Vento del Nord

Editoriale per IL RIFORMISTA

Vento del Nord”. Due giorni dopo la Liberazione dal nazi-fascismo sul quotidiano socialista Avanti! – ora egregiamente diretto da Claudio Martelli – Pietro Nenni, segretario del partito socialista italiano, e poi molto altro, rivendicò l’appello all’insurrezione popolare proprio nei territori più martoriati dall’occupazione del Terzo Reich con la complicità infame delle camicie nere repubblichine. Il vento del nord, schietto, robusto e tonificante, ha spirato su tutta la penisola diffondendo il verbo partigiano, la freschezza della Liberazione, della democrazia innervando molte parti della Costituzione. Proprio Nenni fu uno dei principali artefici dell’”avvicinamento” ai cattolici, alla Democrazia cristiana e alla nascita del primo Governo di centro-sinistra di cui fu vicepresidente di Aldo Moro. Quel vento in qualche misura condusse quindi al compimento di grandi conquiste sociali, propugnate e sostenute dai partiti di sinistra, dal cattolicesimo democratico, dai sindacati, dalle lotte operaie, bracciantili e studentesche. Dagli intellettuali. La Questione meridionale si riaprì, ché non si era mai chiusa, la disoccupazione crebbe, la migrazione interna e internazionale pure, il Sud rimase indietro, molto. Abbandonato, auto-isolato.

Le contraddizioni degli anni Ottanta, e la fine del primo sistema partitico, l’irruzione sulla scienza di Tangentopoli e di Mani pulite, la fase finale del terrorismo rosso/nero, la crisi economica, consegnarono il Paese alla lotta tra bande (armate) per il controllo del governo. Nella temperie del fine regno emerse la “Questione settentrionale”, sostenuta dalla mancanza di rappresentanza del nord ormai orfano della delega e delle prebende democristiane/socialiste, dalla crisi monetaria, dallo smantellamento del sistema dei partiti e dal declino culturale. Dalla vittoria ultraliberista e dalla presunta fine delle ideologie. Antonio Gramsci e Carlo Levi, lettura obbligatoria alle scuole medie superiori, vennero superati dal mito dell’industrialismo fai da te, dalla diffidenza verso la cultura e finanche verso l’istruzione minima relegata a orpello novecentesco, delegata a istituzioni depauperate e declassate, retaggio romantico ed eroico, esse smunte e smantellate.

Il Nord piombò al centro dell’agenda politica per mancanza di rappresentanza e per antinomia verso un Sud ritenuto, con qualche ragione e molti pregiudizi, una zavorra per la corsa dirompente del Nord assiomaticamente laborioso, civico e virtuoso. A incarnare tale svolta culturale, politica e sociale, arrivò l’Imprenditore per antonomasia. Il massone, piduista e liberista Silvio Berlusconi da Arcore, sedicente self-made man, ma ricettore di generosi aiuti, e distrazioni, di Stato, e benevolenze politiche. L’asse politico ed economico si spostò al Nord, decisamente, anche grazie all’influente peso sociale ed elettorale della Lega Nord, vera chiave per entrare a Palazzo Chigi. Il Sud servì come base elettorale per Forza Italia, per drenare consensi e fondi usati in maniera clientelare. Come risposta venne un neo-meridionalismo d’accatto e di accattoni, revisionismo storico funzionale a un neo-borbonismo che cementa pregiudizi, allontana dall’Unità nazionale e assolve una classe dirigente e politica/partitica meridionale sovente incapace, spesso complice, a volte saggia.

