Sinistramente

Editoriale per RIFORMISTA

Un pregiudizio. Negativo. L’ottavo segretario del Partito democratico non ha nemmeno completato le operazioni di acquartieramento e rapidi come saette sono partiti profluvi di attacchi, richieste, raccomandazioni, imperativi. Preventivamente, gratuiti e scontati. Ultimo in ordine di tempo su queste pagine, e rilevante per autorevolezza, Angelo Panebianco ha segnalato che Enrico Letta starebbe preparando la sconfitta. Ovviamente non deliberatamente, non intenzionalmente votato e incline alla sconfitta, ma un atteggiamento conseguente all’analisi dello stato dell’arte. E lo starebbe facendo come desumibile dall’accento posto sul tema identitario e in particolare sul tema/bandiera dello ius soli. Si tratta di una lettura critica preventiva con un taglio liberale di destra. L’analisi è errata nel metodo e nel merito. Il ritiro preventivo nella trincea parlamentare dell’opposizione appare come una previsione senza elementi empirici che la sostengano, al limite un wishful thinking. Nel merito l’identità è esattamente ciò di cui ha bisogno il partito, esanime, esangue intellettualmente e introverso. Identità non automaticamente è sinonimo di ideologia, di chiusura. Serve a delimitare i confini. A indicare un “nemico” come insegna Carl Schmitt, non proprio un bolscevico rosso. Ed è bene che ciò avvenga, rispetto alla Lega Nord e alla destra estrema in genere, al populismo fluido grillino, e anche alle velleità residuali della sinistra “alternativa”.

«Progressista nei valori, riformista nel metodo, radicale nei comportamenti». Le parole di Letta sono un primo segnale di ricostruzione dell’identità riformista che il PD si diede nel 2007 con il discorso del Lingotto di Walter Veltroni. Il riformismo, contrariamente alla vulgata comune, non è un minus, non è la parte meno forte dei rivoluzionari. Anzi. È l’aspetto più ardito. Sintomatico che dal 1921, dopo il 1956, il 1968, il centro-sinistra italiano, il 1973, la solidarietà nazionale, e il 1989/1991 ancora se ne parli, quale questione da risolvere. Mentre il populismo avanza e le destre impongono l’agenda.  Il riformismo è meno cena di gala della rivoluzione. E fa più paura tanto che sono i riformisti gli obiettivi primari dei conservatori.

Il riferimento di Letta ai circoli, ai militanti del Partito, alla nuova politica ambientale/economica, al lavoro, e lo ius soli rappresentano un punto di partenza che andrà sviluppato e praticato a livello parlamentare, nel dibattito e nella costruzione della coalizione. Proprio l’identità farà risalire la china al partito. Per cui l’azione di Letta non è per nulla velleitaria o votata alla sconfitta, semmai il contrario. Neanche avesse preannunciato il varo di un piano kolchoziano di economica collettivizzata, la nazionalizzazione della Renault o la tassazione dei grandi capitali. Tra l’altro una politica decisamente progressiva, e progressista, in ambito fiscale andrebbe propugnata da un partito riformista di sinistra non fosse altro che per attuare la Carta costituzionale. Quanto ai ceti produttivi che il PD non rappresenterebbe (più) andrebbe definita ex ante la categoria per evitare nella infruttuosa, anche se in parte ineludibile, conflittualità “impresa/lavoratori”, quasi che i dipendenti pubblici o gli operai non fossero produttivi a differenza degli imprenditori.

Inoltre, Panebianco segnala che il PD nacque per fronteggiare il maggioritario. Ovviamente, è esattamente il contrario: il sistema elettorale vigente al tempo della nascita del PD, e del PDL, era formalmente un sistema proporzionale, con premio di maggioranza. Un sistema proporzionale, majority assuring come nella letteratura internazionale. Ma la logica era quella proporzionale. Come del resto lo era, in parte, quella del 1994-2001 allorché le coalizioni stavano insieme più per vincoli esterni e politici (pro-anti Berlusconi) che per costrizioni formali/istituzionali/elettorali.

