BOLOGNA. Prima, di tutto.

Editoriale per Corriere della Sera (Bologna)

Difficile. Essere sindaco di una città prima in classifica per “qualità della vita” è una impresa ardua, tale da far desistere molti, tra gli umili e i consapevoli in particolare. O induce ad osare gli intrepidi, quelli con una visione, amore per la città, competenze e intuito politico.

Il risultato che indica Bologna in testa quanto a condizioni socio-economiche è la (ennesima) certificazione di quanto cittadini e ospiti (e persino turisti) possono immediatamente percepire visitandola, seppure per poche giornate o addirittura ore. Si tratta del compimento di un processo iniziato settant’anni fa, nei mesi della Resistenza che diede slancio alla passione civica, alla voglia di riscatto, di solidarietà, pace e progresso. Il disegno riformatore fu costruito dalle forze politiche progressiste e di sinistra, dal Partito comunista che fu intelligente a coinvolgere nel patto sociale tutte le forze vive della città, o meglio della regione. Non è un dono caduto dalla stratosfera, ma “frutto del lavoro” del popolo di Bologna, che con fatica ha compiuto un quasi miracolo portando la città da un cumulo di miseria ai fasti uguagliando le socialdemocrazie scandinave. Si tratta della lungimiranza di amministratori e politici (!), della capacità di elaborazione del Partito, della intelligente collaborazione con professionisti e intellettuali (si pensi a P. Cervellati su tutti). L’abilità nel fare sistema, coinvolgere gli interessi economici, sociali, cooperativi, sindacali e religiosi, con un approccio complessivamente pragmatico. Che del resto erano l’insegnamento e la linea dettate da Palmiro Togliatti nel suo “ceto medio e Emilia rossa”. Il tutto senza smarrire gli ideali di avanzamento sociale e civile, sebbene qualche scivolone ci sia stato come quando il Partito e l’Amministrazione risposero chiudendosi in modalità “burocrate automatico” nei confronti del Movimento nel 1977.

La classifica stilata annualmente da Il Sole 24 Ore merita attenzione e considerazione. I dati dicono che la città consolida la sua posizione su una serie importante di fattori, con la pessima prestazione sugli indicatori di “giustizia e sicurezza” la cui pur controversa interpretazione non puo’ però essere superata con una battuta di ciglia. I dati vanno presi tutti. E i dati, non per malafede, ma per scelta del “disegno di ricerca”, non dicono altre cose altrettanto importanti. Come il PIL che secondo la celebre critica di Bob Kennedy includeva i carri armati tra i prodotti della ricchezza. Non siamo a quel parossismo, ma una riflessione sul turismo mordi (distruggi il capitale sociale) e fuggi andrebbe fatta, con scelte conseguenti. È un po’ come aggiornare il paniere dell’inflazione che per qualche tempo ha tenuto dentro il costo dei fiammiferi, mentre il Paese si avviava al Wi-Fi.

Alcune cose non sono visibili alle rilevazioni, ma le sentono i cittadini. La paura del futuro, il timore in alcune zone in una città che per fortuna non ha periferie, la marginalità (che esiste sebbene meno isolata e stigmatizzata che altrove), la necessità di integrare, di rinsaldare i valori democratici e dell’antifascismo. L’evasione fiscale (abbattuta sui bus grazie a un lustro di azione/sanzione di Tper), il deciso calo di civismo “ordinario” ché basta fare una passeggiata/slalom sotto i Portici. O i troppi delinquenti dell’autocertificazione stanati dalla Finanza a dichiarare il falso per ottenere sussidi COVID non spettanti. Capitale sociale, civismo, cultura politica declinanti ormai da anni, e non rilevati tra gli indicatori aggregati di “ricchezza” e qualità della vita. Queste azioni le promuoveva il Partito, oggi troppo piegato sul versante governativo. Era un presidio, una sentinella attenta, madrina, ma anche vestale severa del civismo.

Sergey Bubka, un atleta sovietico specializzato nel salto con l’asta, per mantenere a lungo il primato mondiale, dopo aver provato in allenamento il massimo raggiungibile, durante le gare alzava l’asticella di un centimetro per volta. Così da potere ripetere il “record” dilazionandolo nel tempo. Per Bologna, dunque, la sfida è difficile perché dovrà fare sempre meglio. Da quel podio prima o poi scenderà di qualche posizione. E non sarà un dramma, è inevitabile, se insieme agli allori non avrà perduto l’anima.