Intanto le differenze sociali ed economiche permangono, vistose e persino acuite (si vedano gli eccellenti saggi di Gianfranco Viesti e di Emanuele Felice, tra gli altri), e il Sud rimane indietro, attardato. Sebbene alcune eccezioni ovviamente esistano e molti segnali di “ripresa” si intravedano, mancano una visione e una strategia collettiva e complessiva che mettano al centro della politica nazionale proprio il Sud. Che, banalmente, se non rinasce, altrimenti ne risente l’intero sistema Paese. La parte più retriva, reazionaria e conservatrice degli industriali ne è consapevole, e pertanto spinge – ormai apertis verbis – affinché il Sud sia abbandonato sostanzialmente al suo destino. Le risorse da investire devono principalmente andare verso Nord; anche la classe politica ha perso ormai ogni remora, e come gli avvinazzati dicono chiaramente ciò che passa per la testa tanto che alcuni sostengono che esista una differenza di “peso” tra un ammalato lombardo/veneto e uno siciliano, che bisogna considerare il Pil regionale nell’allocazione delle risorse sanitarie, e scempiaggini simili. Durante il Governo Conte I l’asse rimase nordista, salvo la mancia del reddito di cittadinanza. L’esecutivo Conte II in parte aprì uno spiraglio, una linea di comunicazione nuova, ma il lavoro è stato interrotto. Ora tocca al Presidente Mario Draghi. L’unica speranza – che in politica è già una sconfitta – è che egli, insieme alla saggezza del Presidente Sergio Mattarella – si faccia carico di evitare sperequazioni. Meno del 45% dei fondi al Sud sarebbe secessione de facto. Un new deal di stampo keynesiano lungimirante e riformista. La guida leghista del Ministero dello sviluppo economico è un cattivo presagio, una pessima notizia, non per il Sud, ma per l’Italia. Il Sud va messo all’apice dell’agenda, non relegato a beneficiario di politiche residuali e marginali. Il che ovviamente richiede una visione più ampia di quella etnocentrica della Lega Nord (e del braccio economico della componente secessionista di Confindustria) e della subalternità culturale e ideale di una parte del Partito democratico che perora l’autonomia differenziata.

I fondi a disposizione sono ingenti, tali da poter costruire un Paese nuovo, finalmente unito. Come fece la Germania Ovest con la Germania Est, pur in un contesto storico e politico assai diverso, ma con qualche similitudine cui attingere.

Nell’editoriale Pietro Nenni concludeva, «A queste condizioni oggi è finalmente possibile risollevare la nazione a dignità di vita nuova, nella concordia del più gran numero di cittadini». Più poeticamente, Pierangelo Bertoli ricorda Eppure soffia!

Dove è finita la Lega nazionale? Salvini senza partito

Editoriale per IL RIFORMISTA

Lega nazionale. Così la definirono. Solerti commentatori privi di conoscenze politologiche, giornalisti pigri alla ricerca di titoli e ricercatori senza dati. I quali continuavano a dire instancabili che la Lega Nord, seppure guidata da Matteo Salvini, non aveva affatto mutato la sua natura. Suonava bene però quel “nazionale” e assopiva lo spirito calmierando eventuali residui rigurgiti repubblicani ché proprio non era sostenibile avere un partito di estrema destra, come la Lega di Salvini, al Governo del Paese. Nel cuore dell’Europa di cui siamo fondatori. Adagiare con delicatezza una verniciata di colore, metaforico, culturale e cromatico, viceversa pareva potesse allontanare il lezzo del razzismo, della xenofobia, della tracotanza, del maschilismo e della violenza verbale.  E accontentare le esigenti virtù democratiche, tacitandole, dandole in pasto un tricolore a lungo vilipeso e usato solo per becera propaganda antirepubblicana. Una furia iconoclasta rivolta contro i princìpi costituzionali, ma distillati in vaneggiato e autocelebrativo senso comune, ossia l’abiura della ragione. Anche gli incalliti democratici dovevano rassegnarsi alla Lega ormai faro del populismo democratico, una specie di ossimoro farneticato del resto solo dai pasdaran del grillismo. E i partiti dell’opposizione, la Sinistra smarrita e in permanente ricerca di identità e personalità, si adagiò, quasi si accasciò, pretendendo di combattere i “barbari sognanti” con un buon senso colorato di generosa solidarietà.

Quel “nazionale” aggiunto sfrontatamente al termine “Lega” si trasformò nello spazio di un mattino in nazionalismo, in rivendicazione di una identità escludente ed esclusiva il cui pilastro è l’annichilimento o l’assoggettamento di tutte le diversità.