La logica maggioritaria era in declino stante la crescente frammentazione intra coalizioni. Il PD nacque nel 2007 non per rispondere al, ma per rilanciare il sistema maggioritario che era stato annichilito da coalizioni “pigliatutti”. Il continuo ricatto di partiti inesistenti e guidati da personaggi per nulla rampanti aveva logorato le esperienze riformiste del 1996-2001 e del 2006-2008. Lo scatto e lo scarto di Veltroni andavano in quella direzione: la vocazione maggioritaria, ossia essere centrali nella società (il vituperato “ma anche” era un forte riferimento nazionale) tanto da risultare egemonici culturalmente e baricentrici nell’azione parlamentare. In questa luce va interpretata la meritoria virata di Letta verso il sistema elettorale maggioritario (legge Mattarella o doppio turno). L’approdo del neosegretario PD pare quello dell’Ulivo 3.0. In questo senso, se proprio una critica ha da essere mossa all’Ulivo è che vinse nel 1996 grazie alla corsa solitaria della Lega Nord, mentre nel 2006 il centro-sinistra vinse per soli 24.000 voti, quasi per caso, e comunque grazie al surplus di consensi attirati dalla figura competente e rassicurante di Romano Prodi. Alla cui coalizione mancava una figura quale quella del PD, forte, trainante.  Di una forza riformista solida, ambiziosa, culturalmente frizzante l’Italia ha bisogno come l’ossigeno. Nei paesi laddove governano le forze progressiste, socialdemocratiche, democratiche, le condizioni complessive di vita sono decisamente migliori, come dimostrano cumulate serie di studi comparati. In Italia la sinistra ha governato per poco tempo e in assenza di una forza trainante e riformista le politiche sono state, colpevolmente, di breve periodo, di limitata gittata e scarsamente lungimiranti. Esattamente per l’assenza di una definita e definitiva identità del PD, prematuramente soffocato nella culla.

Ma il Belpaese coltiva un annoso anticomunismo senza comunisti. Per la borghesia italiana la Sinistra appare sempre, e comunque, indegna, inadeguata, sospetta, da redimersi. Non solo per evidenti, patenti, storiche e conclamate responsabilità e financo colpe, ma in quanto tale. In quanto soggetto che pur tra mille contraddizioni e inadeguatezze collettive e soggettive ha difeso i diseredati, i deboli, gli operai, la democrazia, ha combattuto le disuguaglianze. Ha promosso una stagione di diritti civili, tentando di sovvertire i rapporti di forza. Per i reazionari non fa specie se trattasi di turatiani, pajettiani, nenniani, craxiani o berlingueriani, sono un’unica melassa pericolosa per il popolo. O forse per le classi dominanti, da troppo tempo e in malo modo garantite. Alla borghesia retriva del Paese, da sempre asservita al potere politico ed economico, qualunque esso sia, e qualsiasi cosa dica o faccia, proprio non va bene che i meno abbienti alzino la testa.

Una sorta di bullismo intellettuale, un metaforico istinto omicida, un accanimento, terapeutico forse. Il PD sta faticosamente tentando di risollevarsi, ed è un bene che lo faccia, per il Paese. Al pari delle crisi interne che attraversano la Lega (sempre) Nord e Fratelli d’Italia che però confermano la loro chiara identità funzionale al consenso.

Ma l’Italia, Paese di baciapile reazionari, è colma di giaculatorie sostanzialmente antiprogressiste. Di baronie e di corporazioni autoreggenti ostile a ogni minimo mutamento sociale e dei rapporti di forza tra le classi. Ergo allorché i deboli, gli studenti, gli operai, i non garantiti, gli esclusi hanno provato, con lotte, e non senza costi umani e politici, a fra sentire la propria voce sono stati silenziati. Con le buone o con le cattive. È successo sia ai massimalisti, che pure ragionavano in una logica a somma zero, ma anche ai riformisti. Soprattutto a loro. Perché con le loro folli dee innovative puntavano e mirano alla riforma della società in profondità, alla radice, non allo scalpo di una vittoria simbolica di un pennacchio. I riformisti tentano con caparbia tenacia di mutare gli eventi, con strumenti pacifici, ma non velleitari.