Bologna (il dato fa riferimento all’intera provincia) merita il primo posto. E questo risultato è una sfida per il Partito democratico, chiamato a confermare la prestazione, e lo è anche per l’opposizione, la quale deve alzare il tiro e, di molto, la qualità della proposta per competere. Sarebbe anche ora che parlassero i “salotti” che, come ricordava E. Berselli, “formavano le opinioni, discutevano i problemi”. Bologna, capitale della questione morale (sempre Berselli), non è “sazia e disperata”, ma… deve stare molto attenta a non smarrire la bussola di città progressista, solidale, civica, colta, politicamente impegnata, attenta al podio, ma anche a quanti sulla tribuna non salgono ché invisibili, deboli, tristi, soli, poveri. Buon Anno, Bologna.

Le radici della protesta. Autoritarismo borghese.

mio editoriale per IL RIFORMISTA

Nessuno controlla la Piazza, che però non è nemmeno spontanea. La radice della protesta mascherata dalla pandemia rimanda in realtà a una matrice autoritaria che per ora non ha spazio diffuso, ma che si allena per esperienze futuribili. La spinta principale a “scendere in piazza” deriva dalla paura: non del contagio o del confinamento, ma, piuttosto, della perdita di status. Il timore che la condizione di relativo privilegio venga messa in discussione dalla “crisi”, ossia dal cambiamento dalle politiche attuabili quali risposta alla crisi sanitaria, e quindi dalla potenziale riconfigurazione sociale che ne deriverebbe. L’impalcatura autoritaria dei movimenti si nutre sostanzialmente della preoccupazione della classe media di ritrovarsi in crisi economica, ma soprattutto di condizione e percezione sociale, ed è esposta alla temperie di tentativi di egemonia da parte di vari attori che però non hanno la forza intellettuale e organizzativa per guidarli.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il COVID-19 con il suo portato di impatto economico-finanziario, sociale, psicologico e politico è stato il fattore scatenante, ma solo in parte. Sarebbe infatti distorsivo considerare il “Virus” quale variabile determinante nel processo di attivazione di movimenti di protesta che in queste settimane, e probabilmente in quelle future, stanno crescendo nelle piazze italiane delle grandi città. Esistono ragioni più profonde, strutturali, sociali, economiche e politiche che hanno consentito ad alcuni imprenditori della piazza di attivarsi grazie alle opportunità offerte dalla pandemia.

L’Italia è un Paese fortemente diseguale (World Inequality Database e Banca Mondiale), con potenti elementi di divisione economica e quindi sociale che attraversano ambiti dell’intera comunità seppur con accenti diversi. Sono distanti le potenzialità tra grandi città e comuni interni, tra aree del Nord e periferie del Sud, tra giovani e adulti, tra uomini e donne, tra lavoratori e disoccupati, tra chi “ha” di più e chi possiede sempre meno. Tra il 1984 e il 2009 la percentuale di ricchezza posseduta dall’1% della popolazione è passata dal 6% al 10% circa, mentre contemporaneamente la concentrazione di fortuna nelle mani del 10% più abbiente dei cittadini è cresciuta dal 23% del 1985 al 32% del 2016%. Inoltre, sono quasi 2 milioni le famiglie in condizione di povertà assoluta, pari a circa 4,6 milioni di individui (7,7% del totale, Istat 2019).

La fragilità sociale derivante dalla disuguaglianza economica si somma alla scarsezza dei pilastri della mediazione politica, partiti e sindacati, un tempo numi tutelari dei più deboli e diseredati. I partiti, specialmente, quelli di sinistra, hanno quasi-abdicato alla funzione storica di lotta all’ingiustizia sociale, alla povertà, parola biecamente sostituita da anglicismi o neologismi. Un’onta da nascondere, un azzardo parlarne. Anche i sindacati paiono ormai rifugiati nella difesa dei difendibili, e non scovano più gli ultimi della classe, non incalzano nemmeno i governi nominalmente amici per politiche simboliche quali il rinnovo del contratto di lavoro dei dipendenti pubblici, dissanguati da anni di liberismo selvaggio, cui pare il Ministro Gualtieri voglia, meritoriamente, rimediare.