Ormai avvezzi all’errore di analisi, giunge inattesa (?) la presunta inversione di rotta della Lega Nord per come propagata, propugnata e raccontata da temerari affabulatori sedicenti imitatori dei narratori di fiabe nordiche. Il senatore Matteo Salvini, eletto per caso a Locri e poi sempre per caso in Lazio, non ha effettuato nessun cambiamento di rotta. Semmai, il capo pro tempore della Lega Nord ha subito tale scelta. È l’esecutore materiale, il prestanome, di una scelta compiuta altrove e da altri. Non un complotto, ma semplicemente il compimento di un processo di esautoramento del senatore milanese da tempo isolato nel partito. Che non controlla da mesi, e al cui interno fazioni opposte mal sopportavano quella sua temeraria azione di “nazionalizzazione”. Mal si conciliava con il cuore nordista della Lega Nord, che da sempre lavora per una sola parte del Paese, e per una sola componente del nord. Un partito regionalista, regionale, e di estrema destra.

La crisi del Governo Conte II ha fornito il casus belli per risolvere la tormentata vicenda di una leadership ormai deposta de facto. Il senatore Salvini è candidato ad essere ormai ex di sé stesso. Se non giudicassimo la politica con la politica farebbe quasi pena vederlo trascinato fuori dall’agone politico, senza seguito, senza voti, senza partito, senza progetti, ma disposto ad eseguire qualsiasi diktat pur di rimanere formalmente in sella (finché lo decideranno Zaia, Giorgetti o chi per loro).

Nella storia leghista i cambiamenti di rotta sono frequenti. Si tratta di un partito governista che mira a gestire a livello nazionale e che (mal) governa in varie regioni e comuni. Attitudine incentivata dalla possibilità di incidere, con scelte liberiste sul pingue bilancio a disposizione del governo nazionale. La differenza consta nel càrisma. Nel caso di Umberto Bossi questi poteva decidere di allearsi con Berlusconi o contro di lui, di attaccare l’Unione europea, o esaltare l’Europa delle regioni, di deprecare i comportamenti dei vescovi o ergersi a paladino della cristianità. L’intendenza avrebbe seguito ed eseguito perché era il capo, indiscutibile. Il senatore Salvini viceversa non ha càrisma (non è una colpa) e soprattutto il partito non lo segue. E infatti verrà decimato nel suo consenso. Soprattutto, non si intravede alcuna revisione ideologica, nessuno scisma. I gesti sono importanti e avere ammesso a mezza voce che l’Unione europea non è un covo di criminali è un passo avanti, ma non mi pare possa essere sufficiente. La Lega Nord versione 4.0 dovrebbe abiurare le politiche migratorie promosse, il razzismo, abbandonare il gruppo di partiti di estrema destra nel parlamento europeo, e rivedere le posizioni sul Sud. Su cui il passaggio alla “lega nazionale” ricorda il veloce processo di rimozione che in queste ore si consuma sull’Unione europea. Salvini è un leader senza patria. E il “suo” nord presenterà un conto amaro qualora non riuscisse a tenere la barra della gestione del Recovery Fund sufficientemente tesa verso le valli prealpine e prona ai desiderata di Confindustria. Il nascente Governo Draghi ha effettivamente inciso sulla scelta del gruppo dirigente leghista, esacerbando le contraddizioni tra l’idealismo movimentista e ribellista del senatore del Lazio e il pragmatismo industrialista dei quadri, accentuando una virata radicale. I mesi prossimi segneranno la prova del fuoco, ma il punto nodale è che Salvini non è l’artefice di tale intrapresa.

La faccenda dell’autenticità del cambiamento è dunque mal posta: il partito ha mutato tattica, essendo da sempre camaleontico quanto a mezzi ma tetragono sui fini. I gesti più compassati dei consiglieri leghisti sono funzionali a completare il disegno di disgregazione nazionale indirizzando risorse prevalentemente al nord, con la complicità talvolta di progressisti che declamano “regionalismo” e autonomia differenziata. I tutor del segretario reggente, i maggiorenti del partito sono la faccia nascosta della Luna leghista che mina le basi repubblicane, la quinta colonna per entrare a Palazzo Chigi essendo il senatore Salvini giustamente inviso all’intero mondo diplomatico.

