Sognare la Grande Bologna

Il mio editoriale per il Corriere di Bologna

Tanto tuonò che arrivarono, infine. Le primarie del PD et altri pare si terranno il 20 giugno. Ci sono due aspetti da tenere insieme in vista delle consultazioni, due punti imprescindibili che consentiranno di vedere in anticipo quale sarà la prospettiva della nostra amata città. Un punto programmatico e uno politico. 

Al di là delle schermaglie, dei ri-posizionamenti, degli sponsors più o meno autorevoli, della tattica, della stancante sequela di dichiarazioni sibilline, dei lanci di agenzia e di sostegni cercati in alto ed evocati basso, è giunto il momento di udire proposte ambiziose. I punti elencati sin’ora dai principali contendenti sono certamente degni di nota, ma manca l’ossatura centrale, il disegno complessivo. Troppe note avrebbe detto Salieri. Indulgono in aspetti di nicchia, un po’ timidi, un po’ pavidi, un po’ tattici, cercano di coprire l’intero spettro dell’elettorato e soprattutto degli interessi organizzati, lanciando messaggi cifrati a ciascuna categoria, per ingraziarla, ringraziarla e non irritarla. Si muovono ancora negli interstizi. E invece l’opportunità è ghiotta per lanciare il progetto di #Bologna2050; che preveda un Comune unico che vada da Casalecchio fino a San Lazzaro. Le città sono al cuore di politiche innovative in tutto il mondo e in taluni casi sfidano anche gli stati nella programmazione e nell’attuazione di proposte avanguardiste. Bologna deve decidere se rimanere la città delle Due Torri o lanciarsi sul proscenio europeo come attore politico di medie dimensioni. La presenza di due figure di rilievo nella contesa del centro-sinistra, entrambe con ruoli di primo piano nei rispettivi municipi, è una opportunità storica, imperdibile. Matteo Lepore e Isabella Conti facciano una dichiarazione congiunta in cui affermino che lavoreranno per unire la città che nei fatti è già tale. Avere un unico Municipio darebbe forza per la competizione del domani (no, la Città metropolitana proprio non basta, anzi è vetusta). Soltanto il lancio del progetto Città unica rende possibili progetti ambiziosi, affrontare sfide future su gambe solide e sognare e disegnare #Bologna2050. Lepore e Conti sono candidati giovani e competenti, ma solo la cornice di una città davvero unica consentirebbe di esprimere al meglio i loro programmi, e di renderli ancora più autorevoli. Certamente su questa sfida troverebbero consenso tra le forze imprenditoriali, l’Università, i cittadini. E sarebbe anche una sfida per i partiti e la politica. A tal proposito il PD su questo dovrebbe aprire una discussione approfondita, una gara delle idee per la città. A un mese dall’appuntamento cruciale per la corsa a Palazzo d’Accursio La scintilla che merita Bologna, come richiamava ieri Olivio Romanini su queste pagine, può venire da una scelta programmatica alta e lungimirante. 

Il secondo punto, indissolubilmente legato al primo, riguarda gli aspetti politici. La leadership nazionale e locale del PD e del centro-sinistra ha deciso che si proceda con la competizione per la selezione del candidato alla carica di sindaco. E primarie siano. Purché competitive, aperte, libere, basate sul confronto, sullo scontro programmatico. Una occasione unica per rilanciare l’azione del centro-sinistra e riavvicinarsi al popolo un po’ smarrito della Sinistra. O del centro-sinistra. Ma chi partecipa, siano essi elettori, o candidati devono tenere bene in mente che sottoscrivono un patto, e che come tale va rispettato, onorato, pena perdita della credibilità. La politica in questi decenni ha perso gradi di reputazione proprio a causa delle troppe banderuole, di una ideologia à la carte. Non basta pronunciare frasi diplomatiche abbastanza ovvie circa la lealtà politica, è necessario riconoscere l’avversario, vedendolo al contempo come un alleato che andrà sostenuto nel caso lui/lei ottenesse la nomina quale candidato sindaco. Non possono esistere dubbi, subordinate o condizioni al fatto che i contendenti alle primarie abbiano l’obbligo politico, prima che morale, di impegnarsi completamente per la vittoria del proprio schieramento. In un altro celebre 20 giugno la firma posta sul documento di “alleanza” implicava di giurare solennemente «di non separarsi mai e di riunirsi ovunque le circostanze l’avrebbero richiesto, fino a che non fosse stata stabilita e affermata su solide fondamenta una Costituzione per il regno francese». Era il 1789 e con il Giuramento della Pallacorda i rappresentanti del terzo stato sancivano l’indissolubilità dell’accordo. Rispetto al “campo” avversario, che di questo, alla fine si tratta.  

