relazioni che pongono l’Italia in un contesto ben più ampio di una conferenza stampa o di una passeggiata a favore di telecamera.

Lo status, il prestigio del nostro Paese sono stati faticosamente costruiti sulla reputazione, la capacità di portare a termine il compito assegnato, di rispettare le regole. E all’estero, bon gré mal gré, a torto e a ragione, in taluni ambienti l’immagine del made in Italy politico è ancora piuttosto fragile. Ricordiamo che fu solo grazie ad Azeglio Ciampi che i tedeschi accettarono di includere l’Italia nel club Euro ché mal celavano sfiducia verso il complesso del sistema Paese. I galloni si guadagnano sul campo, e non dipendono soltanto dalla presenza di ministri credibili (e qualcuno andrebbe defenestrato ad horas), ma dalla capacità di rispondere ai problemi seriamente ed efficacemente. Gli americani la chiamano delivery.

Il Presidente del Consiglio dei Ministri, in quanto tale, ha il dovere, l’onere e persino l’onore di condurre il Governo, e di “dirigerne” la politica (art. 95 della Costituzione), ma è anche dinanzi alla sfida politica di tenere insieme la coalizione. Al di là dei punti di vista individuali e di tutte le posizioni e le mutue critiche legittime, è il capo del governo a dovere tenere unita la maggioranza, con l’ausilio dei partiti e dei loro leader. Più o meno simpatici, avventati, improvvidi, lungimiranti, scontati, coraggiosi, pavidi, tattici o strateghi, ciascuno li reputi a seconda delle sintonie politiche. E procedere ad azioni congruenti. Vero che la situazione è grave, inusitata, inedita, eccezionale, ma su taluni passaggi non potrebbe tacere nemmeno il più fervido, fervente sostenitore acritico. Le scuole e le università andrebbero riaperte, con criteri e in sicurezza, al più presto. Per esempio. Senza indugi.

L’arrocco di Matteo Renzi, dopo la “mossa del cavallo”, è difficile da decifrare per quanto detto sin ora in termini di limiti di “testo e di contesto”, di umane fragilità e in-compatibilità. Nel merito il senatore Renzi ha proposto, e in parte ottenuto, modifiche ragionevoli, sensate e assai utili sulla gestione del Recovery Fund; avrebbe forse potuto entrare nell’esecutivo occupando un dicastero prestigioso e da lì fustigare. Analogamente, il Partito democratico pare avere maturato la convinzione di dover virare su un’azione maggiormente riformatrice, decisiva, visibile, concreta, votata all’uguaglianza, agli investimenti e meno alla distribuzione, alla prospettiva di lungo periodo. Tutte azioni nelle corde, nelle idee e nella storia del PD che quindi ha il dovere di metterle in pratica. Senza tergiversare oltre ovvero dire che tutto sommato molto è stato fatto. Il Paese aspetta e merita di più. E in questo ancora una volta l’Europa come contesto in cui far valere il nostro peso e incidere sulle decisioni, cogliendo le occasioni per crescere, quasi da essa fossimo condannati al successo (come titolava un volume curato tra gli altri da Sergio Fabbrini).

Non sarà una crisi breve. La prospettiva di una lunga azione di trincea però genera foschi scenari con posizionamenti continui, perdite complessive per ambo le parti ed esanime, esangue il Paese. La fantasia politica italiana può giovare per scovare una soluzione, ma i tempi lenti degli anni Ottanta sono superati. Appoggio esterno, appoggio “estero”, governo “balneare”, governo dell’astensione, o della distensione… Governo Conte, governo Conte con/senza Renzi… Tutto tranne maggioranze abborracciate, improvvisate, patchwork parlamentari, non espressione di forze politiche, sociali, ma aggregazioni, di singoli feudatari. Siamo pur sempre il Paese del trasformismo, ma c’è un limite: la decenza.

Ancora una volta, l’ennesima, il Presidente della Repubblica, ha pazientemente tessuto le relazioni con i gruppi parlamentari, persuaso, ammonito, richiamato, ed ha assicurato che i piani economici fossero messi al riparo dalle intemperanze politiche e partitiche. Mattarella, che come sappiamo sarà in carica fino a febbraio 2022, ha anche invitato a lavorare uniti, il che non vuol dire che le forze politiche debbano insieme, tutte, sostenere lo stesso governo senza distinzione alcuna. Il varo del Conte ter non elude un prolungato negoziato, fuori e dentro il Parlamento. Per certi versi è un bene.

