Unità nazionale? Meglio il neo-corporativismo

Unità nazionale? Meglio il neo-corporativismo
editoriale per IL RIFORMISTA (24/06/2020) 

Il “governo di unità nazionale” è stato per un po’ di tempo una delle opzioni per la costruzione di un governo stabile, autorevole e in grado di portare a compimento il processo riformatore necessario in diversi settori economici e sociali.

Il refrain “è necessario un governo di unità nazionale” è stato presente sin dal 2018. Il risultato delle elezioni politiche ha generato un’alleanza parlamentare che per quanto fosse preannunciata e pianificata dai negoziatori di Lega (Nord) e Movimento 5 stelle è stata manifestamente una forzatura, almeno per una componente del gruppo “grillino”, sebbene il resto del partito si sia rapidamente e solidamente adeguato allo schema governativo. Le intemperanze del sen. Matteo Salvini, incapace di governare l’entusiasmo per l’accesso al potere ministeriale, e i disastri generati con la gestione dell’ordine pubblico e del flusso dei migranti hanno fatto il resto. La nomina del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte è stata dunque il punto di mediazione tra Lega (Nord) e M5s, reciprocamente sospettosi durante le estenuanti settimane di negoziazione egregiamente e saggiamente guidate dal Presidente della Repubblica. La disfatta di Salvini e l’operazione del PD influenzato dal timore di molti suoi parlamentari di perdere (per sempre) lo scranno e l’intervento di Matteo Renzi (o la Mossa del cavallo, se preferite) hanno spodestato la Lega dal governo in una normale logica parlamentare. E ancora una volta è emersa la tentazione o il tentativo di avere un governo tecnico, con meno chances di successo rispetto al passato posto che le posizioni di Lega (Nord) e PD erano assai distanti.

Tuttavia, è necessario chiarire che cosa si intenda con unità nazionale. Il riferimento è a fasi eccezionali in cui le forze parlamentari si uniscono sostenendo una formazione di governo unitaria, condivisa. L’opposizione decide cioè di contribuire alla creazione di un governo, sostenendolo in parlamento (ovvero non ostacolandone la nascita con l’astensione, ad esempio), entrando a far parte della compagine esecutiva, o fornendo solo l’appoggio parlamentare (cosiddetto sostegno esterno) senza avere rappresentanza ministeriale. In periodi eccezionali, e tendenzialmente brevi, ovvero limitati al periodo della crisi, tutti i partiti sostengono un governo unitario appunto.

Il “governo nazionale” è però diverso, concettualmente ed empiricamente, dalla Grande coalizione, con cui spesso viene confuso.

Il governo di unità nazionale si differenza dalla Grande coalizione nella qualità del sostegno parlamentare (tutti i partiti nel primo caso, i due più grandi dei rispettivi schieramenti nel secondo), e per le finalità che lo producono. Le Grandi coalizioni rispondono ad impasse parlamentari dovute a frammentazione partitica e/o eccessiva distanza ideologica e si basa su un programma politicamente condiviso, mentre l’”unità nazionale” si ha quando il Paese affronta una situazione extra ordinaria, come una guerra, e l’obiettivo risiede nel superare l’evento che ne è causa stessa.

Esistono celebri casi di Grandi coalizioni, ad esempio in Germania (1966-69; 2005-09; dal 2013), in Austria (per ragioni storiche sociali) o anche in Portogallo (1983-1985), sebbene con dovute differenze. Il governo britannico guidato da W. Churchill tra il 1940 e il 195 ben rappresenta invece l’eccezionalità della national unity in periodo di emergenza.

In Italia ci sono esempi per entrambe le categorie. La Grande coalizione si è avuta tra il 1995-1996 con il Governo Dini, tra 2011-2013 con l’alleanza PD-PDL, e in qualche misura, mutatis mutandis, dal 2019 con l’asse PD-M5s.

L’unità nazionale si è avuta tra il 1943-1947 allorché i partiti antifascisti governarono insieme, per gestire la “guerra civile”/Resistenza, la transizione democratica e il varo della Costituzione, prima nel CLN e poi nei primi governi democratici, fino al ritorno di Alcide De Gasperi dagli Stati Uniti e all’estromissione del Partito comunista. Di nuovo nel 1978-1979 per fronteggiare l’emergenza terroristica con governo a guida democristiana, ma sostenuto (esternamente) dal PCI.

