Trasformismo italico

Editoriale per IL RIFORMISTA 

Milazzo. Ridente cittadina siciliana, un lembo di terra del messinese che si proietta verso le isole Eolie. Il fenomeno politico quasi omonimo – milazzismo – trae ispirazione però da Silvio Milazzo, politico democristiano e presidente della Giunta regionale. Il quale nel 1958 fu eletto grazie al sostegno del Partito comunista italiano e del Movimento sociale italiano a scapito di un altro candidato “ufficiale” democristiano. L’operazione, in chiave “autonomista”, che ebbe l’avallo delle segreterie nazionali del PCI e del MSI, provocò l’espulsione di Milazzo dalla DC e la sua giunta ebbe vita grama ed effimera. Con tanto di scomunica ecclesiastica per i comunisti.

Superando la distanza ideologica, e il livello di polarizzazione parlamentare e sociale, è possibile che si verifichino alleanze tra partiti all’opposto del continuum tra (estrema) destra e (estrema) sinistra. Ad essere esautorato è il “centro” in un’alleanza tra destra e sinistra, il cui grado di estremismo dipende ovviamente dal contesto nazionale, dal periodo storico, dai partiti. Raro, invero, che accada, ma è successo anche al di fuori della Trinacria. Recentemente la coalizione in Austria tra i Verdi e i popolari di centro-destra (in passato alleati dell’estrema destra di Jörg Haider) richiama in parte lo scenario dell’alleanza tra “estremi”. Viceversa, le coalizioni “anomale”, tra avversari dichiarati e storici, in Europa si sono avute sotto forma di Große Koalition. La grande coalizione si ebbe tra l’altro per molti anni proprio in Austria, per ragioni storiche, non facilmente riproducibili altrove, di divisione in “pilastri” sociali ed economici/politici. In Germania (1966-69) allorché i liberali abbandonarono la CDU per allearsi con i socialdemocratici, e infine quasi ininterrottamente dal 2005. Il che rappresenta un problema soprattutto per l’SPD in cerca di identità, leadership, e politiche oltre che di voti per rispondere alla sfida dei Verdi, della sinistra e della rinnovata classe dirigente cristiano-democratica. Tra gli altri casi degni di nota, il Portogallo che per ragioni congiunturali nel 1983-85 vide la coalizione tra socialisti e socialdemocratici (di centrodestra), in un paese in cui le estreme contano pochissimo.

In Italia recentemente c’è stato il governo cosiddetto tecnico, in realtà iper-politico e iper-partitico, guidato dal senatore a vita Mario Monti tra il 2011 e il 2013 poiché raccoglieva l’intero arco parlamentare (meno la Lega Nord, A. Mussolini e D. Scilipoti).

Nel primo periodo del sistema partitico italiano viceversa, bisogna tornare agli anni Settanta, per trovare un’alleanza tra due partiti rilevanti opposti. La Democrazia cristiana e il Partito comunista diedero vita alla “Solidarietà nazionale” nel quadro del negoziato per il “compromesso storico”. All’indomani del rapimento di Aldo Moro i comunisti votarono, per la prima volta nella storia, la fiducia al Governo DC guidato da Giulio Andreotti, che pure osteggiava l’avvicinamento tra i due “partiti chiesa”. In generale si trattò di una notabile eccezione posto che in assenza di alternanza possibile né praticabile i cambiamenti di governo, di coalizione, di Presidente del Consiglio dei Ministri, avvenivano all’interno del circuito che comprendeva la DC e i suoi alleati laici, con l’(auto)esclusione di PCI e MSI.

L’Italia però è la patria del Trasformismo, la esecrabile pratica parlamentare per cui, su basi individuali, singoli parlamentari abbandonano l’opposizione per unirsi alla maggioranza in virtù di scambi (leciti o meno che siano non rileva) con la parte opposta portando in dono il proprio voto. Dagli anni Novanta sono cresciute le casistiche di deputati e senatori che non solo hanno lasciato il proprio partito, ma che hanno raggiunto il polo avverso, per varie e più o meno commendevoli ragioni.

