Why Poland’s president could lose Sunday’s runoff vote

New research explains why a first-round leader doesn’t always win the second round.

my article for The Monkey Cage – Washington Post

Poland’s President Andrzej Duda faces a second-round runoff election Sunday. Duda failed to clear 50 percent in the June 28 first-round election, which meant Poland would have to hold a runoff between the top two finishers. Duda faces Warsaw Mayor Rafal Trzaskowski in Sunday’s final vote.

In the first round, Duda had 43.5 percent of the vote, placing him ahead of Trzaskowski, the candidate of the centrist Civic Platform, with 30.5 percent. At first glance, these results suggest that Duda should easily win the presidency in the second round. However, our research suggests that the presidential elections in Poland could offer a further surprise.

The candidates

Duda is the leader of the Law and Justice party (PiS), a conservative political party that has been ruling the country since 2005. The party has taken a hard line on managing Europe’s migrants, showing its right-wing views on immigration. Many Poles have been strongly critical of efforts by Duda and the PiS to weaken the independence of the country’s constitutional judges.

Political scientists Kamil Marcinkiewicz and Mary Stegmaier predicted the likelihood of a second-round runoff here in the Monkey Cage, in part because of strong campaigning from Trzaskowski. And while we would normally expect the candidate leading after the first round to win in the second round, our research shows it’s not that uncommon to see the first-round winner lose in the final voting.

How we did our research

We could rely on polls to predict the final vote, but we take a different approach. Our research instead analyzes data related to the electoral results of the first round and the structure of the political system.

In total, we looked at 73 countries and 181 elections from 1945 to 2020, including presidential and semi-presidential regimes. We found that in about 30 percent of all second-round competitions (that’s 57 percent of all the presidential elections since 1945) in presidential and semi-presidential regimes, it’s the runner-up from the first round who wins in the end.

While the number of electoral comebacks — when this second-place finisher wins the presidential runoff — constitutes important data for understanding the political process in those countries, we wanted to investigate an intriguing aspect: Why does this happen?

What predicts this second-round comeback effect?

To make plausible predictions about second-round comebacks, we have considered several factors: the political regime (presidential or semi-presidential), presidential power, term lengths and the electoral formula for the presidential election. Moreover, we took account of a number of details about the first round of voting, including the number of presidential parties and the distribution of votes among the candidates, or how large the vote gap was between the first-round winner and the runner-up.

In Poland’s 2020 election, the factors that matter most in predicting the results are the number of political parties running, whether the incumbent president was running for reelection, the term length and the difference in the first-round vote count between the top two candidates.

Interestingly, even those candidates with a large vote share in the first round were not always safe in the runoff voting. In all but one case, our database of runoff comeback victories tells us that the difference between the top two candidates in the first round was less than 20 points. Thus, the first round is important, especially in light of the front-runner’s vulnerability and chances of being defeated in the runoff.

Predictions for Poland’s 2020 presidential elections, showing percent chance of each outcome. Figure by Gianluca Passarelli based on his data archives and data from the Polish interior minister.
Predictions for Poland’s 2020 presidential elections, showing percent chance of each outcome. Figure by Gianluca Passarelli based on his data archives and data from the Polish interior minister.

So what does this mean for Poland? 

There are several possible electoral scenarios. Based on our model, which takes account of many of these factors — including the electoral system, the number of presidential political parties, the presence of the incumbent running for reelection, the term length and the country’s democracy level, here are some predictions for Poland’s 2020 presidential elections:

1. Victory for Duda in the first round (which we know did not happen): about a 25 percent chance.

2. Duda loses in a second-round comeback: about a 14 percent chance.

3. Victory for Duda in the second round: about a 61 percent chance.

Therefore, our model suggests that it wasn’t that surprising that Duda did not win in the first round. And it would be surprising — but not totally out of the realm of possibility — for Duda to lose this weekend.