La Lega Nord era e rimane tale. Anche se stavolta (un po’ più) educatamente.

Governo del Presidente.

Editoriale per IL RIFORMISTA

Le ribalderie sono archiviate. Anche questa volta il sistema politico e istituzionale dell’Italia repubblicana ha trovato nel Capo dello Stato Sergio Mattarella la saggia gestione di una crisi palese di “uomini e mezzi”. Al di là delle ricostruzioni che ciascuna parte riporta e gelosamente custodisce negli anfratti della memoria per autoconvincersi di essere stata dalla parte “giusta”, è emersa la patente modestia di una classe dirigente politica ed economica incapace di governare. Le cause profonde e lontane rimandano alla dismissione dei partiti politici, della cultura, del civismo, del merito, dei valori repubblicani. Un Paese senza leadership, senza nocchiero, senza ambizione, visione. Preda di egoismi ed egocentrismi laceranti, di visioni limitate, di ridotte di partitini personal-clanici. Di fronte alla tragedia pandemica, al netto di volontarismo e ovvie qualità di individualità, la classe politica non è stata in grado di affrontare adeguatamente la crisi economica, sociale, culturale.

La lezione da trarre è definitiva. Con vari gradienti di responsabilità i partiti politici hanno abdicato – volenti o nolenti – alla funzione di governo, di guida, di gestione della res publica. Il Presidente della Repubblica, ricorrendo alle prerogative costituzionali, e alla sua capacità di persuasione e carisma, ha indicato la strada per un esecutivo che intervenga ad horas, ma al contempo con capacità prospettica, nella piaga delle molte crisi italiane che sovrapponendosi rendono umbratile il futuro.

Il Presidente del Consiglio dei Ministri uscente, pur godendo di elevata popolarità, non ha manifestato altrettanta abilità/capacità nel governo delle politiche pubbliche, almeno in termini ambiziosi tali da essere in linea con la sfida epocale che il Paese ha di fronte. La debolezza, la pochezza di vari esponenti del gruppo di cui era circondato hanno gettato imbarazzo nell’ambiente diplomatico, tra le fila dei servizi segreti, nella classe dirigente italiana impegnata a tener alto “l’onore” della Bandiera. Quotidianamente. I partiti della coalizione (nessuno escluso) sono apparsi troppo esitanti, incerti, poco ambiziosi nel disegno di riforma e di rilancio italiano, con e persino al di là del Recovery Fund.

Pertanto, quando il Parlamento non governa entra in campo il “secondo motore” della Costituzione, ossia il Quirinale, i cui poteri si “allargano e si restringono” come una fisarmonica (Giuliano Amato dixit). Che in questa legislatura ha sopperito in diverse occasioni, in quantità e in qualità alle manchevolezze parlamentari, sin dal 2018. Prima gestendo con olimpica calma le negoziazioni che condussero alla formazione del Governo Conte I, che fu coerentemente disastroso sul piano interno e su quello internazionale, per riconosciuta impalpabilità dei due vicepresidenti. L’inciampo rocambolesco dell’aspirante capo popolo milanese indusse a miti consigli anche i guasconi e i ruffiani cortigiani sostenitori di ogni governo purchessia.

