Semel senator semper senator

Editoriale per IL RIFORMISTA

Arturo Toscanini non rimase in carica neppure un solo giorno (del resto, il Maestro non ripeteva). Rifiutò garbatamente, ma senza esitazione la nomina a senatore a vita avanzata da Luigi Einaudi. Preferiva rimanere sobrio e appartato anche in vecchiaia. Dal 1948 in Italia si sono avuti 47 senatori a vita: 38 nominati dal Capo dello Stato e 11 per diritto, in quanto ex Presidenti della Repubblica, di cui due già senatori a vita al momento dell’elezione presidenziale (Giorgio Napolitano e Giovanni Leone).

La carica di senatore a vita è un istituto varie volte oggetto di attenzioni riformatrici, mai compiute tuttavia. La ratio del potere presidenziale previsto dall’art. 59 della Costituzione mira a conferire un solenne riconoscimento istituzionale a quanti abbiano dato lustro alla patria per «altissimi» meriti in ambito «sociale, scientifico, artistico e letterario». Il profilo dei nominati è tuttavia variegato. Insieme a esponenti del mondo culturale, quali Eugenio Montale, Gaetano De Sanctis, Eduardo De Filippo, Carlo Bo, Norberto Bobbio, R. Levi Montalcini, Elena Cattaneo, Liliana Segre, hanno ricevuto la carica senatoriale a vita anche figure politiche, nominalmente non ascrivibili nelle fattispecie indicate nella Carta. Insieme a Luigi Sturzo, Leo Valiani, Giovanni Spadolini e Meuccio Ruini, che avevano anche un profilo extra politico, troviamo esponenti di primo rango dei partiti politici: Ferruccio Parri, il citato Leone, Pietro Nenni, Amintore Fanfani, Giulio Andreotti, fino a Giorgio Napolitano. Ultimo, questi, in ordine di tempo, rappresentante della categoria “politici”, quasi a completare idealmente la copertura dei partiti dell’intero arco costituzionale.

La permanenza in carica dei senatori a vita è stata pari in media a circa undici anni per quelli nominati e dodici per quelli di diritto. L’età media al momento della nomina è pari a 77 anni per l’intero gruppo. Dei 47 senatori a vita solo 4 sono donne e nessuna ovviamente, ancora, per diritto. Tra gli ex presidenti, che assumono la carica senatoriale “salvo rinunzia”, soltanto Francesco Cossiga presentò le dimissioni, in due occasioni, una volta ritirandole e una seconda allorché l’Aula del Senato le respinse. Ma faceva parte del carattere “egocentrico” e provocatorio dell’ex ministro dell’Interno. Tra i nominati, invece Indro Montanelli rifiutò cortesemente proprio la proposta di Cossiga per ragioni deontologiche, per rimanere, in quanto giornalista, distinto dal potere politico.

Se guardiamo alle legislature, rileviamo che in media si sono avvicendati dieci senatori (di diritto e di nomina) per legislatura (sette considerando solo quelli nominati), con il picco delle legislature 1987-92 e 2001-06 (undici). Nel complesso, come da indicazione costituzionale, e con ampio consenso giurisprudenziale, il Capo dello Stato puo’ nominare “fino a” cinque senatori a vita purché quelli in carica per nomina presidenziale non siano in quantità superiore a tale numero. Einaudi ne nominò otto, Cossiga cinque, Leone uno, Saragat, Ciampi e Napolitano quattro, al pari di Pertini che con le sue scelte fece salire il numero di nominati oltre la soglia. Ragion per cui Oscar Luigi Scalfaro non procedette a nessuna nomina durante il suo settennato, motivando per tabula la sua interpretazione della Carta. E da allora sempre rispettato come orientamento quirinalizio.

La presenza dei senatori a vita nell’ordinamento e nel sistema parlamentare non ha generato problemi di tipo politico ché rimandava alle eredità ottocento e novecentesche delle cariche ereditarie e/o per diritto, per coniugare la rappresentanza popolare che irrompeva sul proscenio e l’animo “culturale” profondo della nazione. La prima fase del sistema politico e partitico italiano non è stata dunque condizionata da questa componente non elettiva fintanto che i partiti erano in grado di esprimere delle coalizioni a sostegno del governo. L’apertura della fase cosiddetta “bipolare” dal 1994 ha però posto alla ribalta il gruppo senatoriale: ad esempio, furono cruciali e a volte determinanti per la formazione del governo Berlusconi I, Prodi II, Conte II in taluni frangenti. Con tanto di epiteti nei confronti degli anziani senatori quasi non fossero legittimati ad esprimere le loro opinioni, il loro voto, ad esercitare le loro prerogative; come non ricordare gli epiteti nazi-razzisti rivolti dai banchi dell’estrema destra nei confronti delle senatrici Segre, Levi Montalcini, tra gli altri.