Affinché si abbia un governo di unità nazionale devono verificarsi alcune condizioni esogene ed endogene. Il sistema deve essere interessato da una “crisi”, come ad esempio una guerra o una forte pressione sull’ordine sociale e la convivenza civile. Ma gli ingredienti più difficili da reperire sul mercato fanno riferimento alla leadership. La presenza di un politico che sia legittimato, autorevole, carismatico, competente tanto da essere sostenuto non solo dalla propria forza o campo politico, ma accettato bon gré mal gré anche dalle opposizioni, va coniugata con la finalità che deve essere esplicitata e condivisa dalle forze politiche. Infine, gli esponenti dei principali partiti devono dimostrare capacità di superare le distanze ideologiche e, sebbene per un tempo limitato, convergere sul capo del governo designato al fine di perseguire il “bene comune”.

Recentemente le fibrillazioni e le incertezze del Governo Conte II e le tragiche conseguenze del COVID-19 hanno indotto molti, a livello istituzionale, partitico e sociale, a far riferimento all’unità nazionale. Il nome speso in questa prospettiva è stato quello del dott. Mario Draghi che certamente avrebbe avuto i galloni per governare la pandemia, ma la faziosità dei gruppi parlamentari ha fatto sfumare questa opzione. Non mi pare esistano le condizioni soprattutto per carenza di cultura e di statura politica, e in particolare stante la poca propensione della destra del duo Salvini-Meloni che sembra tristemente avviata e avvitata verso l’auto-isolamento e il radicalismo ideologico e politico.

Pertanto, in periodo extra-emergenziale rimarrebbe l’opzione neo-corporativa. Gli attori principali coinvolti sarebbero tre: Governo, imprenditori e sindacato. Per percorrere questa strada questi gruppi, cui aggiungere i partiti, dovrebbero essere (più) coesi, stabili e disposti a dialogare e a con-cedere parte del loro “interesse” al fine di realizzare accordi di rilevanza collettiva. Ma la salute politica di questi attori in Italia è deprimente e dunque una politica progressista e riformista, per i salari, l’innovazione industriale e i diritti dei lavoratori pare lontana.

L’esecutivo sembra scontare una carenza di proposte, di visione, di ideologia (di “linea” come ha detto il segretario del PD Zingaretti) le politiche approvate sono di corto respiro in una fase “eccezionale” che urge disegno e orizzonti ampi e “rivoluzionari”.

Le organizzazioni sindacali nel complesso latitano in cerca di autorevolezza e proposte, spesso arroccate in difese conservatrici, e lontane da una visione moderna del lavoro, della società. Infine, le associazioni imprenditoriali, e Confindustria in testa, appaiono attardate in difese di posizioni, privilegi e rendite. Le prime sortite del neopresidente degli industriali non lasciano ben sperare e anzi marcano il campo per una stagione regressiva sui diritti dei lavoratori, quasi che gli imprenditori fossero stati bistrattati dalla Repubblica e dai suoi governi negli ultimi cinquanta anni. Assenza di cultura imprenditoriale e di senso della Comunità, oltre che di rispetto della Carta costituzionale.

Rimangono l’Unione europea che con la sua semplice esistenza oltre che con la dose massiccia di fondi erogata ha contribuito a salvare molti Stati, e certamente l’Italia, e il Presidente Mattarella che il 2 giugno scorso ha invocato lo spirito unitario del 1946, e nella fase (post) pandemica ha ricordato l’impegno istituzionale «all’altezza di quel dolore, di quella speranza, di quel bisogno di fiducia». E, ha aggiunto «non si tratta di immaginare di sospendere o annullare la normale dialettica politica. La democrazia vive e si alimenta di confronto fra posizioni diverse». Messaggio chiaro. Silenzio dall’altra parte.

La leadership conta, ma non basta

mio pezzo per Huffington Post

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La leadership conta. E racconta molto di sé e della propria comunità, del partito politico, del Paese che si guida. Lo dice la Storia, la letteratura scientifica e la cronaca contemporanea. La leadership non è perniciosa o salvifica ontologicamente, dipende dai contesti e dalle persone che la incarnano, ma ha un peso importante. In maniera dicotomica c’è chi considera la leadership segno dei regimi autoritari e chi invece la invoca: nelle società contemporanee i sistemi politici, essendo questi complessi, per fronteggiare le crescenti esigenze democratiche necessitano di scelte “rapide”, chiare e univoche, hanno bisogno della leadership. Per capirne l’importanza è necessario fare riferimento ai processi decisionali in cui le dinamiche di “maggioranza” sono influenzate da molteplici fattori. Le doti individuali, la simpatia persino, le capacità oratorie, il fiuto politico, la persuasione. Tutte abilità monche se non accompagnate dalle conoscenze linguistiche: se non sai comunicare (e non è una questione di social media-manager), sia esso in italiano, ma soprattutto in lingue “altre”.