Il nome di Mario Draghi aleggia dunque sull’intera legislatura, dall’inizio. Usato, blandito, brandito, osato, usato, osannato, evocato ed invocato, minacciato a seconda del contesto e dell’interlocutore. È infine arrivato. E non sarà un governo “tecnico” (espressione che peraltro il Presidente Mattarella, ovviamente non ha mai utilizzato). I Governi “tecnici” in senso puro sono estremamente rari in natura, ma certamente in base all’estrazione politica possiamo indicare il nascente esecutivo Draghi quale esempio di un governo guidato da un non esponente partitico. Le proposte legislative – che in maggioranza sono sempre di origine governativa – devono poi essere tradotte in sostegno parlamentare e, dunque, in voto da parte dei gruppi politici. Che al netto di momenti solenni, di voti “unanimi” e nazionali su questioni dirimenti e simboliche, avanzeranno richieste, indicazioni di modifiche, strategie alternative, ossia giocheranno lo schema della politica. Che però in questa congiuntura è in forte ritirata. La prova è stata fallimentare, e l’arbitro è entrato in campo, con eleganza, sobria fermezza, ma ha indicato senza esitazione un nuovo schema. Il celebrato inno all’incompetenza come gemma da includere in curricula vacui e fatui, nella tracotanza inconscia e violenta del populismo qualunquista verrà messa non a tacere immediatamente tanto è insediato nelle menti, ma sarà ampiamente fuori dalle stanze del governo. L’incarico a Mario Draghi ha del resto inflitto un grave colpo proprio ai cantori della uguaglianza delle incompetenze, e già si acquartierano i peana della centralità del Parlamento, le prefiche per la democrazia perduta, gli attacchi al decisionismo tecnocratico. Da pater familias istituzionale e costituzionale il Presidente Mattarella investe su uno dei figli più celebrati e prestigiosi della patria, rimette al centro le competenze, il percorso di vita e professionale, la reputazione. E chiede ai partiti, li ammonisce, di agire di conseguenza. Senza nessuna esautorazione, ma anzi fornendo una inattesa, e in magna pars immeritata opportunità di redenzione.

Il Partito democratico, sempre generoso nei momenti critici per il Paese, ma forse a tratti poco incisivo, dovrà lanciare il cuore oltre l’ostacolo e dare finalmente fiato, vigore e tenore alle voci sommesse, talvolta sottomesse, che esistono ancora in quel variegato insieme, unico ancora degno di essere chiamato partito. Ma senza rinunciare ai valori, senza condividere acriticamente il Draghi pensiero. Anche le residue forze di “sinistra” non possono che rimanere nel “sistema” per provare a condizionarlo evitando di ritirarsi su un Aventino che avrebbe sembianze di una oasi sahariana, senza capacità di essere auditi. Dalla rinuncia alla lotta dentro al sistema la Sinistra ha solo tratto macerie.

Le incertezze di posizionamento del Movimento 5 stelle, frutto inevitabile di assenza di elaborazione teorica sui rudimenta dell’identificazione politica dopo lustri di antipartitismo e vaghezza ideologica, saranno presto ricomposte agilmente una volta soddisfatti gli appetiti di funzionarietti e caporali di giornata inorriditi alla prospettiva del ritorno fuori dal vituperato Palazzo che non hanno né abbattuto, né governato, ma ammaliato e subito. Tipico dei ferventi atei convertiti dai gesuiti. Le grane, grame, sorgeranno fuori dai banchi parlamentari nel “popolo” grillino, senza riferimenti, senza leader, senza urlatori. Quella protesta, per ora veicolata entro canali istituzionali potrebbero s/cadere nelle grinfie grifagne del leghismo e del neonazionalismo dell’estrema destra. La Lega Nord, ormai priva di leadership, sfidata all’interno e in cerca di identità all’esterno, è costretta, obbligata a sostenere il nascente Governo Draghi, almeno all’inizio. Il Sen. Matteo Salvini ormai in fase crepuscolare nonostante gli strali è sfidato dai colonnelli scalpitanti, dalla bramosia della imprenditoria lombardo-veneta sempre a caccia invereconda di benefit. Sarà una sfida esiziale con l’ala meno estremista (basta poco) e con Fratelli d’Italia. La cui unica posizione genuinamente coerente e redditizia sarebbe l’opposizione per fagocitare l’ormai morente astro leghista. Mentre Forza Italia puo’ finalmente mostrare di essersi affrancata dal fattore B. e promuovere una nuova avanguardia guidata da Mara Carfagna.

Per uscire dalla morta gora i partiti, con le proprie sensibilità, procedano a sostenere il governo Draghi non perché frutto di decisioni assunte in segrete stanze massoniche-finanziarie, ma perché in grado di risollevare le sorti del Paese. A patto che non lo si consideri un nuovo Salvator Mundi. Sarebbe dannoso per i partiti, per il nuovo Presidente del Consiglio e per il Paese. La responsabilità, la collaborazione e la correità sono nazionali.