La cosiddetta crisi di governo (politica e non istituzionale, per ora) dell’esecutivo (II) guidato dall’avv. Giuseppe Conte segnala inequivocabilmente un problema di
chiarezza politica tra elettori ed eletti. Le elezioni politiche del 2018 consegnarono un sistema partitico diviso in tre poli contrapposti e indisponibili a negoziare; lo stallo fu palese durante le prime consultazioni al Quirinale, superate solo in virtù dell’inversione programmatica del Movimento 5 stelle che decise di allearsi con i vituperati nemici capeggiati da Berlusconi-Salvini. Le trattative/negoziazioni/transazioni che avvengono in queste ore nelle adiacenze del Parlamento non devono scandalizzare sul piano morale, quanto mettere in allerta la responsabilità politica degli eletti rispetto al principe democratico. Vero che nel 2018, appunto, non c’era nessuna offerta di alleanze coerente con quelle dei governi Conte, e che pertanto le giravolte del M5s, in grado di allearsi a un tempo con l’estrema destra e con l’estrema sinistra, hanno scombinato gli assetti politico-parlamentari, ma rimane irrisolta la questione della lealtà elettorale.

La crisi di governo è prima ancora una profonda sconfitta dell’etica politica. Non si tratta di mettere in discussione il mandato imperativo, ma il mandato politico. Ciascun lato degli ultras pro/contro Conte ha argomenti politici/elettorali per giustificare ex post le proprie scelte. A chi analizza non rimane che porre la questione, sommessamente.  

A chi rende conto politicamente della propria scelta il parlamentare X che passa dalla destra alla sinistra o viceversa? Non al partito, non agli elettori, non al gruppo parlamentare. Semmai a un ordine del giorno verbale in una conventicola laddove le scelte individuali trovano ampia e rassicurante conferma circa la correttezza. Un indistinto grigio, in cui tutto è possibile, e i passaggi sono fungibili (del resto per anni si è declamato il bello del post “destra/sinistra”). C’è dunque un problema di tradimento politico non argomentato, giustificato e spiegato. Che investe a vari livelli tutti i gruppi politici. Non si tratta di piccoli, sparuti gruppi. Si tratta di centinaia di cambiamenti di schieramento politico durante le ultime legislature. C’è un problema strutturale; di regolamenti parlamentari, di cultura politica, di democrazia, di etica della responsabilità.

Il trasformismo (si veda Giovanni Sabatucci, Il trasformismo come sistema, Laterza) non è pernicioso poiché non si tratta del legittimo, e costituzionale, diritto alla libertà parlamentare senza “vincolo di mandato”, quanto per le conseguenze che genera in termini di “responsabilità”, di accountability. I cittadini/elettori non sapranno, o non vorranno sapere, chi ha cambiato casacca, chi è responsabili di cosa, e il tutto apparirà come un indistinto e non distinguibile copro omogeno dove le parti sono fungibili. Da lì, si alimenta il populismo che non a caso costruisce una dicotomia tra “noi” (popolo virtuoso) e “loro” (classe dirigente viziosa, per rimanere in metafora).

Il Parlamento è sovrano, si dirà. Vero, in parte. La libertà di espressione e di comportamento politico degli eletti deve essere garantito e tutelato. Sacrosanto. Ma, in assenza di un sistema elettorale di impronta maggioritaria (il Presidente Conte ha fatto riferimento a una riforma elettorale in senso proporzionale…) che alimenti il circuito eletto/elettore e di partiti strutturati, solidi e socialmente insediati, il rischio dell’assemblearismo è ricorrente.

Quanto dannosa fosse la pratica di mutare alleanza e schieramento politici lo notò anche Giosuè Carducci: «Trasformismo, brutta parola a cosa più brutta. Trasformarsi da sinistri a destri senza però diventare destri e non però rimanendo sinistri. Come nel cerchio dantesco dei ladri non essere più uomini e non essere ancora serpenti; ma rettili sì, e rettili mostruosi…».

In un Paese di “compari” è necessario porre chiarezza, rendere alternative le proposte, chiare le differenze, distinguibili le opzioni in campo, conseguenti le responsabilità. I cittadini potranno meglio valutare, confutare, decidere di sostenere ovvero di sanzionare chi governa e anche chi si oppone per quanto fatto o non fatto.

Strage di Stato. Stato di strage

editoriale per il Corriere della Sera

L’estate del 1980 fu terribile per l’Italia intera, ma per Bologna fu particolarmente acre e dolorosa. Sanguinante e segnata dalle lacrime per i morti provocati dall’abbattimento dell’aereo DC-9 Itavia sui cieli di Ustica e per la bomba di matrice masso-fascista esplosa nella sala di attesa della Stazione Centrale. Centinaia i morti (166 nel totale dei due casi) e i feriti, che ancora esigono Giustizia e verità.

