Le elezioni presidenziali francesi del 2017 non si sono concluse il 7 maggio, con il ballottaggio tra Emmanuel Macron e Marine Le Pen. Il risultato politico completo si avrà dopo il secondo turno delle elezioni politiche. È un dato affrontato poco e soprattutto male, specialmente in Italia. Lo sguardo breve, i commenti spacciati per analisi spesso hanno tralasciato alcuni elementi sostanziali. Utilizzando alcuni dati base, sosterrò che la tornata elettorale del 2017 rappresenta un elemento di innovazione per alcuni aspetti, a fronte di continuità e di potenziale cambiamento misurabile solo dopo lo svolgimento delle elezioni politiche. L’enfasi sui quattro atti elettorali è cresciuta dal 2000 (riforma costituzionale che ha ridotto il mandato presidenziale da 7 a 5 anni e limite di due mandati consecutivi, rendendo politicamente “responsabile” il capo dello Stato), e dalla successiva inversione del calendrier électoral nel 2002 che fece tenere prima le presidenziali e poi le politiche. La vittoria di Macron rappresenta dunque, ad oggi, una innovazione solo nella misura in cui il partito presidenziale sarà in grado di vincere la maggioranza dei seggi all’Assemblée nationale (il Senato non conferisce la fiducia, sebbene non sia un’Aula silente). Per farlo Macron dovrà mettere in campo una straordinaria azione di rinnovamento degli schemi e della competizione partitica che abbiano conosciuto sino ad ora. La legge elettorale prevede collegi uninominali, con secondo turno eventuale. Se nessun candidato ottiene la maggioranza dei voti espressi, si tiene una seconda competizione cui accedono i candidati che abbiano ottenuto almeno il 12,5% degli aventi diritto (in passato era del 5%, poi del 10%), il che significa che la soglia implicita al netto dell’astensione media, è pari al 20% circa (altro che diritto di tribuna!), ossia un limite assai elevato per l’accesso alla rappresentanza, a meno che non si tratti di partiti nazionali e forti, ovvero di forze con una solida base elettorale concentrata geograficamente. Inoltre, il doppio turno di collegio innesca, o meglio accompagna, una dinamica bipolare e, stante talune condizioni, bipartitica. La competizione bipartitica è sostenuta dal traino presidenziale, almeno fino al 2012. Senza la sfida per l’Eliseo il potere negoziale a livello di collegio aumenterebbe la forza di coalizione anche di formazioni relativamente piccole, almeno per le prime tornate in cui elettori e partiti acquisissero informazioni e sviluppassero strategie. Voto sincero, o meglio espressivo (della identità politica dell’elettore), al primo turno, e voto utile, o meglio strategico (l’elettore sostiene il candidato meno inviso), al secondo. Il “rischio” paventato per il neo presidente francese è la cohabitation. Al netto della discutibilità, da fondare empiricamente, sulle difficoltà scaturenti da un’eventuale presenza di maggioranze politiche avverse tra Matignon e Eliseo (posto che il sistema semi-presidenziale è flessibile e consente in tal caso il governo delPrimo ministro), la conquista di una maggioranza parlamentare coerente rappresenta la sfida presidenziale. Macron dispone però di alcuni strumenti non trascurabili. Al di là delle doti di intuito politico-elettorale di cui ha dato ampia dimostrazione negli ultimi tre anni almeno, il neo presidente francese può fare affidamento su alcuni elementi di contesto, da non sottovalutare. Il primo è l’honeymoon effect. Gli studi politologici comparati indicano un periodo di grazia elettorale per il capo di governo neo-eletto che beneficia di una cospicua dose di benevolenza da parte dei propri concittadini, inclini a conferirgli maggiore fiducia nelle prime settimane post elezioni. Molti elettori potrebbero saltare sul carro del vincitore (band wagon), completando la scelta effettuata il 7 maggio. Del resto i precedenti elettorali successivi al 2002 indicano chiaramente che una quota rilevante di elettori tende a premiare il Presidente della Repubblica (PdR), ritenuto vero responsabile dell’azione di governo. Fino al 2000-2002 il PdR era percepito prevalentemente come “padre della patria”, arbitro abbastanza neutrale e imparziale, che utilizzava il Primo ministro come fusible, da sostituire all’uopo per rinvigorire l’azione della maggioranza, nel caso di maggioranze omogenee (Fabius al posto di Mauroy nel 1984, Cresson nel 1991 e Bérégovoy nel 1992, o ancora Juppé nel 1995, fino al turnover durante le presidenze di Hollande e Sarkozy), ovvero di provare a sconfiggerlo, invocando e convocando elezioni anticipate (1988 e 1997, per esempio). Altri dati, spesso spacciati per “rivoluzionari”, sono importanti ma non eclatanti. Rappresentano cioè un elemento di contesto che potrebbe mutare significativamente se cambiasse il quadro partitico. L’astensione è cresciuta di 5 punti percentuali rispetto al 2012, ma è diminuita di 3 punti percentuali se confrontata con il dato del 2002. A meno di contorsioni concettuali, bisogna considerare il livello della sfida, della contendibilità percepita e degli attori in campo. La partita del 2017 si è chiusa al primo turno, come nel 2002, ma è mancato l’apporto di tutto l’arco costituzionale, se consideriamo che Jean-Luc Mélenchon ha sostanzialmente fatto appello al non voto, mentre nel 2002 la mobilitazione contro Jean-Marie Le Pen fu omogenea. Ergo non agitarsi troppo, la partecipazione è stata del 75 %, che in termini comparati (operazione che non fa mai male) rappresentano un dato rilevante… CONTINUA QUI