In questa fase politica, assediati da una montante opposizione sociale e politica, e dalla realtà della triste condizione del Paese, i principali esponenti del vecchio e del nuovo Governo, con l’ex ministro Matteo Salvini in testa, richiamano la volontà di essere lasciati “lavorare” senza disturbare il manovratore, ovvero di “pieni poteri”. È una retorica insulsa e retrograda, consumatasi con le società primordiali che rimanda alle ambizioni autoritarie e semplificatrici. Va però segnalato che non esiste l’uomo solo al comando e nemmeno il “potere assoluto”, un ossimoro, una semplificazione, un errore teorico e concettuale ripetuto e perpetrato a stuoli di infanti sin dalle scuole primarie quando si parla di Monarchia o dittature. Il potere, come sapevano molto bene i Padri costituenti degli Stati Uniti d’America,  Ad essere solo è il potere, quando esercitato da quell’uomo. Da lì non si scappa. Si è da soli, un po’ come quando si affronta l’inevitabile destino umano, a confrontarsi con altri poteri, nei momenti topici, nelle scelte cruciali e definitive. Un fulgido esempio della solitudine del potere lo troviamo nei consessi internazionali. Durante le riunioni del G7/G8 ad esempio, ciascun “uomo al comando” è solo con se stesso. Non ci sono consiglieri, non sono ammessi traduttori, né sherpa, né tutor, nessun pseudo-influencer da social assorto a neo-Mazarin e Mandarino moderno. È proprio in quelle sedi che la partita assume dinamiche dove conta la leadership nella sua pienezza. Il peso, l’influenza di ciascuna “solitudine” contano per il lavoro, per il cárisma, per il prestigio, le competenze pregresse, ossia per quanto detto e fatto fuori dalla stanza isolata, ma hanno grande rilievo anche le azioni, le idee, le parole, i gesti nel confronto con gli altri “grandi”.

Una miscela articolata, complessa, quasi magica che può determinare un esito positivo o una sonora débâcle diplomatica. Conta quante lingue conosci, quanto abituato sei al confronto con mondi “altri”, quanto sei “uomo di mondo”, quanto hai studiato, che competenze hai. Da lì dipenderà anche la capacità, finita la riunione di rimanere in “contatto diretto”, e farne derivare relazioni politiche, rapporti internazionali, sostegno diplomatico. Ciascuno immagini, senza troppo ardire, i possibili scenari futuri con i pretendenti italiani alla “solitudine del potere”, e li confronti con quelle di Macron, Merkel, Putin, Trump, Obama, Trudeau, Mitterrand, JFK…, una prospettiva desolata, e sola. La leadership è dunque, inevitabilmente, importanza degli uomini e delle donne che la rivestono poiché senza sarebbe un mero assemblearismo informe. È altresì “sintesi”, capacità di fare sintesi dei diversi punti presenti in una organizzazione, riducendo, ma non azzerando le differenze e facendole vivere insieme. E pluribus unum, direbbero a Washington. La cosiddetta personalizzazione, fenomeno tra l’altro per nulla recente, non è pernicioso o un pericolo per la democrazia. La quale ha bisogno di un processo decisionale efficace, rapido e flessibile. Tuttavia, se la politica si riduce a individui, ne risente l’intero sistema.

Dunque, per contrastare il potere, correggerlo, mitigarlo e migliorarlo, è necessaria la partecipazione politica dei molti, delle organizzazioni, dei partiti. Non di solitudini.

La Lega di Salvini. Estrema destra di governo

Da tempo la Lega ha scelto di posizionarsi nell’area dell’estrema destra: una virata che ha consentito al partito di legittimarsi come forza trainante della coalizione conservatrice, tanto da stravolgerne l’assetto indebolendo l’area moderata.

Nello scenario emerso con il voto del 2018 la Lega compete con l’altra formazione anti-establishment, il Movimento 5 Stelle, nel tentativo di monopolizzare il disagio economico e il disorientamento elettorale e di ricomporre, sul piano socio-territoriale, le istanze di cambiamento avanzate dagli elettori. Uno scenario inedito in cui due frères-ennemis si disputano l’egemonia politica e culturale in Italia.

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