Ma la “povertà” da sola non basta a mobilitare, come evidente dalla Storia; si pensi alla Rivoluzione francese, su tutte. Senza la borghesia i sans-culottes sarebbero stati massacrati dalla gendarmerie di Luigi XVI. E, inoltre, è bene ricordarlo, non siamo ai moti per il pane ché l’Italia dispone ancora di un solido sistema di welfare, di strutture di sanità pubblica e universalista nonché di risorse materiali da redistribuire e, infine, di una rete di associazionismo solidale che all’uopo sopperisce alle carenze collettive.

Pertanto, delle manifestazioni di piazza delle ultime settimane è possibile ritenere tre punti fondamentali:

  1. La testa del movimento è a destra. Nell’estrema destra che punta a rilegittimarsi, dopo anni di laissez-faire civico, di smemoratezza storica e abbandono delle postazioni, delle casematte, dell’antifascismo, non nominale, ma della cultura repubblicana. Stoicamente coltivata dal Quirinale, ma trascurata dai partiti.
  2. Si tratta di un processo di ri-mobilitazione. Secondo Gino Germani, celebre sociologo politico emigrato in Argentina per le persecuzioni fasciste, la mobilitazione inizia quando la società inizia a disgregarsi. La mobilitazione secondaria, portata avanti da coloro che temono il protagonismo degli esclusi ben si addice alla fase in corso. Una sorta di contromobilitazione. Nel caso in specie però la borghesia non si scaglia contro i movimenti operai, ma contro il Governo, nazionale o sovra-nazionale che sia. Un paradosso, in parte, qualcosa di inedito e inquietante.
  3. Ad attivarsi non sono, ovviamente, i ceti popolari e popolani, ma è la classe media, la borghesia persino, ossia quei settori che sentono/temo una perdita possibile di status.

La borghesia dirige il proprio malessere e malcontento verso il Governo e le presunte élite. Che però, notorio, questo il grande abbaglio populista e il dramma culturale, non esistono. Specialmente in Italia abbiamo piccole burocrazie di partito e gruppi dirigenti di scarso lignaggio e leadership occasionale, ma per nulla egemonica.  È cruciale dunque capire, individuare e spiegare chi attiva il processo di mobilitazione, chi si attiva, ovvero è ri-attivato; chi è soggetto alla mobilitazione ed eventualmente alla smobilitazione. A dar vita al movimento sono “vecchie glorie” del neo-fascismo con cui la legge è stata troppo indulgente, insieme a ultras del calcio in astinenza da adrenalina domenicale. A questi si uniscono sinceri democratici esasperati dalla crisi economica generata dal COVID. Nella dilagante fase di individualismo e individualizzazione la lettura principale delle manifestazioni di piazza vede pertanto il malessere economico coniugato con un pizzico di sciacallaggio ribellista senza colore politico. È una lettura superficiale e dozzinale, mentre il disegno è piuttosto chiaro come la Storia del Paese e dell’autoritarismo di ogni latitudine. Certamente esistono delle differenziazioni tra grandi città e piccoli centri (sin ora non investiti, non a caso, dalle proteste), tra aree geografiche (il sud più esposto a derive di estrema destra e il nord all’estremismo di sinistra), tra lobbying di categoria, corporativismo, esasperazione, e ribellismo. Una sorta di potpurri in cerca d’autore e soprattutto di leadership che, statene certi, non sarà né Salvini – senza physique du rôle, né Meloni – che si ostina a non modernizzare il partito, tantomeno l’estrema-destra militante senza leader. La marea potrebbe però dilagare disintegrando parti della tenuta sociale.

Le Democrazie per quanto solide non possono però cavarsela con sermoni ed appelli al senso civico. I Governi hanno il dovere di rispondere alle istanze provenienti dal basso proprio per evitare di alimentare il fuoco autoritario. L’uomo piccolo-piccolo, il borghese di Cerami/Sordi fa più paura della massa perché potrebbe fare “scuola” e innescare un processo imitativo di rivolta e di disintegrazione del sistema. I partiti democratici dovrebbero intervenire e guidare, incanalare, assorbire la protesta e gestirla entro dinamiche istituzionali, senza timore di ricevere qualche sonora critica dato che la posta in palio è molto più grande di un piccolo sgambetto nei sondaggi. Il COVID ha solo reso palesi e patenti le contraddizioni sociali, economiche e politiche della società italiana che si risolvono soltanto con il conflitto. Dipende da chi avrà la capacità di guidare ed egemonizzare il processo di transizione, chi sarà in grado di mobilitare, eventualmente di ri-mobilitare, per evitare il rischio di smobilitare. Che significa, sempre Germani, una deriva autoritaria compiuta con silenziamento di ogni partecipazione degli esclusi.