La nuova Terza Italia? Il Nord-est alla ricerca di un ruolo

Dopo i disastri sociali ed economici generati dalla Seconda guerra mondiale voluta dalla dittatura fascista e perseguita da Mussolini, l’Italia rinacque. Economicamente il cosiddetto boom fu favorito da diversi fattori, nazionali e internazionali, come il Piano Marshall, i Trattati di Roma, e le politiche keynesiane e distributive. Il “miracolo economico” interessò salari, esportazioni, occupazione, infrastrutture e innovazione tecnologica, in una logica di rilevanti investimenti pubblici. Il triangolo industriale correva tra i poli di Milano, Genova e Torino, città operaie e simbolo dell’urbanizzazione e dell’abbandono delle campagne e del Sud, sintetizzato nel celebre Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti.

A quel mondo dell’operaio-massa si affiancò, e in qualche misura si oppose, un’altra Italia, il cui sviluppo economico si basa(va) al contrario sull’imprenditorialità familiare e quindi sulla specificità delle piccole industrie rispetto all’approccio tayloristico della catena di montaggio. La peculiarità poggiava soprattutto sulla coesione delle comunità locali, a diffuso “capitale sociale”, che garantiva elevata fiducia, prevedibilità, condivisione di modelli di sviluppo. La “Terza Italia” ha rappresentato un modello, studiato e ammirato oltre i confini nazionali, e spesso osannato per la capacità di innovazione e generazione di ricchezza. Quell’area faceva riferimento al Centro/Nord-Est, su cui insistevano diverse sub/culture politiche. In Veneto la Zona Bianca, di matrice cattolica e voto democristiano, e in Emilia-Romagna, Toscana e Umbria, l’influenza dell’apparato e della sub-cultura social-comunista, con forte sindacalizzazione.  Oggi, e da qualche lustro invero, quelle stesse aree sono sotto l’influenza leghista a nord del fiume Po, e del PD a sud di esso. La crisi economica/finanziaria ha investito il Pianeta e nemmeno la Terza Italia ha potuto opporvisi, sebbene sia riuscita a tamponare meglio di altre regioni l’impatto e a ri-programmare il futuro. Ma gli aspetti positivi e l’elogio del modello economico della piccola/media impresa hanno talvolta sfiorato la mitizzazione. Le aziende italiane, ad esempio, sono prevalentemente produttrici per altre aziende, cui legano inevitabilmente i loro destini in un contesto di forte fluttuazione e di nazionalismo econmico, mentre ad esempio quelle tedesche sono in larga misura produttrici per il mercato fnale. In un contesto di competizione globale non è detto che “piccolo” sia positivo e anzi molto di quella logica andrebbe aggiornato, persino ribaltato in taluni casi. In questa direzione credo vada letta l’azione dei Presidenti della giunta regionale di Veneto, FVG ed Emilia-Romagna che hanno promosso una sorta di “distretto del turismo” post Covid-19.

Tuttavia, per proporsi all’esterno come “regione unica” è indispensabile avere politiche comuni sul piano dei trasporti, della sanità, della proposta culturale, e sulla gestione del patrimonio ambientale. Si tratta di politiche non neutre, in cui le differenze politiche tra Bonaccini e il duo Zaia/Fedriga non possono essere taciute, e non sarà la politica del turismo a colmarle. Un passo avanti è stato compiuto, ed è positivo, ma oltre a connettere Verona con Rimini, ancora troppo lontane, va integrata anche la gestione dell’inquinamento e del consumo del suolo, su cui mi pare esistano lampanti differenti di governo regionale. Dunque, la geografia economica muta e mutano anche gli interessi dei partiti e i paradigmi dello sviluppo economico in una fase di potente disuguaglianze. Infine, il tutto va tenuto saggiamente insieme in una logica solidale e in un disegno istituzionale politico nazionale, non solo perché sancito in Costituzione, ma poiché essenziale per competere con le altre “Terze Italie” in giro per l’Europa e il Mondo.