L’Italia però deve accelerare su vari fronti. Per molti aspetti la classe dirigente (non solo quella politica) appare sfalsata, sfasata, distonica rispetto alla popolazione. Il che ovviamente non implica seguire gli umori del volgo, come predica certo populismo. Ma la Democrazia cammina solida se tutte le parti sono incluse nel processo. La crisi, non quella di Governo, o quella parlamentare, ma quella sistemica è dietro l’angolo e potrebbe travolgere le istituzioni in un ben prevedibile collasso democratico. Ma, appunto, esistono i vincoli formali e congiunturali che reggono il corpo barcollante del Paese. Per poco ancora.

Il Sommo, scomparso settecento anni fa, si doleva del destino italico, sociale e politico. Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie, ma bordello!» Usciamo dal Purgatorio.

Lega Nord. Parola di Shakespeare

Editoriale per DOMANI

«Cosa c’è in un nome? Ciò che chiamiamo rosa anche con qualsiasi altro nome conserverebbe sempre il suo profumo». Giulietta, rivolgendosi al suo amato Romeo nell’omonima celebre opera di W. Shakespeare, segnala che le persone e le cose conservano la loro identità al dì delle convenzioni con cui le identifichiamo.

Con molta meno poesia, mutatis mutandis, il fatto che la Lega Nord abbia tentato di cambiare nome, in taluni casi lo abbia persino fatto, e che si sia proposta quale partito della nazione e post-ideologico, non ne nasconde l’essenza. Non basta per superare la natura, il carattere ontologico, genetico, di partito regionale, regionalista e di estrema destra. La Lega Nord è nata per l’intuito di Umberto Bossi sull’asse dell’anti-meridionalismo e dell’anti-centralismo, puntando a sfruttare la frattura (il cleavage) centro-periferia, ove ovviamente Milano rappresentava la periferia politica, non essendolo sul piano economico/finanziario. Le oscillazioni programmatiche, alleanze, proposte, e leadership che dal 1991 hanno segnato la vita politica e parlamentare del Carroccio non hanno però mai messo in discussione il tratto identitario: l’avversione per il Sud. A volte i toni sono stati mitigati, il senatore della Repubblica Matteo Salvini ha tentato di celare il carico di rancore e risentimento che il suo partito ha per decenni alimentato avventurandosi in complimentosi atti di riguardo per i manicaretti della tradizione regionale post borbonica. Una manovra di corto respiro ché invece la svolta avrebbe implicato scuse formali, pubbliche, per la contumelia contro i terroni, “Roma ladrona” e il lassismo dei cittadini extra-lombardoveneto. Non dico inginocchiarsi come Willy Brandt, ma quantomeno rinnegare il precedente approccio razzista, con parole, opere e omissioni. E invece, nonostante le illusioni o la naïveté di troppi, il tratto nordista, anti-nazionale e anti-statale del partito permane, perché nessuno ha inteso modificarlo.

Il bagaglio ideologico della LN è intriso del tratto originario che lo vincola indissolubilmente al territorio da cui è giunta sul proscenio. Il partito ha prima sostenuto l’Europa delle Regioni per poi lanciare strali contro Bruxelles e abbandonare non già la moneta unica quanto la prospettiva federalista, ossia di unificazione di paesi per secoli combattutisi. L’euroscetticismo infatti spiega molto del consenso al partito. Ne consegue l’asse con i satrapi dell’est Europa, i nazionalisti di ogni risma e la ferocia del darwinismo sociale. Il tutto coniugato in prospettiva sub-nazionale e la difesa dell’interesse del Paese solo bieca facciata elettorale. Prima il Nord, lo slogan della campagna elettorale regionale di R. Maroni nel 2010, dimostra che le radici sono salde e profonde. E infatti gli attacchi alla leadership del partito vertono proprio sul “tradimento” delle origini. Leggi tutto “Lega Nord. Parola di Shakespeare”

America. Paese lacerato, non solo da Trump

Editoriale per DOMANI

È ormai chiaro il risultato politico ed elettorale delle presidenziali 2020, mentre il verdetto sul numero di Grandi elettori che comporranno il Collegio che formalmente eleggerà il Presidente della Repubblica degli Stati Uniti dipenderà da questioni legali/amministrative. Nelle more è possibile ritenere alcuni punti cruciali del voto USA. Evitando, come direbbe Francesco Guccini, di “parlarsi addosso” inseguendo l’ultimo lancio di agenzia sulla Pennsylvania, la dichiarazione della CNN e similia.

