mio editoriale per IL RIFORMISTA
Nessuno controlla la Piazza, che però non è nemmeno spontanea. La radice della protesta mascherata dalla pandemia rimanda in realtà a una matrice autoritaria che per ora non ha spazio diffuso, ma che si allena per esperienze futuribili. La spinta principale a “scendere in piazza” deriva dalla paura: non del contagio o del confinamento, ma, piuttosto, della perdita di status. Il timore che la condizione di relativo privilegio venga messa in discussione dalla “crisi”, ossia dal cambiamento dalle politiche attuabili quali risposta alla crisi sanitaria, e quindi dalla potenziale riconfigurazione sociale che ne deriverebbe. L’impalcatura autoritaria dei movimenti si nutre sostanzialmente della preoccupazione della classe media di ritrovarsi in crisi economica, ma soprattutto di condizione e percezione sociale, ed è esposta alla temperie di tentativi di egemonia da parte di vari attori che però non hanno la forza intellettuale e organizzativa per guidarli.
Il COVID-19 con il suo portato di impatto economico-finanziario, sociale, psicologico e politico è stato il fattore scatenante, ma solo in parte. Sarebbe infatti distorsivo considerare il “Virus” quale variabile determinante nel processo di attivazione di movimenti di protesta che in queste settimane, e probabilmente in quelle future, stanno crescendo nelle piazze italiane delle grandi città. Esistono ragioni più profonde, strutturali, sociali, economiche e politiche che hanno consentito ad alcuni imprenditori della piazza di attivarsi grazie alle opportunità offerte dalla pandemia.
L’Italia è un Paese fortemente diseguale (World Inequality Database e Banca Mondiale), con potenti elementi di divisione economica e quindi sociale che attraversano ambiti dell’intera comunità seppur con accenti diversi. Sono distanti le potenzialità tra grandi città e comuni interni, tra aree del Nord e periferie del Sud, tra giovani e adulti, tra uomini e donne, tra lavoratori e disoccupati, tra chi “ha” di più e chi possiede sempre meno. Tra il 1984 e il 2009 la percentuale di ricchezza posseduta dall’1% della popolazione è passata dal 6% al 10% circa, mentre contemporaneamente la concentrazione di fortuna nelle mani del 10% più abbiente dei cittadini è cresciuta dal 23% del 1985 al 32% del 2016%. Inoltre, sono quasi 2 milioni le famiglie in condizione di povertà assoluta, pari a circa 4,6 milioni di individui (7,7% del totale, Istat 2019).
La fragilità sociale derivante dalla disuguaglianza economica si somma alla scarsezza dei pilastri della mediazione politica, partiti e sindacati, un tempo numi tutelari dei più deboli e diseredati. I partiti, specialmente, quelli di sinistra, hanno quasi-abdicato alla funzione storica di lotta all’ingiustizia sociale, alla povertà, parola biecamente sostituita da anglicismi o neologismi. Un’onta da nascondere, un azzardo parlarne. Anche i sindacati paiono ormai rifugiati nella difesa dei difendibili, e non scovano più gli ultimi della classe, non incalzano nemmeno i governi nominalmente amici per politiche simboliche quali il rinnovo del contratto di lavoro dei dipendenti pubblici, dissanguati da anni di liberismo selvaggio, cui pare il Ministro Gualtieri voglia, meritoriamente, rimediare.
Ma la “povertà” da sola non basta a mobilitare, come evidente dalla Storia; si pensi alla Rivoluzione francese, su tutte. Senza la borghesia i sans-culottes sarebbero stati massacrati dalla gendarmerie di Luigi XVI. E, inoltre, è bene ricordarlo, non siamo ai moti per il pane ché l’Italia dispone ancora di un solido sistema di welfare, di strutture di sanità pubblica e universalista nonché di risorse materiali da redistribuire e, infine, di una rete di associazionismo solidale che all’uopo sopperisce alle carenze collettive.