Unità nazionale? Meglio il neo-corporativismo

Unità nazionale? Meglio il neo-corporativismo
editoriale per IL RIFORMISTA (24/06/2020) 

Il “governo di unità nazionale” è stato per un po’ di tempo una delle opzioni per la costruzione di un governo stabile, autorevole e in grado di portare a compimento il processo riformatore necessario in diversi settori economici e sociali.

Il refrain “è necessario un governo di unità nazionale” è stato presente sin dal 2018. Il risultato delle elezioni politiche ha generato un’alleanza parlamentare che per quanto fosse preannunciata e pianificata dai negoziatori di Lega (Nord) e Movimento 5 stelle è stata manifestamente una forzatura, almeno per una componente del gruppo “grillino”, sebbene il resto del partito si sia rapidamente e solidamente adeguato allo schema governativo. Le intemperanze del sen. Matteo Salvini, incapace di governare l’entusiasmo per l’accesso al potere ministeriale, e i disastri generati con la gestione dell’ordine pubblico e del flusso dei migranti hanno fatto il resto. La nomina del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte è stata dunque il punto di mediazione tra Lega (Nord) e M5s, reciprocamente sospettosi durante le estenuanti settimane di negoziazione egregiamente e saggiamente guidate dal Presidente della Repubblica. La disfatta di Salvini e l’operazione del PD influenzato dal timore di molti suoi parlamentari di perdere (per sempre) lo scranno e l’intervento di Matteo Renzi (o la Mossa del cavallo, se preferite) hanno spodestato la Lega dal governo in una normale logica parlamentare. E ancora una volta è emersa la tentazione o il tentativo di avere un governo tecnico, con meno chances di successo rispetto al passato posto che le posizioni di Lega (Nord) e PD erano assai distanti.

Tuttavia, è necessario chiarire che cosa si intenda con unità nazionale. Il riferimento è a fasi eccezionali in cui le forze parlamentari si uniscono sostenendo una formazione di governo unitaria, condivisa. L’opposizione decide cioè di contribuire alla creazione di un governo, sostenendolo in parlamento (ovvero non ostacolandone la nascita con l’astensione, ad esempio), entrando a far parte della compagine esecutiva, o fornendo solo l’appoggio parlamentare (cosiddetto sostegno esterno) senza avere rappresentanza ministeriale. In periodi eccezionali, e tendenzialmente brevi, ovvero limitati al periodo della crisi, tutti i partiti sostengono un governo unitario appunto.

Il “governo nazionale” è però diverso, concettualmente ed empiricamente, dalla Grande coalizione, con cui spesso viene confuso.

Il governo di unità nazionale si differenza dalla Grande coalizione nella qualità del sostegno parlamentare (tutti i partiti nel primo caso, i due più grandi dei rispettivi schieramenti nel secondo), e per le finalità che lo producono. Le Grandi coalizioni rispondono ad impasse parlamentari dovute a frammentazione partitica e/o eccessiva distanza ideologica e si basa su un programma politicamente condiviso, mentre l’”unità nazionale” si ha quando il Paese affronta una situazione extra ordinaria, come una guerra, e l’obiettivo risiede nel superare l’evento che ne è causa stessa.

Esistono celebri casi di Grandi coalizioni, ad esempio in Germania (1966-69; 2005-09; dal 2013), in Austria (per ragioni storiche sociali) o anche in Portogallo (1983-1985), sebbene con dovute differenze. Il governo britannico guidato da W. Churchill tra il 1940 e il 195 ben rappresenta invece l’eccezionalità della national unity in periodo di emergenza.

In Italia ci sono esempi per entrambe le categorie. La Grande coalizione si è avuta tra il 1995-1996 con il Governo Dini, tra 2011-2013 con l’alleanza PD-PDL, e in qualche misura, mutatis mutandis, dal 2019 con l’asse PD-M5s.

L’unità nazionale si è avuta tra il 1943-1947 allorché i partiti antifascisti governarono insieme, per gestire la “guerra civile”/Resistenza, la transizione democratica e il varo della Costituzione, prima nel CLN e poi nei primi governi democratici, fino al ritorno di Alcide De Gasperi dagli Stati Uniti e all’estromissione del Partito comunista. Di nuovo nel 1978-1979 per fronteggiare l’emergenza terroristica con governo a guida democristiana, ma sostenuto (esternamente) dal PCI.