Primarie o fratricidio. Il bivio del PD

Editoriale per il Corriere della Sera (Bologna)

Parafrasando Mao Zedong si potrebbe dire che la scelta del candidato sindaco non sia un pranzo di gala. Il dibatto sulle prossime elezioni comunali di Bologna entra nel vivo, anche grazie al meritorio lavoro del Corriere di Bologna. E gli attori principali e quelli aspiranti ad esserlo preparano strategie, acconciano le tattiche nella speranza inconsapevole che la realtà incontri i propri desiderata. Le legittime aspirazioni politiche vanno però contestualizzate all’interno di un clima sociale, economico e culturale in continuo fermento, con indicatori che volgono al peggio. Sul piano politico c’è stato il dibattito promosso dal Presidente Romano Prodi che ha meritoriamente smosso le acque, con interventi autorevoli, proposte e idee, cibo per la mente. Per progettare la città del 2050, partendo da quanto di positivo, che è importante, per superare quanto non fatto, nella continua ricerca di migliorare. Le idee e il dibattito sono il sale democratico e quindi è auspicabile che si tratti solo di uno dei tanti luoghi di incontro e scambio. Nello stesso campo di azione politica, il centro-sinistra, è intervenuto anche il sindaco Virginio Merola che in più occasioni ha usato toni decisi e schietti circa il modo per condurre la transizione. L’amministrazione uscente ha un paniere di atti compiuti da consegnare alla città che ne valuterà l’operato, e Merola auspica on una intervista recente che dalla sua squadra di assessori emerga il successore. Da un lato indica un profilo “bastardo”, ossia senza padrini e madrine, dall’altro però egli stesso segnala da quale circuito (non) debba provenire il/la prescelto/a. Insomma, i toni molto progressisti parevano a tratti molto difensivi, preventivamente.

Nelle società liberali il confronto tra idee, interessi, forze contrapposte è l’unico modo per misurare la forza, la qualità e l’adeguatezza di politiche e politici. Nei prossimi mesi il dibattito crescerà di intensità e sperabilmente anche di qualità rimanendo su toni costruttivi e propositivi. Tuttavia, nell’ambito del centro-sinistra è plausibile indicare almeno tre scenari, il cui livello di probabilità dipende dal comportamento degli attori politici in campo. 

Le forze che dovranno comporre la coalizione potrebbero essere quelle dell’alleanza pro-Stefano Bonaccini per le elezioni regionali, cui però va aggiunta l’incognita del Movimento 5 stelle. Al ritorno dalla pausa estiva emergerà la questione circa l’eventualità di contrarre una collaborazione/alleanza con il partito con cui il PD governa sul piano nazionale e con il quale probabilmente si alleerà in alcune contese regionali in autunno. Una volta definite le alleanze si procederà con le (auto)candidature. In assenza di accordi, di scelte condivise, il primo scenario, la guerra fratricida è dietro l’angolo, e per nulla implausibile. La seconda opzione è il ricorso a un candidato unico sostenuto dai principali azionisti. Tuttavia, questo scenario comporta un accordo non solo tra i maggiorenti, ma anche dei passaggi formali nell’Assemblea cittadina del Partito democratico, con deliberazioni a maggioranza qualificata. Insomma, l’eventuale Papa straniero (anche se residente in città) non deve essere troppo esotico per non risultare inviso alla città, ché il 2004 fu una eccezione e i bolognesi hanno un palato esigente e il loro voto sempre meno “certo”.

Il terzo scenario è quello delle primarie di coalizione. Una volta stabilito il perimetro degli alleati, il PD può decidere se avere uno ovvero più di un competitore proveniente dalle proprie fila, purché sempre l’Assemblea cittadina del partito deliberi in tal senso (70% dei delegati per avallare un candidato unico ovvero il 35% dei delegati o il 10% degli iscritti a sostegno di ciascun contendente).