Oggi il PD ha un nuovo leader, colto e raccolto, mite, persino troppo introverso. Ma apparentemente efficace nei metodi, almeno da quanto emerge dalla prime mosse. Sull’identità c’è ancora molto lavoro da fare in realtà: il PD, come ogni partito che voglia evitare di essere un semplice gruppo, deve coniugare due aspetti, due dimensioni. Una forte attenzione all’attuale, al contesto, alle dinamiche politiche, al realismo. Dall’altro, va rilanciata la questione ideologica, l’afflato intellettuale che come ambizione ponga al centro la lotta alla disuguaglianza, il cambiamento. Un occhio al “pane” e uno alle “rose” (Ken Loach), uno sguardo all’immediato e uno al sogno, all’utopia. La combinazione di queste due scelte definisce l’identità.

La disuguaglianza è aumentata, se la distanza tra il salario di un operaio e quello di un top manager è passata da 30 a 250 volte negli ultimi quarant’anni una forza che segnali e combatta questa disparità ci vuole. Se questo significa rimarcare l’identità, ben venga l’identità! Il PD deve stare dalla parte di chi ha di meno, di chi lotta, suda, studia, coltiva, produce, lava, con fatica. E con pochi mezzi. Chi ha tanto, chi ha tutto non ha bisogno dell’identità, dei partiti e della politica. Chi ha tutto è felice che tutto vada come è sempre andata. I reazionari di ogni risma se ne facciano una ragione. Sempre dalla stessa parte ci troverete.

Il Partito democratico e il centro-sinistra ripartano dai sindaci.

Articolo per DOMANI

In principio fu il 1993. L’anno dei sindaci. Eletti “direttamente” dagli elettori, capaci di catalizzare la voglia di cambiamento dopo l’annus horribilis del 1992, con la svalutazione della Lira e l’uscita (con la Gran Bretagna) dal sistema monetario europeo, e molto, troppo, altro. L’elezione dei sindaci rappresentò anche la sede dove sperimentare nuove dinamiche politiche, alleanze, e strategie. La sinistra vinse quasi ovunque nelle grandi città, il centro politico era disorientato, e mise alle corde la destra estrema in cerca di legittimazione e di un padrino. Che puntualmente arrivò: alle porte di Bologna disse che se lui – Silvio Berlusconi da Arcore – fosse stato un elettore romano avrebbe sostenuto senza esitazione Gianfranco Fini, contro l’astro nascente Francesco Rutelli. Entrambi candidati alla guida della capitale d’Italia. Il quel momento nacque il centro-destra, il centro-sinistra arrivò più lentamente.

Il sistema elettorale maggioritario a doppio turno, meritoriamente richiamato da Enrico Letta quale prospettiva strategica per il PD, impose una dinamica bipolare e accrebbe la centralità dei capi coalizione, inducendo i partiti a operare una selezione più oculata dei candidati sindaco. Fu una vera primavera civica e politica. Rutelli, Massimo Cacciari, Leoluca Orlando, Antonio Bassolino – solo per citare i maggiori – rappresentarono uno slancio, il riscatto politico nel momento topico dell’antipolitica, del rigetto del primo sistema partitico della Repubblica, della presunta fine delle ideologie. I cittadini si identificavano con quei paladini del presidio repubblicano in un deserto di agenzie statali delegittimate, sventrate, mal gestite. Ancora oggi il Comune è l’istituzione cui gli italiani rimpongono maggiore fiducia, al quinto posto dopo il Capo dello Stato, le forze dell’ordine e la scuola (fonte: Demos, 2020). I sindaci sono il primo baluardo, e in molti casi l’unico, per la risoluzione di piccole e grandi questioni. Risposte a problematiche crescenti in quantità e qualità, sommersi di deleghe, competenze e responsabilità di fatto dinanzi a un crescente ritiro dello Stato e di territorialità, da sempre debole in Italia peraltro. I sindaci affrontano molte emergenze, ma senza risorse adeguate, né umane né organizzative, praticamente senza stipendio, senza emolumenti. Assimilati a una casta, peraltro inesistente, dal populismo antidemocratico emerso con il nulla intellettuale degli scorsi anni, ove chiunque si occupasse di “cosa pubblica” era messo alla gogna. Politici, persone, martoriate da una furia iconoclasta e abbandonati dai partiti. Emblematico il caso di Antonio Bassolino, politico puro, e ottimo sindaco, che ora rilancia la sua nuova romantica corsa verso Palazzo San Giacomo.