Per cui sarebbe molto auspicabile se i candidati, da alleati e non sospettosi competitori, pensassero in grande, agissero in grande. Vanno bene i mercatini, le visite guidate alle bocciofile, ma vorremmo sentire parlare anche di idee con gambe lunghe, testa alta e schiena dritta. Di prospettive. Dateci un po’ di rivoluzione

Mattarella. Il faro di una politica in perenne tempesta

Il mio editoriale sul Domani

Sobrietà. Tra i possibili aggettivi per sintetizzare il mandato del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella il riferimento a un’esperienza di Presidenza parca mi pare quello adeguato. Contenuto nelle esternazioni, diplomatico, fermo nei valori, saggio nelle consultazioni e praticamente inflessibile nelle forme. Una rarità nel panorama politico e istituzionale del Paese, troppo sovente incline a digressioni personali, atteggiamenti extra protocollari e invasioni di campo. Chi confondesse la sobria pacatezza con la remissività sbaglierebbe enormemente ché la storia del settennato di Mattarella insegna molto, ed è un monito.

La popolarità del Presidente Mattarella è elevata, al pari dell’apprezzamento per l’operato, e al netto di alcune differenze tra gli elettorati, è nel complesso trasversale tra gli schieramenti. Fin dal giorno dell’elezione Mattarella ha inviato segnali chiari, simbolici e metaforici, ricchi di contenuto e coerenti nella difesa e nel rispetto della Carta costituzionale. La prima uscita fu nel pomeriggio dell’elezione, recandosi alle Fosse Ardeatine, poi il magnifico discorso di insediamento, compendio di educazione civica e politica. E i lunghi silenzi loquaci delle prime settimane lasciarono costernati i giornalisti assiepati smaniosi di un commento su tutto e tutti. Eletto dodicesimo capo dello Stato al quarto scrutinio con il sostegno del PD, di Sel e Scelta civica con 665 voti (come Saragat e Scalfaro) e la benevolenza di Forza Italia, imbarazzata su rigettare una figura tanto autorevole. Con un chiaro percorso politico nella DC e nel centro-sinistra, Mattarella a 74 anni è eletto come “indipendente”, giudice costituzionale in carica al momento del voto. La terzietà, o meglio l’imparzialità sono state la cifra dell’intero settennato.

Tra gli atti formali più significativi, Mattarella ha nominato due giudici costituzionali, numero dettato dalle disposizioni costituzionali (art. 135). Ha inoltre nominato una senatrice a vita (L. Segre). In questo caso avrebbe potenzialmente avuto maggiore agibilità, ma l’interpretazione di Mattarella della disposizione Costituzionale è andata nella direzione di seguire la consuetidine (dopo l’eccezione di Pertini e Cossiga) per cui si hanno contemporaneamente un massino di 5 senatori a vita di nomina presidenziale. Il settennato 2017-2022 è stato segnato da una significativa presenza nel processo di nomina del Presidente del Consiglio dei ministri. È cruciale segnalare che la Carta (art. 92.2) non impone alcun vincolo o criterio esplicitio rispetto al percorso che conduce alla nomina. L’azione di Mattarella si inserisce in un contesto politico e partitico mutato significativmente. L’incertezza emersa nel post-elezioni 2018, il sostanziale tripolarismo e l’elevata frammentazione, nonché l’emergere di alleanze e coalizioni differenziate rispetto al momento elettorale hanno palesato un quadro di sostanziale ingovernabilità del Parlamento. L’azione di Mattarella è stata incisiva e significativa in almeno in due dei quattro casi di nomina e formazione del governo, nel Conte II e per Draghi. Ma già dopo il momento elettorale del 2018 il Capo dello Stato aveva chiaramente marcato la statura di incondizionato rispetto della collocazione europea dell’Italia. Mattarella non procedette alla nomina di P. Savona quale ministro dell’economia in virtù delle chiare, reiterate, posizioni contro l’EU e l’Euro. Ne derivò una grave tensione politica che culminò con la richiesta di L. Di Maio di attivare la procedura per messa in accusa del Presidente per alto tradimento (sì, concordo, la Storia va ricordata). Per il resto Mattarella prese atto con imparzialità dell’alleanza “sovranista”. Il governo Conte II nacque sull’incertezza tattica di Renzi e sul cambiamento di posizione del PD, ma soprattutto sulla scia del voto del Parlamento europeo a favore di U. von der Leyen.