Pertanto, delle manifestazioni di piazza delle ultime settimane è possibile ritenere tre punti fondamentali:
- La testa del movimento è a destra. Nell’estrema destra che punta a rilegittimarsi, dopo anni di laissez-faire civico, di smemoratezza storica e abbandono delle postazioni, delle casematte, dell’antifascismo, non nominale, ma della cultura repubblicana. Stoicamente coltivata dal Quirinale, ma trascurata dai partiti.
- Si tratta di un processo di ri-mobilitazione. Secondo Gino Germani, celebre sociologo politico emigrato in Argentina per le persecuzioni fasciste, la mobilitazione inizia quando la società inizia a disgregarsi. La mobilitazione secondaria, portata avanti da coloro che temono il protagonismo degli esclusi ben si addice alla fase in corso. Una sorta di contromobilitazione. Nel caso in specie però la borghesia non si scaglia contro i movimenti operai, ma contro il Governo, nazionale o sovra-nazionale che sia. Un paradosso, in parte, qualcosa di inedito e inquietante.
- Ad attivarsi non sono, ovviamente, i ceti popolari e popolani, ma è la classe media, la borghesia persino, ossia quei settori che sentono/temo una perdita possibile di status.
La borghesia dirige il proprio malessere e malcontento verso il Governo e le presunte élite. Che però, notorio, questo il grande abbaglio populista e il dramma culturale, non esistono. Specialmente in Italia abbiamo piccole burocrazie di partito e gruppi dirigenti di scarso lignaggio e leadership occasionale, ma per nulla egemonica. È cruciale dunque capire, individuare e spiegare chi attiva il processo di mobilitazione, chi si attiva, ovvero è ri-attivato; chi è soggetto alla mobilitazione ed eventualmente alla smobilitazione. A dar vita al movimento sono “vecchie glorie” del neo-fascismo con cui la legge è stata troppo indulgente, insieme a ultras del calcio in astinenza da adrenalina domenicale. A questi si uniscono sinceri democratici esasperati dalla crisi economica generata dal COVID. Nella dilagante fase di individualismo e individualizzazione la lettura principale delle manifestazioni di piazza vede pertanto il malessere economico coniugato con un pizzico di sciacallaggio ribellista senza colore politico. È una lettura superficiale e dozzinale, mentre il disegno è piuttosto chiaro come la Storia del Paese e dell’autoritarismo di ogni latitudine. Certamente esistono delle differenziazioni tra grandi città e piccoli centri (sin ora non investiti, non a caso, dalle proteste), tra aree geografiche (il sud più esposto a derive di estrema destra e il nord all’estremismo di sinistra), tra lobbying di categoria, corporativismo, esasperazione, e ribellismo. Una sorta di potpurri in cerca d’autore e soprattutto di leadership che, statene certi, non sarà né Salvini – senza physique du rôle, né Meloni – che si ostina a non modernizzare il partito, tantomeno l’estrema-destra militante senza leader. La marea potrebbe però dilagare disintegrando parti della tenuta sociale.
Le Democrazie per quanto solide non possono però cavarsela con sermoni ed appelli al senso civico. I Governi hanno il dovere di rispondere alle istanze provenienti dal basso proprio per evitare di alimentare il fuoco autoritario. L’uomo piccolo-piccolo, il borghese di Cerami/Sordi fa più paura della massa perché potrebbe fare “scuola” e innescare un processo imitativo di rivolta e di disintegrazione del sistema. I partiti democratici dovrebbero intervenire e guidare, incanalare, assorbire la protesta e gestirla entro dinamiche istituzionali, senza timore di ricevere qualche sonora critica dato che la posta in palio è molto più grande di un piccolo sgambetto nei sondaggi. Il COVID ha solo reso palesi e patenti le contraddizioni sociali, economiche e politiche della società italiana che si risolvono soltanto con il conflitto. Dipende da chi avrà la capacità di guidare ed egemonizzare il processo di transizione, chi sarà in grado di mobilitare, eventualmente di ri-mobilitare, per evitare il rischio di smobilitare. Che significa, sempre Germani, una deriva autoritaria compiuta con silenziamento di ogni partecipazione degli esclusi.