I sindaci rappresentano un tesoro sottoutilizzato, un capitale umano, politico ed elettorale che il centro-sinistra e il PD hanno lasciato fermo in banca. Andrebbero fatti investimenti per rendere produttive quelle risorse. E, ovviamente, non mi riferisco al dibattito interno al PD, che è recente. La questione è consolidata, per molti aspetti logorata.

Nei prossimi mesi si voterà, oltre che per il rinnovo del consiglio regionale in Calabria, in oltre mille comuni, tra cui sei capoluoghi di regione (Bologna, Milano, Torino, Napoli, Roma e Trieste) che fanno somigliare, mutatis mutandis, l’appuntamento autunnale a quello del 1993. Il centro-sinistra è ancora alla ricerca della sua identità, della capacità di proporre autorevolmente le sue idee al campo dei progressisti senza inseguire, assecondare, i populismi o gli estremisti. Partendo dall’agenda riformista, radicale nei principi e salda nei valori. Al centro di questa dinamica ovviamente dovrebbe esserci il PD, rinnovato in idee, programmi, persone. Attingendo proprio dalle centinaia di figure capaci, abili, quali i sindaci. Una vera e propria riserva repubblicana, che il partito pivotale del campo progressista non dovrebbe abbandonare. Andrebbero viceversa coltivati, allevati, quali nuovi futuri rappresentanti a ogni livello istituzionale e di governo. La gestione della res publica a livello locale è una fucina di politici, laddove si affinano le abilità di amministrazione, la conoscenza dei gangli della burocrazia, le inclinazioni negoziali, l’umiltà data dal rapporto con i cittadini, gli ultimi, i bisogni e le disuguaglianze. Investire massicciamente sulla formazione politica degli amministratori, coadiuvarli nella gestione non solo amministrativa, ma nella formazione continua. In questo la guida di Letta, e la sua esperienza alla guida della Scuola di politiche lasciano ben sperare. Anche l’enfasi posta sul partito territoriale, sui circoli, che ad alcuni potrebbe apparire demodé, in effetti rappresenta un investimento di medio-lungo periodo per 1) riattivare la base; 2) motivare gli elettori; 3) ampliare il consenso; 4) raccogliere risorse, umane e finanziarie, in vista delle future competizioni elettorali.

Sono decine le esperienze di buon governo e di amministratori capaci, riformisti. Dal primo cittadino di Bari, all’esperienza di Cagliari, da Reggio Calabria a Bologna, da Milano a Firenze, Bergamo e Latina. Ma anche le decine di sindaci di comuni “minori”, in un Paese con cinquemila comuni sotto i cinquemila abitanti, ossia il 70%. I comuni al centro di investimenti politici, istituzionali e di diritto ammnistrativo (la riforma del Titolo V), culturali e ovviamente di sostegno economico-finanziario. Le strutture della burocrazia comunale in molti casi sono esangui a causa dei tagli al personale, mentre in altri contesti la spinta locale è molto forte (in Francia esiste il ministero alla Città). Il Governo Draghi e il PD rimettano al centro i municipi e i loro cittadini.