L’arena del confronto intellettuale deve rimanere sempre aperta, il fuoco alimentato con contributi e proposte, la contesa per la mutua persuasione proceda senza timore. Tuttavia, per la scelta del migliore, è auspicabile adottare procedure standardizzate, una competizione pubblica, aperta, schietta. Viceversa, c’è il rischio della non legittimazione da parte degli alleati e che dunque non giungendo la “telefonata di congratulazioni” al vincitore, gli altri, gli esclusi si comportino di conseguenza, aprendo le porte allo scenario numero due. La guerra.

 

Unità nazionale? Meglio il neo-corporativismo

Unità nazionale? Meglio il neo-corporativismo
editoriale per IL RIFORMISTA (24/06/2020) 

Il “governo di unità nazionale” è stato per un po’ di tempo una delle opzioni per la costruzione di un governo stabile, autorevole e in grado di portare a compimento il processo riformatore necessario in diversi settori economici e sociali.

Il refrain “è necessario un governo di unità nazionale” è stato presente sin dal 2018. Il risultato delle elezioni politiche ha generato un’alleanza parlamentare che per quanto fosse preannunciata e pianificata dai negoziatori di Lega (Nord) e Movimento 5 stelle è stata manifestamente una forzatura, almeno per una componente del gruppo “grillino”, sebbene il resto del partito si sia rapidamente e solidamente adeguato allo schema governativo. Le intemperanze del sen. Matteo Salvini, incapace di governare l’entusiasmo per l’accesso al potere ministeriale, e i disastri generati con la gestione dell’ordine pubblico e del flusso dei migranti hanno fatto il resto. La nomina del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte è stata dunque il punto di mediazione tra Lega (Nord) e M5s, reciprocamente sospettosi durante le estenuanti settimane di negoziazione egregiamente e saggiamente guidate dal Presidente della Repubblica. La disfatta di Salvini e l’operazione del PD influenzato dal timore di molti suoi parlamentari di perdere (per sempre) lo scranno e l’intervento di Matteo Renzi (o la Mossa del cavallo, se preferite) hanno spodestato la Lega dal governo in una normale logica parlamentare. E ancora una volta è emersa la tentazione o il tentativo di avere un governo tecnico, con meno chances di successo rispetto al passato posto che le posizioni di Lega (Nord) e PD erano assai distanti.

Tuttavia, è necessario chiarire che cosa si intenda con unità nazionale. Il riferimento è a fasi eccezionali in cui le forze parlamentari si uniscono sostenendo una formazione di governo unitaria, condivisa. L’opposizione decide cioè di contribuire alla creazione di un governo, sostenendolo in parlamento (ovvero non ostacolandone la nascita con l’astensione, ad esempio), entrando a far parte della compagine esecutiva, o fornendo solo l’appoggio parlamentare (cosiddetto sostegno esterno) senza avere rappresentanza ministeriale. In periodi eccezionali, e tendenzialmente brevi, ovvero limitati al periodo della crisi, tutti i partiti sostengono un governo unitario appunto.

Il “governo nazionale” è però diverso, concettualmente ed empiricamente, dalla Grande coalizione, con cui spesso viene confuso.

Il governo di unità nazionale si differenza dalla Grande coalizione nella qualità del sostegno parlamentare (tutti i partiti nel primo caso, i due più grandi dei rispettivi schieramenti nel secondo), e per le finalità che lo producono. Le Grandi coalizioni rispondono ad impasse parlamentari dovute a frammentazione partitica e/o eccessiva distanza ideologica e si basa su un programma politicamente condiviso, mentre l’”unità nazionale” si ha quando il Paese affronta una situazione extra ordinaria, come una guerra, e l’obiettivo risiede nel superare l’evento che ne è causa stessa.