Affinché si abbia un governo di unità nazionale devono verificarsi alcune condizioni esogene ed endogene. Il sistema deve essere interessato da una “crisi”, come ad esempio una guerra o una forte pressione sull’ordine sociale e la convivenza civile. Ma gli ingredienti più difficili da reperire sul mercato fanno riferimento alla leadership. La presenza di un politico che sia legittimato, autorevole, carismatico, competente tanto da essere sostenuto non solo dalla propria forza o campo politico, ma accettato bon gré mal gré anche dalle opposizioni, va coniugata con la finalità che deve essere esplicitata e condivisa dalle forze politiche. Infine, gli esponenti dei principali partiti devono dimostrare capacità di superare le distanze ideologiche e, sebbene per un tempo limitato, convergere sul capo del governo designato al fine di perseguire il “bene comune”.

Recentemente le fibrillazioni e le incertezze del Governo Conte II e le tragiche conseguenze del COVID-19 hanno indotto molti, a livello istituzionale, partitico e sociale, a far riferimento all’unità nazionale. Il nome speso in questa prospettiva è stato quello del dott. Mario Draghi che certamente avrebbe avuto i galloni per governare la pandemia, ma la faziosità dei gruppi parlamentari ha fatto sfumare questa opzione. Non mi pare esistano le condizioni soprattutto per carenza di cultura e di statura politica, e in particolare stante la poca propensione della destra del duo Salvini-Meloni che sembra tristemente avviata e avvitata verso l’auto-isolamento e il radicalismo ideologico e politico.

Pertanto, in periodo extra-emergenziale rimarrebbe l’opzione neo-corporativa. Gli attori principali coinvolti sarebbero tre: Governo, imprenditori e sindacato. Per percorrere questa strada questi gruppi, cui aggiungere i partiti, dovrebbero essere (più) coesi, stabili e disposti a dialogare e a con-cedere parte del loro “interesse” al fine di realizzare accordi di rilevanza collettiva. Ma la salute politica di questi attori in Italia è deprimente e dunque una politica progressista e riformista, per i salari, l’innovazione industriale e i diritti dei lavoratori pare lontana.

L’esecutivo sembra scontare una carenza di proposte, di visione, di ideologia (di “linea” come ha detto il segretario del PD Zingaretti) le politiche approvate sono di corto respiro in una fase “eccezionale” che urge disegno e orizzonti ampi e “rivoluzionari”.

Le organizzazioni sindacali nel complesso latitano in cerca di autorevolezza e proposte, spesso arroccate in difese conservatrici, e lontane da una visione moderna del lavoro, della società. Infine, le associazioni imprenditoriali, e Confindustria in testa, appaiono attardate in difese di posizioni, privilegi e rendite. Le prime sortite del neopresidente degli industriali non lasciano ben sperare e anzi marcano il campo per una stagione regressiva sui diritti dei lavoratori, quasi che gli imprenditori fossero stati bistrattati dalla Repubblica e dai suoi governi negli ultimi cinquanta anni. Assenza di cultura imprenditoriale e di senso della Comunità, oltre che di rispetto della Carta costituzionale.

Rimangono l’Unione europea che con la sua semplice esistenza oltre che con la dose massiccia di fondi erogata ha contribuito a salvare molti Stati, e certamente l’Italia, e il Presidente Mattarella che il 2 giugno scorso ha invocato lo spirito unitario del 1946, e nella fase (post) pandemica ha ricordato l’impegno istituzionale «all’altezza di quel dolore, di quella speranza, di quel bisogno di fiducia». E, ha aggiunto «non si tratta di immaginare di sospendere o annullare la normale dialettica politica. La democrazia vive e si alimenta di confronto fra posizioni diverse». Messaggio chiaro. Silenzio dall’altra parte.

La crisi, ovvero l’assenza di pensiero lungo

La crisi, ovvero l’assenza di pensiero lungo
Editoriale per IL RIFORMISTA

Il celeberrimo discorso di Robert (Bob) Kennedy durante la campagna elettorale per le primarie democratiche del 1968 (all’università del Kansas), ricorda chiaramente quanto possa essere distorcente l’utilizzo di indicatori fallaci. Per Kennedy il “prodotto interno lordo” mistificava la realtà e rendeva le società aride e stupidamente competitive poiché misura(va) aspetti quantomeno controversi della produzione. Gli armamenti, il gas di scarico delle auto, i rifiuti atomici e gli inceneritori contribuivano a misurare la ricchezza di un Paese, senza vedere le diseguaglianze sociali, negli Stati e tra diverse aree del Pianeta.