Il “problema” comunque permane e una riforma dell’articolo 59 pare dunque non rinviabile. Discussioni e proposte sono state avanzate in varie occasioni, e più recentemente durante la Commissione bicamerale guidata da Massimo D’Alema nonché nel quadro della riforma costituzionale “Renzi”, entrambe non approvate. Sintetizzando per ragioni editoriali, possiamo restringere a due le opzioni principali. L’abolizione della carica senatoriale a vita oppure lasciare in carica soltanto la figura dell’ex Presidente. Per la cui elezione sarebbe probabilmente il caso di riconsiderare, livellandola verso il basso, l’età per l’eleggibilità. In subordine si potrebbe espungere dalle prerogative dei senatori a vita il rapporto fiduciario nella dinamica Parlamento/Governo.

L’esiguità delle maggioranze parlamentari (il caso Draghi essendo, sperabilmente, l’eccezione), anche derivante dall’assegnazione su base territoriale/regionale dei seggi senatoriali elettivi, riporta in evidenza la necessità di discutere un istituto che rimanda a un altro periodo storico. Sei senatori, quelli attualmente in carica, possono pesantemente incidere sul rapporto rappresentante/rappresentato in una logica che però prescinde dal legame elettorale. Nelle more stuoli di personaggi che pensano di avere dato lustro alla Patria, covano una speranza. Fioca tuttavia.

Nemici per sempre. Amici miei

Editoriale per IL RIFORMISTA

«Amo così tanto la Germania da preferirne due». Una frase attribuita a Giulio Andreotti, sette volte Presidente del Consiglio, deputato dalla Costituente, più volte ministro. E tanto altro. In realtà si tratta di un quasi falso storico ché a pronunciarla fu il premio Nobel per la letteratura François Mauriac: «Amo talmente la Germania che sono proprio contento ce ne siano due». Al di là del diritto di attribuzione, della diversa finezza linguistica e della proprietà intellettuale contano la provata scaltrezza politica e l’abilità di tattico del Divo. Andreotti in quella frase e nel concetto contenuto intravedeva e delineava l’intero piano del realismo politico democristiano, fornitore della sua condizione di privilegio e posizione di intoccabilità e non contendibilità.

La divisione in blocchi contrapposti e sfere di influenza come definite a Yalta, la “cortina di ferro” delineata da W. Churchill, gli USA e l’URSS, il “bene” e il “male”, il diavolo, il nemico e l’imperitura lotta. In questo contesto l’Italia finì sotto l’egida dello Zio Sam, prodigo, generoso in beni materiali e immateriali, ma anche esigente e occhiuto su quanto si muovesse lungo lo Stivale. I Comunisti – la più grande forza dei paesi occidentali, che aveva lottato per la democrazia e stava scrivendo la Costituzione -, vennero esclusi dal Governo appena De Gasperi poggiò piede sul suolo patrio di ritorno dagli States nell’inverno del 1947; era il fio per il Piano Marshall, ma anche per la richiamata divisione in Blocchi.

La conventio ad excludendum inoltre scartava qualsiasi possibilità di accesso al governo delle “sinistre” nonché, ovviamente, dei post-fascisti che non avevano nemmeno votato per la Costituzione. Il sistema partitico era bloccato, e l’alternanza era “impraticabile” (Giovanni Sartori) stante la distanza ideologica tra PCI e DC. In sedicesimo l’Italia riproduceva, ed esasperava le dinamiche avversariali tra “Nato e Patto di Varsavia”. La logica del “nemico alle porte” era funzionale alla permanenza al potere della Democrazia cristiana, una assicurazione sulla vita (politica) che Andreotti, e non solo, intuì bene e presto. In assenza di alternative praticabili rimane solo un attore in grado di governare. Ma, attenzione, resta legittimato anche un solo (o poco più) partito capace di opporsi. La dualità amico/nemico, elemento base della politica come insegna Carl Schmitt, in Italia trova l’acme durante tutta la fase democratica. Dopo il 1989/1991, con la fine delle celebri Due Germanie, al fattore K si sostituì, a parti politiche invertite, il fattore B-erlusconi. Il piduista – è storia -, il pluri-indagato, l’amico di Bettino Craxi, il datore di lavoro di un mafioso, l’imprenditore rampante, fai da te (fino a un certo punto), il donnaiolo incallito, l’alleato dei post-fascisti, il liberalizzatore, il gaffeur, l’amico dei Conservatori, il proprietario di molte (troppe) tv, adulatore delle masse e delle massaie, cantore dell’evasione fiscale, se “giusta”. Il Caimano, e altri epiteti irripetibili. Reo di avere distrutto i sogni di gloria dell’«allegra macchina da guerra progressista», in realtà già nata sgangherata e con poca capacità di capire il nuovo contesto politico e sociale del 1994.