Esistono celebri casi di Grandi coalizioni, ad esempio in Germania (1966-69; 2005-09; dal 2013), in Austria (per ragioni storiche sociali) o anche in Portogallo (1983-1985), sebbene con dovute differenze. Il governo britannico guidato da W. Churchill tra il 1940 e il 195 ben rappresenta invece l’eccezionalità della national unity in periodo di emergenza.

In Italia ci sono esempi per entrambe le categorie. La Grande coalizione si è avuta tra il 1995-1996 con il Governo Dini, tra 2011-2013 con l’alleanza PD-PDL, e in qualche misura, mutatis mutandis, dal 2019 con l’asse PD-M5s.

L’unità nazionale si è avuta tra il 1943-1947 allorché i partiti antifascisti governarono insieme, per gestire la “guerra civile”/Resistenza, la transizione democratica e il varo della Costituzione, prima nel CLN e poi nei primi governi democratici, fino al ritorno di Alcide De Gasperi dagli Stati Uniti e all’estromissione del Partito comunista. Di nuovo nel 1978-1979 per fronteggiare l’emergenza terroristica con governo a guida democristiana, ma sostenuto (esternamente) dal PCI.

Affinché si abbia un governo di unità nazionale devono verificarsi alcune condizioni esogene ed endogene. Il sistema deve essere interessato da una “crisi”, come ad esempio una guerra o una forte pressione sull’ordine sociale e la convivenza civile. Ma gli ingredienti più difficili da reperire sul mercato fanno riferimento alla leadership. La presenza di un politico che sia legittimato, autorevole, carismatico, competente tanto da essere sostenuto non solo dalla propria forza o campo politico, ma accettato bon gré mal gré anche dalle opposizioni, va coniugata con la finalità che deve essere esplicitata e condivisa dalle forze politiche. Infine, gli esponenti dei principali partiti devono dimostrare capacità di superare le distanze ideologiche e, sebbene per un tempo limitato, convergere sul capo del governo designato al fine di perseguire il “bene comune”.

Recentemente le fibrillazioni e le incertezze del Governo Conte II e le tragiche conseguenze del COVID-19 hanno indotto molti, a livello istituzionale, partitico e sociale, a far riferimento all’unità nazionale. Il nome speso in questa prospettiva è stato quello del dott. Mario Draghi che certamente avrebbe avuto i galloni per governare la pandemia, ma la faziosità dei gruppi parlamentari ha fatto sfumare questa opzione. Non mi pare esistano le condizioni soprattutto per carenza di cultura e di statura politica, e in particolare stante la poca propensione della destra del duo Salvini-Meloni che sembra tristemente avviata e avvitata verso l’auto-isolamento e il radicalismo ideologico e politico.

Pertanto, in periodo extra-emergenziale rimarrebbe l’opzione neo-corporativa. Gli attori principali coinvolti sarebbero tre: Governo, imprenditori e sindacato. Per percorrere questa strada questi gruppi, cui aggiungere i partiti, dovrebbero essere (più) coesi, stabili e disposti a dialogare e a con-cedere parte del loro “interesse” al fine di realizzare accordi di rilevanza collettiva. Ma la salute politica di questi attori in Italia è deprimente e dunque una politica progressista e riformista, per i salari, l’innovazione industriale e i diritti dei lavoratori pare lontana.

L’esecutivo sembra scontare una carenza di proposte, di visione, di ideologia (di “linea” come ha detto il segretario del PD Zingaretti) le politiche approvate sono di corto respiro in una fase “eccezionale” che urge disegno e orizzonti ampi e “rivoluzionari”.

Le organizzazioni sindacali nel complesso latitano in cerca di autorevolezza e proposte, spesso arroccate in difese conservatrici, e lontane da una visione moderna del lavoro, della società. Infine, le associazioni imprenditoriali, e Confindustria in testa, appaiono attardate in difese di posizioni, privilegi e rendite. Le prime sortite del neopresidente degli industriali non lasciano ben sperare e anzi marcano il campo per una stagione regressiva sui diritti dei lavoratori, quasi che gli imprenditori fossero stati bistrattati dalla Repubblica e dai suoi governi negli ultimi cinquanta anni. Assenza di cultura imprenditoriale e di senso della Comunità, oltre che di rispetto della Carta costituzionale.