Partito democratico

Editoriale per CORRIERE della SERA (Bologna)

Durante la Seconda guerra mondiale il partito conservatore britannico e l’omologo laburista avevano due capi, due leader si direbbe oggi, che parlavano, eccome, di politica. Con visioni alternative, proprio mentre i nazisti si avvicinavano a Dunkerque, praticamente a Trafalgar Square. Un pericolo ben maggiore della pandemia con vaccinazione in corso, francamente. Un partito deve sempre parlare, o meglio discutere di, e confrontarsi con, le idee. È la sua matrice, la sua natura ontologica, la sua missione civica. In ore meste per il Partito democratico, a Roma come a Bologna, prefiche si levano a declamare la necessità di non occuparsi di politica. La ragione sarebbe la pandemia. Il nuovo lavacro intellettuale del millennio. La nuova rivoluzione materialista. Una scusa, una mossa che segna tutta la debolezza culturale, intellettuale e politica di una classe dirigente che è quasi ovunque diventata digerente, in grado di macinare tutto e tutti pur di rimanere ben piantata non nel Palazzo, che è una critica cretina, ma nel pantano dell’immobilismo culturale, dell’ignavia come rischio prospettivo. È un fatto, e le eccezioni, meritevoli e lodevoli, lo confermano.

Senza profonde revisioni intellettuali le organizzazioni politiche periscono. Navigano a vista, e rapidamente incontrano le secche del mero esercizio del potere, che è una missione nobile, ma sterile se diventa fine, e soprattutto senza prospettiva elettorale di lungo periodo, almeno nei regimi democratici. Per capire, e spiegare la crisi (di nervi, di intelletto, di idee) dei democratici è necessario astrarsi, e distrarsi, dalla cronaca. Dallo starnazzo e dai mutui improperi, dalle legittime ragioni di ciascuna fazione, di ciascun gruppo etnico impegnato in una guerra propugnata e propagata scientemente da signori della guerra terrorizzati dalla propria ombra, di notte e di giorno. In cerca di euristiche, di scorciatoie cognitive per capire il mondo, ma dopo le ideologie – non tutte totalitarie – ci sono solo le profferte à la mode di cartomanti mascherati da consiglieri del principe. Lo sbandamento, l’isolamento, le incertezze politiche e organizzative vengono da lontano. Le responsabilità non sono di “tutti”, ché altrimenti sarebbero di nessuno, ma sono distribuibili pro quota. Mancanze, dolo, colpe patenti e latenti, codardia, ignavia, pochezza, leggerezza, avidità… il carnet è vario e vasto. Ma non è il momento, non è opportuno disfarsi di una storia, che è poi la Storia di intere generazioni, di popoli, di operai, di lavoratori, di occhi, di lacrime di gioia e di dolore. Di fatica e speranza, di emancipazione e libertà, di lotta e diritti, di sogni e aspirazioni, di visione del mondo. Da cambiare. Di libri spezzati, di letture tradite e di filosofi dimenticati o abiurati. O semplicemente ignorati da giovani rampanti ripiegati sulle chat non in grado di capire nemmeno la sociologa del quartiere in cui vivono. Lo sgomento di una base ancora generosa, paziente, silente, e disposta nonostante tutto, e tutti, ad esserci. In prima fila, fiera e altera. La resipiscenza non è un processo indolore né facile. La reputazione e la credibilità si riconquistano ripartendo dai fondamentali, dal lavoro, dai diritti, dalle persone scelte per le cariche istituzionali, dai programmi, dalla visione di futuro, dalla lotta alla disuguaglianza. Un programma credibile si lega a persone credibili, con le loro storie e soprattutto con le loro idee, parlate e scritte. Senza scorciatoie, senza ricorrere a messia, ad enfant prodige, ad eccitazioni domenicali, a mobilitazioni da Internet, ma senza profondità alcuna. Ci vuole pesantezza! Il PD proceda dunque con una decisa tenzone ideale, fatta di proposte politiche e di visioni alternative. I democratici rimettano al centro la propria bandiera e la facciano agitare al vento, la facciano tornare cencio, straccio e la blandiscano come declamava Pasolini per “chi è coperto di piaghe […], per il bracciante, il calabrese africano […], l’analfabeta” affinché anche il più povero la sventoli.