Che Berlusconi fosse, e sia stato, un personaggio politico con una agenda politica non proprio “progressista” e per certi punti persino perniciosa, a me pare(va) evidente. Che l’uomo fosse spregiudicato è lapalissiano. Il punto politico rimanda però all’attualità, al realismo. Al cambiamento radicale del sistema politico e partitico avvenuto tra il 2011 e il 2019. Si sono succedute tutte le possibili combinazioni di alleanze, coalizioni, tipi di governo che un intero manuale di scienza politica quasi non basterebbe. Rimane però lo stigma del fattore B, nonostante, appunto, il PD, la Lega Nord, Fratelli d’Italia i vari “centristi” abbiano contratto alleanze con Lui senza quasi alcun problema. Quale, dunque, il motivo di tanta acrimonia, al netto delle diversità politiche e del CV del Cavaliere non proprio da studente di Oxford? Una sorta di nuova conventio ad excludendum. Del resto, l’anti-B ha funzionato come garanzia, per molti. La dicotomia tra quelli de “meno male che Silvio c’è” e lo stucchevole anticomunismo urlato da Berlusconi hanno consentito di non rinnovare la classe dirigente della Sinistra, almeno, e in parte, fino alla “rottamazione”, e alla Destra di rimanere incagliata tra nostalgie novecentesche e sogni di liberalismo illusi dalle trame di potere di un uomo solo al comando. È un vantaggio inneggiare, sì inneggiare, all’anti-B in funzione andreottiana, ossia per rimanere saldi al comando che tanto “il popolo impaurito seguirà”. E infatti seguiva, ma poi stanco ha voltato le spalle. E chissà per quanto. Walter Veltroni nel 2008 provò a “normalizzare” il PD, ma anche i rapporti con il principale esponente dello schieramento a noi avverso, non definito appunto “nemico”. Fu un profluvio di accuse, e di ritorno al partito “vero”.

 

 

 

 

 

La cronaca recente racconta di avvicinamenti, di sostegno parlamentare di pezzi di Forza Italia alla manovra di bilancio, mentre altri in ossequio al trasformismo lasciano per seguire la Lega Nord. Se la decisione di votare insieme alla maggioranza fosse presa alla luce del sole, con motivazioni argomentate e, dunque, falsificabili, non credo staremmo allo scandalo. Viceversa, se si trattasse di trame oscure, andrebbero stanate dalle opposizioni e dalla stampa. I partiti decidano assumendosi le conseguenti responsabilità davanti al Parlamento e al Paese. Il quale non è ancora “normale”. Il dualismo amico/nemico ha superato i livelli di guardia, il populismo ha avvelenato i pozzi del vivere comune. La destra e la sinistra non hanno modernizzato la loro visione e la loro agenda, mentre i populisti faticano a decifrare la realtà politica nazionale e internazionale. Una parte della sinistra e una componente ampia del populismo di vario lignaggio rischiano di rimanere in cerca d’autore senza IL nemico. Senza il quale si prosciugherebbero le colonne di interi editoriali(sti), fortune politiche scomparirebbero. Nulla di indecente, ma è importante saperlo.

E se invece di accusare di “tradimento” si parlasse del merito, delle proposte per la crisi economica, sanitaria, culturale, ambientale, in una fase storica diversa e tragica per il Paese? Sarebbe più complicato e ciascuno dovrebbe mostrare cosa sa dire/fare. Meglio, più redditizio “amare così tanto Berlusconi da preferire ce ne siano due”.