Rimangono l’Unione europea che con la sua semplice esistenza oltre che con la dose massiccia di fondi erogata ha contribuito a salvare molti Stati, e certamente l’Italia, e il Presidente Mattarella che il 2 giugno scorso ha invocato lo spirito unitario del 1946, e nella fase (post) pandemica ha ricordato l’impegno istituzionale «all’altezza di quel dolore, di quella speranza, di quel bisogno di fiducia». E, ha aggiunto «non si tratta di immaginare di sospendere o annullare la normale dialettica politica. La democrazia vive e si alimenta di confronto fra posizioni diverse». Messaggio chiaro. Silenzio dall’altra parte.

SALVINI ADDIO… IL COVID FA PIU’ PAURA DEGLI SBARCHI

mio editoriale per il RIFORMISTA

Per almeno un lustro, da quando il sen. Matteo Salvini è arrivato alla guida della Lega, l’Italia ha vissuto un periodo di vera e propria fascinazione popolare verso l’ex ministro dell’Interno.

Gli elementi di innovazione propugnati da Salvini per far dimenticare i disastri del “cerchio magico” bossiano, i diamanti e le lauree false in Albania, e tentare di rilanciare un partito esangue elettoralmente, sono state sostanzialmente tre.

La Lega Nazionale: Salvini ha provato a “nazionalizzare” il partito. La Lega di Salvini è riuscita a realizzare un cambiamento nella continuità. Negli anni recenti è passata da movimento federalista, autonomista e secessionista (puntava a separare anche istituzionalmente le regioni del Nord dal resto dell’Italia) a formazione che si proietta dentro il mondo e i temi della destra nazionalista: lotta alla mondializzazione, all’immigrazione, all’Europa della moneta unica e della democrazia pluralista. In passato la Lega guardava con favore all’“Europa delle regioni” come via di uscita dallo Stato nazionale. Di fronte al mancato riconoscimento della possibilità di uno stato indipendente padano, la Lega ha cominciato a opporsi all’Europa in nome di un progetto diverso. È passata dallo slogan “Prima il Nord” a quello “Prima gli italiani”. È diventato un partito nazionalista ma non pienamente nazionale, perché il Nord Italia resta il suo nucleo economico e identitario da difendere contro la concorrenza globale (mentre il resto del paese un’appendice elettorale funzionale al progetto). In questa chiave si deve leggere ad esempio la proposta di rilancio dell’“autonomia differenziata” per mantenere una quota maggiore di tassazione all’interno delle regioni e ridurre i meccanismi di riequilibrio e redistribuzione statale tra aree ricche e aree povere (in altri termini, un attacco al welfare nazionale).

Lega partito “neutrale”, terzo, super partes, a-ideologico, post-ideologico. La Lega ha rafforzato la collocazione nell’ambito delle formazioni populiste europee, diventando sempre più un partito di estrema destra. Siamo in presenza di un cambiamento di lungo periodo, che si è accentuato negli anni recenti. Si rileva dalla posizione del partito e degli elettori su alcuni temi chiave come l’immigrazione, l’euroscetticismo, il tradizionalismo etico (chiusura sui diritti delle coppie gay, ruolo della donna, ecc.). La crescita di importanza della questione immigrazione nella retorica politica leghista è forse la dimensione che più di altre aiuta a cogliere questa trasformazione. Attorno a questa issue la Lega ha costruito le sue posizioni di successo più forti, rilanciando l’immagine di una società moralmente compatta, cristiana nelle sue origini, sciovinista (welfare per gli italiani) e senza perdere consensi nonostante questa estremizzazione dei riferimenti culturali-ideologici-valoriali.