Semel senator semper senator

Editoriale per IL RIFORMISTA

Arturo Toscanini non rimase in carica neppure un solo giorno (del resto, il Maestro non ripeteva). Rifiutò garbatamente, ma senza esitazione la nomina a senatore a vita avanzata da Luigi Einaudi. Preferiva rimanere sobrio e appartato anche in vecchiaia. Dal 1948 in Italia si sono avuti 47 senatori a vita: 38 nominati dal Capo dello Stato e 11 per diritto, in quanto ex Presidenti della Repubblica, di cui due già senatori a vita al momento dell’elezione presidenziale (Giorgio Napolitano e Giovanni Leone).

La carica di senatore a vita è un istituto varie volte oggetto di attenzioni riformatrici, mai compiute tuttavia. La ratio del potere presidenziale previsto dall’art. 59 della Costituzione mira a conferire un solenne riconoscimento istituzionale a quanti abbiano dato lustro alla patria per «altissimi» meriti in ambito «sociale, scientifico, artistico e letterario». Il profilo dei nominati è tuttavia variegato. Insieme a esponenti del mondo culturale, quali Eugenio Montale, Gaetano De Sanctis, Eduardo De Filippo, Carlo Bo, Norberto Bobbio, R. Levi Montalcini, Elena Cattaneo, Liliana Segre, hanno ricevuto la carica senatoriale a vita anche figure politiche, nominalmente non ascrivibili nelle fattispecie indicate nella Carta. Insieme a Luigi Sturzo, Leo Valiani, Giovanni Spadolini e Meuccio Ruini, che avevano anche un profilo extra politico, troviamo esponenti di primo rango dei partiti politici: Ferruccio Parri, il citato Leone, Pietro Nenni, Amintore Fanfani, Giulio Andreotti, fino a Giorgio Napolitano. Ultimo, questi, in ordine di tempo, rappresentante della categoria “politici”, quasi a completare idealmente la copertura dei partiti dell’intero arco costituzionale.

La permanenza in carica dei senatori a vita è stata pari in media a circa undici anni per quelli nominati e dodici per quelli di diritto. L’età media al momento della nomina è pari a 77 anni per l’intero gruppo. Dei 47 senatori a vita solo 4 sono donne e nessuna ovviamente, ancora, per diritto. Tra gli ex presidenti, che assumono la carica senatoriale “salvo rinunzia”, soltanto Francesco Cossiga presentò le dimissioni, in due occasioni, una volta ritirandole e una seconda allorché l’Aula del Senato le respinse. Ma faceva parte del carattere “egocentrico” e provocatorio dell’ex ministro dell’Interno. Tra i nominati, invece Indro Montanelli rifiutò cortesemente proprio la proposta di Cossiga per ragioni deontologiche, per rimanere, in quanto giornalista, distinto dal potere politico.

Se guardiamo alle legislature, rileviamo che in media si sono avvicendati dieci senatori (di diritto e di nomina) per legislatura (sette considerando solo quelli nominati), con il picco delle legislature 1987-92 e 2001-06 (undici). Nel complesso, come da indicazione costituzionale, e con ampio consenso giurisprudenziale, il Capo dello Stato puo’ nominare “fino a” cinque senatori a vita purché quelli in carica per nomina presidenziale non siano in quantità superiore a tale numero. Einaudi ne nominò otto, Cossiga cinque, Leone uno, Saragat, Ciampi e Napolitano quattro, al pari di Pertini che con le sue scelte fece salire il numero di nominati oltre la soglia. Ragion per cui Oscar Luigi Scalfaro non procedette a nessuna nomina durante il suo settennato, motivando per tabula la sua interpretazione della Carta. E da allora sempre rispettato come orientamento quirinalizio.

