Lazio e Lombardia, quanto conta la scelta dei candidati alla presidenza della regione

  • L’elezione popolare diretta del presidente del governo regionale ha accentuato dal 1995 i tratti “personalizzati” delle elezioni; gli elettori in modo significativo assumono la propria decisione (anche) in base alle caratteristiche dei candidati alla guida della giunta.
  • La quota di elettori che vota il solo candidato presidente è pari in Italia, nelle regioni a statuto ordinario, a circa il 9 per cento con un valore prossimo al 10 per cento per i candidati di centro-sinistra, per i quali si registra un trend crescente rispetto a quello per il centro-destra in calo dal 1995 (-5 punti percentuali).
  • Nel complesso i candidati del centro-sinistra ottengono in media risultati migliori in termini di voti raccolti sulla propria figura rispetto agli omologhi di centro-destra.

Lombardia e Lazio saranno test elettorali importanti per entrambi gli schieramenti posto che sono interessati quasi 12 milioni di elettori, oltre un quarto del totale nazionale. La Lega (Nord) mira a confermare il suo candidato in Lombardia, e in Lazio il Pd cerca di bloccare una emorragia di consensi e di senso.

Due appuntamenti cruciali che chiamano direttamente in causa le alleanze, i programmi, ma soprattutto i candidati alla carica monocratica.

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Il ruolo del presidente (Mattarella) e i rapporti con il governo (Meloni)

La standing ovation al Teatro alla Scala per il Capo dello Stato ha messo in ordine politico e di consenso quella che è la gerarchia tra cariche istituzionali. Le azioni e gli interventi del presidente della Repubblica Sergio Mattarella sono state oggetto di valutazione in questa fase di nuova legislatura e di varo del nuovo Governo, il quale sul versante esterno ed estero ha avuto qualche problema diplomatico. Il tema del ruolo presidenziale rimanda dunque alla ri-elezione del presidente Mattarella, che ha in parte riaperto un dibattito politico che è a tratti parso appare lunare. Da un lato si levano crociate preventive contro ogni forma di discussione su elezioni che contengano una legittimazione popolare diretta, salvo poi evocare e invocare nomi “terzi”, esterni al Parlamento, e poteri esecutivi più stringenti ed efficaci; dall’altro vengono millantati attacchi alla Carta costituzionale, minacce alla democrazia e stravolgenti rischi di creazione di pericolosi “precedenti”. Quasi fossimo in una situazione di “common law”. Davvero mai si era vista una potenziale violazione costituzionale allorché la lettera della Costituzione fosse ampiamente rispettata. Per altri, infine, verrebbe tradito lo spirito della norma, ma tale categoria ascetica rimane vaga, e comunque soggetta a legittime valutazioni politiche piuttosto che a stringenti vincoli legislativi.

Qui l’articolo integrale uscito sul mio blog per l’Huffington Post

Meloni ha due ricorrenze per chiudere i conti con il passato

La storia d’Italia è piena di cicatrici, frutto di ferite aperte da eventi sociali e politici, nazionali e internazionali. Tra i colpi inferti alla giovane democrazia sin dagli inizi della sua storia si distinguono due tragici eventi di cui nelle prossime settimane ricorre l’anniversario.

IL GOLPE BORGHESE

L’8 dicembre del 1970 il “principe” Junio Valerio Borghese, criminale di guerra e comandante della X Mas, flottiglia che dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 aveva proseguito la guerra combattendo al fianco dei nazisti, tentava un colpo di stato.

Era l’acme della strategia golpista condotta nella penisola da frange neofasciste, componenti delle forze armate, della polizia, del mondo imprenditoriale e politico che temeva l’ingresso dei comunisti nell’alveo governativo.

Il 1970 e il tentativo, fallito, di Borghese era il prosieguo naturale delle manovre golpiste, mai del tutto chiarite che si erano dipanate nel 1964 a opera soprattutto del comandante generale dei carabinieri Giovanni de Lorenzo. E che avevano investito, sebbene indirettamente, anche il Quirinale e i rapporti del capo dello stato Antonio Segni con Aldo Moro. Il centro-sinistra e l’avvicinamento dei socialisti e delle sinistre alla Dc non era congeniale agli anti comunisti e agli atlantisti oltranzisti.

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Per rinascere il Pd ha bisogno di un nuovo Lingotto

L’identità definita nel 2007 era chiara. Chi dice che il Pd non avesse un progetto, fosse un amalgama non riuscito, legittimamente non ne condivide gli obiettivi, ma facendolo, implicitamente, ne riconosce la natura che pur critica. Oggi la situazione è drammatica, ma non perduta. Sempre che i democratici vogliano provarci, che sappiano farlo, che approfondiscano seriamente le ragioni del malessere del paese. È il tempo delle idee, dei volti nuovi ma che abbiano anche qualcosa da dire, da scrivere, da fare, e non solo delle rivendicazioni, delle azioni piuttosto.

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Bologna, Italia

Il mio editoriale per il Corriere di Bologna-Corriere della Sera di oggi

Undici morti e quasi sessanta feriti. Il bilancio dell’assalto delle camicie nere fasciste decreta la strage di Palazzo d’Accursio, nel tentativo di bloccare l’insediamento della giunta socialista, visata come pericolo rosso dalla borghesia e dagli agrari. È il 1920, prodromo alla famigerata marcia falangista sulla capitale e Bologna è antesignana del nuovo corso politico. Lo sarà altre volte nella storia politica italiana fino alle recenti vicende. Il tentativo del giovane Anteo Zamboni di eliminare il Duce e il cruciale contributo alla Resistenza e alla Liberazione; le idee di Dossetti, la giunta Dozza e la sua “febbre del fare” che tanto contribuì alla rinascita del dopo guerra.

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