Lega partito dei derelitti, dei poveri, dei disoccupati. Per quanto riguarda la sua base sociale, l’elettorato della Lega è cambiato poco nel corso del tempo: cittadini di mezza età, relativamente sicuri del loro posto di lavori e preoccupati per la perdita del potere di acquisto del salario (o della pensione futura). La Lega resta un partito con una forte presenza di lavoratori autonomi. La quota di operai è diventata importante, ma non prevalente e insufficiente per sostenere la tesi di uno sfondamento leghista tra i ceti subalterni. Si può parlare di una formazione solo in parte interclassista per la difficoltà che mantiene a intercettare il mondo lavorativo del settore pubblico ma anche perché il partito non riesce a egemonizzare le aree del non lavoro e del precariato e neppure quella dei giovani, dove a ottenere più successi è il M5s. L’aspirazione di Salvini è rappresentare assieme la borghesia produttiva (del Nord) e i ceti popolari. Avere un blocco di consensi trasversale è un punto di forza, ma rende più difficile conciliare politiche e interessi diversi senza creare confusione tra l’elettorato.

In tempi normali, o meglio ordinari, la vocazione populista e anti-sistema ha rappresentato una rendita di posizione redditizia. Viceversa, la proposta politica della Lega di Salvini risulta evanescente alla luce dell’emergenza generata dal COVID-19. In passato, le contraddizioni erano state variamente disvelate e l’inadeguatezza messa in evidenza, anche con dati empirici, ma nello zeitgeist populista e qualunquista, erano state comunque accettate e sostenute da messi di elettori. Soprattutto sono state avallate, sostenute e condivise da ampie fette della borghesia italiana, spesso avvezza a chinar la testa al potente di turno, senza entrare nel merito delle questioni, in un rapporto malato con il potere, votato alla subordinazione e non, invece, al confronto dialettico, come avvien nelle moderne democrazie liberali. Le drammatiche vicende della pandemia mettono in risalto molte zone grigie sul presunto modello di buon governo della Lombardia a traino leghista, sulla sanità privatizzata e lottizzata, e rendono fatui gli strali sul “prima gli italiani”. Infine, ri-emerge chiaramente la divisione storica tra leghisti veneti e leghisti lombardi, nel quado di una classe dirigente leghista che mai ha realmente condiviso la scelta di Salvini, per quanto tattica fosse, di presentarsi come un leader di partito nazionale. Le indubbie abilità politiche di Salvini si scontrano con la fase “emergenziale” e, come emerso dalla recente ottima intervista raccolta da M. Cremonesi sul Corriere, pongono in evidenza molte difficoltà del Capitano. L’assenza del tema Immigrazione toglie acqua e ossigeno alla propaganda di Salvini, colpevole di aver reso la Lega un partito monotematico (one issue party): senza quel tema Salvini ha le polveri bagnate. Inoltre, Salvini è ritenuto colpevole da un’ampia fetta di partito di aver abbandonato i temi cari alla Lega. Dal federalismo al governo locale. Negli anni Ottanta e Novanta, pur tra molte contraddizioni, la Lega bossiana contribuì a disvelare malcostume e malgoverno, la necessità di liberalizzare l’economia e il Paese, e a porre la “questione del Nord”, oramai senza più interlocutori dopo la caduta della DC. In questa fase, invece, sembra che Salvini abbia perso il touch, l’empatia con il popolo italiano e quello del Nord in particolare. Inoltre, la divisione con Zaia è sempre più evidente, a conferma dell’antico rapporto di “odio-amore” tra leghisti veneti e lombardi. Il silenzio di Maroni e le forti perplessità di Giorgetti, specialmente sull’Europa, sono eloquenti assai.

Il COVID porta via dunque molte false certezze sulla Lega Nord e anche la guida tetragona di Salvini, sempre più discussa e contendibile.