La presenza dei senatori a vita nell’ordinamento e nel sistema parlamentare non ha generato problemi di tipo politico ché rimandava alle eredità ottocento e novecentesche delle cariche ereditarie e/o per diritto, per coniugare la rappresentanza popolare che irrompeva sul proscenio e l’animo “culturale” profondo della nazione. La prima fase del sistema politico e partitico italiano non è stata dunque condizionata da questa componente non elettiva fintanto che i partiti erano in grado di esprimere delle coalizioni a sostegno del governo. L’apertura della fase cosiddetta “bipolare” dal 1994 ha però posto alla ribalta il gruppo senatoriale: ad esempio, furono cruciali e a volte determinanti per la formazione del governo Berlusconi I, Prodi II, Conte II in taluni frangenti. Con tanto di epiteti nei confronti degli anziani senatori quasi non fossero legittimati ad esprimere le loro opinioni, il loro voto, ad esercitare le loro prerogative; come non ricordare gli epiteti nazi-razzisti rivolti dai banchi dell’estrema destra nei confronti delle senatrici Segre, Levi Montalcini, tra gli altri.

Il “problema” comunque permane e una riforma dell’articolo 59 pare dunque non rinviabile. Discussioni e proposte sono state avanzate in varie occasioni, e più recentemente durante la Commissione bicamerale guidata da Massimo D’Alema nonché nel quadro della riforma costituzionale “Renzi”, entrambe non approvate. Sintetizzando per ragioni editoriali, possiamo restringere a due le opzioni principali. L’abolizione della carica senatoriale a vita oppure lasciare in carica soltanto la figura dell’ex Presidente. Per la cui elezione sarebbe probabilmente il caso di riconsiderare, livellandola verso il basso, l’età per l’eleggibilità. In subordine si potrebbe espungere dalle prerogative dei senatori a vita il rapporto fiduciario nella dinamica Parlamento/Governo.

L’esiguità delle maggioranze parlamentari (il caso Draghi essendo, sperabilmente, l’eccezione), anche derivante dall’assegnazione su base territoriale/regionale dei seggi senatoriali elettivi, riporta in evidenza la necessità di discutere un istituto che rimanda a un altro periodo storico. Sei senatori, quelli attualmente in carica, possono pesantemente incidere sul rapporto rappresentante/rappresentato in una logica che però prescinde dal legame elettorale. Nelle more stuoli di personaggi che pensano di avere dato lustro alla Patria, covano una speranza. Fioca tuttavia.

La sindrome del tiranno

Editoriale per IL RIFORMISTA

La maledizione delle variabili. Nella politica italiana si sommano diversi fattori nel produrre inefficienza. La recente crisi di governo ha generato una distorsione ottica e quindi cognitiva con conseguente morbosa e inutile attenzione per il compartamento dei singoli attori. La fine dell’esecutivo Conte II è stata politicamente sancita dalle tensioni interne alla coalizione, ma in realtà le vere motivazioni rimandano a un dato strutturale. L’assenza di un assetto istituzionale ed elettorale coerenti ed adeguati a generare, o perlomeno favorire, una democrazia governante.
L’impianto istituzionale concepito nel 1948 è l’apogeo della stasi, l’esaltazione della negoziazione permanente e del ricatto costante, la proliferazione dei veto players perché ordito in un contesto – nazionale ed internazionale – di reciproca e mutua sfiducia tra due campi, e i rispettivi principali partiti. Nessuno dei quali doveva né poteva governare senza l’avallo, il controllo ossessivo della controparte. Cui si aggiunse la sindrome del tiranno, retaggio del passato fascista, la paura di un uomo solo al comando (che poi mai sia interamente così andrebbe tenuto in debita considerazione), il terrore per decisori e decisioni chiare.