Il voto consegna un Paese diviso, frammentato, altamente polarizzato. Si tratta di una conferma e non di un esito generato dalle urne del 3 novembre. Gli Stati Uniti sono polarizzati su vari assi. Sul piano ideologico le distanze tra Repubblicani e Democratici sono sempre più ampie, e anche nei due partiti l’ala radicale pesa significativamente e guida l’orientamento ideologico e le proposte di policy. Ne consegue una crescente frattura anche all’interno del Parlamento in cui il voto sul merito è stato fagocitato dalla disciplina di partito, per cui anche su temi trasversali contano di più le appartenenze che le politiche. Per dare contezza di tale distanza, si consideri che per la prima volta nella storia recente la nomina presidenziale di un giudice della Corte Suprema federale (A. Coney Barrett) è stata confermata dal Senato senza nemmeno un voto del partito opposto a quello del capo dell’Amministrazione (Scalia fu votato da 98 senatori). Lo stesso accade sulla sanità, e l’Obama Care divenuto un tema da crociata ideologica tra sedicenti liberisti e presunti propugnatori del socialismo reale. I diritti civili, ferita sanguinosa sin dal capolavoro politico abolizionista di Abraham Lincoln, permangono quale frattura sociale, con tensioni crescenti fra gruppi etnici. A questo si aggiunga la potente segregazione economica e sociale tra l’1% della popolazione che detiene quasi tutto e la base che accede a malapena al poco (tra il 1974 e il 2016 l’indice di Gini è passato da 0.34 a 0.41). La disuguaglianza aumenta tra gruppi etnici con le famiglie bianche dieci volte più benestanti di quelle nere e meno investite dalla disoccupazione (14% vs 18%, fonte: US Department of Labour), le quali rischiano tre volte di più di finire nelle maglie della povertà (8% famiglie bianche, 21% famiglie nere). E come conseguenza una disparità anche nel fato: i neri sono il 23% dei morti per COVID a fronte del 13% del loro peso sull’intera popolazione americana. Anche se per le scelte di voto i latinos hanno in parte deluso le aspettative democratiche in Texas e Florida poiché quel gruppo è eterogeneo, e una parte proviene da Cuba e Venezuela e perciò più affine con l’impostazione Repubblicana.

Il voto ha poi esacerbato la distanza tra città e campagna, tra centro e periferia. Tra zone rurali e urbane, ma anche tra aree geografiche del Paese. Una segregazione persino urbanistica, con contee in cui è praticamente impossibile incontrare un diverso da sé sul piano politico-ideologico. Solo il 3% ha scelto chi votare nell’ultima settimana prima del voto, a conferma del processo di auto-configurazione e consolidamento della identità, come pure evidente dalla rappresentazione dicotomica fatta dalle principali TV, Fox e CNN. Una auto-reclusione entro confini valoriali simili, per escludere l’altro. La mappa elettorale pone benissimo in evidenza che esistono, e persistono due Americhe: quella del voto nelle grandi città, dove i Democratici surclassano gli avversari con percentuali da regimi autoritari, e viceversa aree in cui i candidati del partito Repubblicano travolgono ogni possibile sfidante. Da anni. In Alaska, Idaho, Nord e Sud Dakota, Nebraska, Oklahoma, Utah, Wyoming …  i repubblicani vincono ininterrottamente dal 1972. La probabile vittoria dei Democratici in Georgia non avveniva dal … 1992 (e ci fu la candidatura “terza” di Perot). Il partito Democratico è un partito urbano, quasi ancorato alle riserve dei grandi agglomerati urbani, mentre il Grand Old Party conserva un tratto “nazionale”, ossia più diffuso e omogeneo.