I cambiamenti, probabilmente epocali, generati dalla pandemia-Covid/19 richiedono una capacità analitica di lungo periodo, prospettica, che rimetta in piedi i paradigmi della società liberale, aumentando il livello di giustizia sociale e diminuisca le diseguaglianze. Ragionare solo in termini di “crisi” è fuorviante, limitato e persino pericoloso. Molti Governi, certamente quelli europei e italiano, paiono orientati a misurare l’entità della crisi in chiave comparata con il proprio passato recente. La prospettiva diacronica dunque indica un valore di riferimento da recuperare, un dato da replicare tornando al livello pre-pandemia. Questa prospettiva segna lo scarto cognitivo, intellettuale ed euristico tra le vicende correnti, il sistema precedente e quello da costruire, che verrà in base a quello che le società decideranno che esso sia. In taluni ambiti è evidente che sia auspicabile replicare dati del passato, per altri l’analogia sembra reggere meno e mostra il nanismo analitico prevalente. La pandemia ha mostrato, ad esempio, che un altro mondo e un altro modo sono possibili per il lavoro, la gestione dei tempi della vita quotidiana, dell’interazione umana con la natura. È logico, dunque, interrogarsi se sia davvero necessario tornare a produrre beni materiali in quantità pre-crisi e con le stesse modalità di sfruttamento delle risorse della Terra. La crisi offre una grandissima occasione, quella di ripensare la società, il ruolo delle persone, dei lavoratori, il valore assegnato alle interazioni umane, al peso del welfare, al controllo esercitato dallo Stato, all’incidenza dei colossi economici e soprattutto di quelli finanziari. Per la prima volta nella storia documentata dell’umanità terrestre, tutti sono testimoni del medesimo evento, portatori di esperienze comuni e trasversali alle generazioni, legate dal comune vissuto contemporaneo e non dalla trasmissione tra generazioni veicolata dal racconto.

A causa dell’emergenza sanitaria sono state messe in campo azioni e prospettive di risposta innovative, persino rivoluzionarie rispetto all’ordinaria amministrazione precedente. Un fine analista come Mario Draghi ha immediatamente auspicato risposte e politiche economico-finanziarie che fossero degne della sfida posta dal contagio. Se, banalmente, invece, gli Stati pensassero di ritornarne allo status quo ante rincorrendo punti di PIL, produzione di beni e scenari macro-economici precedenti il 2020, la società umana avrà perso un’occasione mondiale, è il caso di dirlo. E con essa avrà smarrito la bussola illuminista che da secoli la distingue dalle altre società di esseri viventi.

L’ordine liberale internazionale è in grave difficoltà, per usare un eufemismo. Come ricorda l’economista Dani Rodrick, siamo di fronte all’«inevitabile trilemma dell’economia mondiale». È impossibile cioè che convivano contemporaneamente gli interessi degli stati nazione, la democrazia e l’integrazione economica. Se, dunque, perseguiamo una società liberale in economia e democratica, è evidente che non ci sia spazio per il nazionalismo. Pertanto, non è il tempo per misure di basso cabotaggio, non è la fase per uomini e donne di piccole vedute e scarse letture, non l’epoca di burocrazie. Il Covid è una straordinaria occasione per attuare quella società giusta, eguale, solidale, che il millenarismo religioso, politico, etico e filosofico ha declamato, invocato e imposto per secoli a ogni latitudine, senza tuttavia generare una società davvero “migliore”.  Il Virus ha offerto un momento, una finestra spazio-temporale, durante il quale intravedere prospettive di miglioramento e toccare con mano distorsioni e diseguaglianze sociali inaccettabili.

«C’è discriminazione in questo mondo. C’è schiavitù, fame e uccisioni. Vi sono governi che opprimono i loro popoli e ovunque la ricchezza viene sperperata negli armamenti. Questi sono mali diversi, ma sono opera comune dell’uomo. Essi riflettono l’imperfezione dell’umana giustizia, l’inadeguatezza dell’umana pietà, la nostra mancanza di sensibilità verso la sofferenza dei nostri simili», così Bob Kennedy. Il cui omicidio, di quello che fu il vero analista politico della famosa coppia di fratelli democratici di origini irlandesi, due mesi dopo quello di M. L. King, fu la fine di un sogno. Chi avesse visione e lungimiranza potrebbe riaccenderlo.