L’instabilità dei governi è stata la cifra distintiva della Repubblica, sia nel primo periodo (durata media pari a undici mesi a fronte di immutabile personale ministeriale) che dopo il 1994 allorché si sono avute alternanze tra schieramenti opposti sebbene la longevità media sia aumentata punto o poco significativamente. La bi-polarizzazione, falsa e limitata nel tempo, è stata dovuta essenzialmente al fattore B., catalizzatore di giudizi dicotomici ad personam piuttosto che a visioni genuinamente alternative in base a piattaforme politiche e programmatiche. La tendenza all’indistinta melassa unificante e soffocante, mascherata a volte da Große Koalition, è emersa variamente negli ultimi vent’anni. Che solo apparentemente diviene ossimoro plebeo in coppia con il frazionismo guelfo-ghibellino dell’italico cor. Solo funzionale a celare e compensare l’incapacità per una sincera alterità ideale/ideologica costante e a far fronte ad una teatrale litigiosità inconcludente, in un Paese di “compaesani”.
La conflittualità all’interno delle coalizioni, la scarsa longevità dei governi, la proliferazione di micro formazioni partitiche pseudo personali, l’assenza di politiche pubbliche di ampio respiro e lungimiranti, la frammentazione, rimandano non al destino malizioso, ma a precise cause politiche ed istituzionali.
In Italia convivono due carenze, gravi. Un sistema elettorale debole e un sistema partitico ultra destrutturato. Nonostante, et pour cause, quattro principali riforme la procedura di trasformazione dei voti in seggi è congegnata per avere limitati o nulli effetti constrittivi e strutturanti. Analogamente, il sistema politico è privo di partiti solidi, nazionali, strutturati, organizzati territorialmente e in grado di produrre una proposta coerente a livello nazionale (per carità di patria sorvoliamo sul becero compartamento in materia di Covid di presidenti di regioni dello stesso colore politico). Il combinato disposto di sistema elettorale debole e sistema partitico non strutturato (anch’esso debole) paralizza la politica e come indica Giovanni Sartori non ha alcuna influenza. Risiede lì il motivo delle crisi.
Sul piano elettorale il concetto distorto di rappresentanza lascia spazio a nano-particelle che pure non rispecchiano nessuna reale frattura sociale, economica, politica. Biechi meccanismi autopromozionali per nulla migliorativi del rapporto elettore/eletto/territorio. Decine di piccole rane gracidano nello stagno, tutte con pari forza ostativa e vincolante. La morta gora.
In media (dal 1948) si hanno dieci partiti con seggi in parlamento, di cui solo metà con percentuali di voti maggiori del 4%. Il livello di frazionalizzazione è aumentato e la forza aggregante dei due principali partiti si è contratta: 79% di voti e seggi nel 1948, picco ancora nel 1976, ma punto minimo nel 2018 (52%). Aggiungiamo la media di nove gruppi parlamentari e di otto forze rilevanti.
La palude è permanente, i partiti senza forza nazionale. Pertanto, l’invocazione del messia, del salvatore, l’uomo della provvidenza, è la ciclica normalità. Insoddisfatta, ché politica e società sono complesse, per fortuna.
In questo contesto drammatico la decisione del Presidente del Consiglio dei Ministri Mario Draghi di non indicare un dicastero per le riforme appare decisamente poco adeguata. È esattamente il cantiere delle riforme che va ri-aperto, anche prima di quelli fisici, proprio perchè incomplete. Il processo riformatore non sia visto come le forche caudine, ma come l’opportunità, l’unica, per rimuovere all’origine le cause della stasi. Nel 1976 fu il PSI a varare la Grande Riforma, progetto coordinato da Giuliano Amato, in dialogo costante con le professionalità necessarie a produrre un cambiamento sistemico.
Una delle riforme puntava all’elezione diretta del Capo dello Stato, tema all’epoca tabù per miopia, para e scarsa conoscenza, e oggi nemmeno preso in considerazione. Sistemi a elezione popolare diretta non meno efficaci, effcienti e democratici di quelli parlamentari. Sarebbe d’uopo tornare a discuterne senza pregiudizi specialmente in vista della scadenza del mandato presidenziale anche per anticipare le vestali del ‘potere del popolo’ che lamenteranno discrasie tra la volontà popolare e la scelta del Palazzo. Il Parlamento discuta, senza timore per alcunché e senza autocensure preventive. I partiti propongano, magari partendo dal doppio turno di collegio.