Ma poi esistono due Americhe, due spaccati sociali degni di un romanzo di P. Roth. Del resto per predire il voto il tema più significativo capace di orientare le scelte di campo è l’atteggiamento verso l’aborto. Con i favorevoli decisamente pro-Dem e i contrari pro-Rep, specialmente nella componente evangelica. Cui Trump ha dato fiato, legittimazione politica e copertura culturale partecipando alla marcia del movimento pro-Life (Obama guidò l’omologa in ricordo di quella partita da Selma) e non rinnegando le esaltazioni di odio sociale e ideologico dei negazionisti e suprematisti bianchi e dei complottisti di QAnon (la fanatica J. R. Perkins è stata eletta senatrice in Oregon).

Pertanto, se l’America socio-politica del 2020 in parte è un mix, una dicotomia tra l’atmosfera rurale dell’American Gothic e uno scorcio newyorkese à la Woody Allen, dal punto di vista istituzionale, la prospettiva è meno lacerata. Il sistema sta dando prova di solidità, e i ritardi e le complessità appaiono tali sono agli occhi di osservatori disattenti.

La strutturazione del sistema politico-istituzionale secondo la celebre formula del separate institutions sharing powers andrebbe ripetuta come un mantra per evitare di cedere a mitizzazioni ovvero a semplificazioni da provincia. Comunque andrà a finire il Presidente sarà probabilmente indebolito da una condizione di Governo diviso (non ha la maggioranza omogenea almeno in una delle due assemblee) ovvero i Democratici sarebbero costretti a governare controllando il Senato con uno scarto minimo.

Il Governo diviso è una costante del Governo USA: quasi tre quarti degli anni tra il 1968 ad oggi e il 61% dal 1945 ha visto contrapporsi Presidente e Parlamento di colori politici diversi. Anche in virtù delle elezioni di metà mandato (mid-term) che ogni due anni ri-mettono in discussione gli equilibri politici, in quella che è definita “campagna elettorale permanente”. Che ha l’effetto benefico della responsabilizzazione degli eletti verso i rappresentanti, anche grazie al sistema elettorale maggioritario, e inoltre consente di ri-bilanciare l’equilibrio tra poteri, mutando perciò gli assetti di governo tra esecutivo e legislativo. L’assetto federale va sempre tenuto in conto, sia per leggere le dinamiche politiche e istituzionali, ma anche per comprendere meglio la corrente situazione di potenziale stallo nel ri-conteggio dei voti, postali e non (con annesso ricorsi giudiziari minacciati o promessi). Ciascuno Stato (a volte anche le contee) ha una legislazione elettorale, inclusa la possibilità di disegnare, arbitrariamente, i collegi elettorali della Camera. Con conseguente consolidamento del circuito di demarcazione delle identità e delle appartenenze politiche e partitiche su basi territoriali (gerrymandering).

Le divisioni presenti certamente all’interno della Corte Suprema (sei giudici su nove di nomina repubblicana) potrebbero in realtà essere mitigate dalla volontà di non essere/non apparire partisan da parte dei giudici. I quali nominati a vita tendono a liberarsi dalla “camicia” elettorale cucita addosso dalla scelta presidenziale, certamente su temi non etici con maggiore facilità.

Il voto 2020 ha certamente polarizzato attorno ai due candidati non solo in virtù del sistema elettorale, ma anche in ragione del profilo del Presidente uscente, su cui si è giocato un vero referendum/plebiscito. Aggiuntivo elemento di frattura e divisione. Biden ha vinto nel voto popolare con quasi cinque milioni di scarto rispetto a Trump, una tendenza che vede i Democratici prevalere tra gli elettori dal 1992, con l’eccezione del 2004. Se Biden confermasse – come probabile – la prevalenza in voti dei Grandi elettori – saremmo in presenza di un Paese, come descritto, in cui i Rossi si contrappongono ai Blu. Su temi e su valori essi stessi divisivi e cruciali.

Infine, la partecipazione elettorale è stata elevata, quasi il 70%, la più consistente dal 1920, allorché il XIX emendamento costituzionale introdusse il suffragio universale, e 15 milioni in più rispetto al 2016. Gli americani hanno voglia di politica, partecipano, scendono in campo, elargiscono donazioni, fanno attività di volontariato nei partiti e per i partiti (lo sono gli occhiuti scrutatori di queste ore), agiscono in campagna elettorale, nutrono cioè la democrazia anche attraverso la militanza. Altroché partiti liquidi, come qualcuno li aveva sbeffeggiati, non conoscendoli. L’Europa ha molto da imparare dal modello americano, quanto a virtù da coltivare e vizi da bandire. Seppur diviso vale sempre E pluribus unum.