Quei due eventi non erano purtroppo una novità, ché la Storia della Republica italiana è una vicenda martoriata, segnata da lutti, trame di servizi segreti deviati, traditori della Carta costituzionale, tentativi di golpe piu o meno striscianti, terrorismo. Il tutto combinato con silenzi, omissioni, verità negate, ricostruzioni parziali, tentativi di depistaggi, massoneria, P2 e mafia.

Da Portella della Ginestra passando per il 12 dicembre del 1969, a Piazza Fontana a Milano, dove l’Italia perdette per sempre l’innocenza e inauguro’ la cosidetta strategia della tensione, al rapimento e omicidio di Aldo Moro, all’uccisione di Falcone e Borsellino, al terrorismo nero e le Brigate rosse, e decine di altri eventi tragici, che compongono un doloroso rosario di morti e ingiustizie impossibile da riportare in un editoriale.

Stragi di Stato, troppe, uno stato di strage, filo rosso che lega l’ossatura malata della storia repubblicana. Lo Stato che non tutela e che invece cela allontanando da sé la fiducia dei cittadini.

«Io so», disse di quella fase qualche anno prima del 2 agosto 1980 riferendosi ad altre due stragi (del 1974) – Piazza della Loggia a Brescia e l’Italicus alle porte di Bologna -, il Pier Paolo figlio illustre della Città Dotta. Oggi molto sappiamo, ma troppo rimane ancora oscuro. Le conoscenze accumulate derivano dal lavoro di giudici, forze dell’ordine, storici, giornalisti, e dalla ricerca qualificata e instancabile, encomiabile, dell’Associazione tra i familiari delle vittime, sia nel caso di Ustica che per la strage della Stazione. Daria Bonfietti e Paolo Bolognesi coordinano, conducono e proseguono, infaticabili, una lotta civica che ha fornito molte informazioni e offerto il materiale per disvelare il sistema di trame e complotti parallelo allo Stato democratico.

Un dolore che non è solo dei ‘parenti delle vittime’, ma è una piaga sociale lancinante e putrida che va sanata per ridare dignità alla democrazia. Oltre che onorare la memoria delle vittimie, risarcendo i familiari.

L’orologio della Stazione continua a segnare le ore 10.25, quando tutto si fermò. Ma oggi quel segno impietrito rischia di essere perso dalla frenetica attivita della stazione “Alta velocità” con la gran parte dei passeggeri che non vede la lapide della sala di seconda classe dove esplose l’inferno. Si potrebbe rimediare con del materiale informativo permanente vicino a quello numeroso e prosaico su orari e bibite. Sarebbe un ottimo viatico in una fase storica di prove di rimozione collettiva, di normalizzazione della ferocia assassina, di banalizzazione del male, di dissimulazione delle responsabilità e di goffi tentativi di riabilitazioni collettive.

Bologna fu colpita duramente, ma seppe rialzarsi. Sin dalle ore imminenti la strage la solidarietà fu il tratto distintivo, come tradizione. Dal famoso autista del bus numero 37, ai tassisti, agli infermieri, ai cittadini che accorsero per offrire aiuto furono a centinaia, mentre già marciava la macchina della disinformazia, del depistaggio, alimentata ancora oggi da qualche cantore sciocco, mentre Mambro e Fioravanti, terroristi dei Nar di estrema destra, sono stati condannati quali esecutori materiali. Rimane da svelare la trama di coperture politiche e istituzionali.

Bologna esige rispetto, e rivendica verità e giustizia. E lo fa con la consueta composta fermezza, solida, ostinata e tenace fino a che non si apriranno gli ultimi faldoni e non si cancelleranno le residue ombre illuminando gli angoli bui della Repubblica, tale solo se non esistono “segreti di Stato”.

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella oggi è in visita ufficiale alla città medaglia d’oro al valor militare per la Resistenza, nella settimana in cui si commemora il 40˚ anniversario della strage.

Il 2 agosto del 1980 accorse a Bologna un altro Presidente, Sandro Pertini: «Siamo di fronte all’impresa più criminale che sia avvenuta in Italia» e pianse ricordando due bimbi in sala rianimazione.

La presenza del Capo dello Stato è un ottimo segnale, un buon auspicio. Un gesto di grande significato istituzionale, sociale, politico-culturale e civico, linee guida della Presidenza Mattarella, parco nel numero di parole usate, prodigo nel fornire il giusto esempio, da vero Padre della Patria e promotore della democrazia. Benvenuto Signor Presidente.