Nelle consultazioni per la formazione del governo Draghi va ribadito che esiste reciproca e datata stima con il Capo dello Stato. Mattarella ha preso atto della situazione di impasse in Parlamento nonché della conflittualità tra i partiti della coalizione, della crisi interna al M5s che avrebbe reso ancora più precaria la vita del Governo. La verifica affidata al Presidente della Camera, eletto dal M5s, per fugare dubbi su ostilità verso Conte, ha certificato l’assenza di altre possibilità e ha raccolto evidenze di consenso su Draghi. Infatti, sebbene sovente si tenda a interpretare il confronto politico e istituzionale su basi personali, il grado di interventi dei Presidenti dipende dalle opportunità offerte dal contesto. Le caratteristiche soggettive incidono sul modo concreto in cui l’azione si esplicita: nel caso di Napolitano, ad esempio, l’intervento è più esplicito in virtù della sua cultura del primato della politica. Nel caso di Mattarella, l’azione è meno esposta, ma non per questo meno forte, abituato a una cultura che fa emergere l’attivismo con azioni mediate, e quasi effetto inevitabile di una crisi ormai matura. Secondo la celebre metafora di Giuliano Amato i poteri presidenziali si comportano come il mantice di una fisarmonica che si espande quanto più le crisi sono profonde. In sintesi possiamo indicare tre grandi periodi. 1) 1948-1993: crisi “extra parlamentari” con coalizioni tendenzialmente stabili e governi con durata media inferiore a un anno. L’intero processo era governato tra i partiti e nei partiti. L’impossibilità dell’alternanza al dominio democristiano contribuiva a rendere il Presidente un attore che ratificava. La supplenza presidenziale agiva allorché fosse esaurita una formula, ma non ancora pronta la successiva (Gronchi tra fine del centrismo e inizio del centrosinistra, Pertini tra solidarietà nazionale e pentapartito). Tra il 1992-1994 la fisarmonica si è aperta frequentemente, tanto che si è parlato di forma parlamentare a correttivo presidenziale. Una constatazione, ma anche evidentemente un problema, in termini di maggioranze instabili. 2) 1994-2013: a inizio legislatura si insediano governi che rispecchiano l’esito elettorale, ma poi c’è un “intervento presidenziale” (Scalfaro con Dini e Napolitano con Monti). Infine, 3) dal 2013 assistiamo a una maggiore azione e intervento del Capo dello Stato (Letta, Conte II e Draghi), proprio per la ragioni menzionate e per la crescente frammentazione partitica e l’ascesa del M5s come terzo polo.

In questo contesto sclerotizzato, il Presidente Mattarella ha rappresentato un faro nella notte della tempesta politica di una legislatura paralizzata. Il Capo dello Stato appare una sfinge, ma il sobrio intervento è una sicurezza nei momenti difficili per il Paese. Recentemente Mattarella segnalando la propria indisponibilità a ricandidarsi ha indicato la possibile riforma costituzionale per l’abolizione del semestre bianco perchè nessuno potrebbe essere accusato di favorire la successione. “Il semestre bianco … potenzialmente può consentire un periodo di irresponsabilità politica”. Cristallino ha sintetizzato il rischio assai grave di un periodo di grande tensione, confusione e palude parlamentare.
Il Parlamento pensi alle riforme necessarie in tal senso. Dal semestre bianco alla riforma dei criteri di eleggibilità, abbassando l’età da cinquanta a quarantanni. Qualora persistesse l’indisponibilità del Presidente Mattarella a un nuovo mandato, il Parlamento dovrà individuare analoga figura capace di accompagnare la fine ordinata della legislatura fino alla scadenza regolare, come ragionevole per condurre in porto il programma di Governo.

Salvini lascerà il Governo. Anzi non ci è mai entrato.

Il mio editoriale per Il Riformista

Nella letteratura scientifica di riferimento si chiama “genetica dei partiti”, per definirne il carattere identitario, la cifra ideologica e politica. Si tratta di elementi tipici difficilmente superabili, modificabili e cancellabili, e che rimandano alla nascita del partito, alla sua natura, all’essere e all’agire.  Sono caratteristiche ascrittive, un po’ come il colore degli occhi, sostanzialmente immodificabili. A meno che la leadership del partito non proceda a profondi, radicali cambiamenti che investano l’intero assetto ideologico, organizzativo e identitario. Affinché tale atto rivoluzionario vada a buon fine è però indispensabile la presenza del combinato disposto della volontà politica e, soprattuto, di una guida autorevole, riconosciuta e riconoscibile per condurre l’operazione. Taluni, ignari o interessati, ripetono la cantilena della Lega nazionale e della Lega che sarebbe diventata nello spazio di un mattino un partito responsabile e istituzionale. Il tutto perchè il partito ispirato ad Alberto da Giussano ha deciso di sostenere, per ora, il Governo Draghi. Ma già in passato il partito fondato da Umberto Bossi ha dato prova di acrobazie politiche e parlamentari, di tattiche estreme per sopravvivere e addattarsi al contesto. 

Il cambiamento, per essere serio, definitivo e profondo necessiterebbe di una pubblica discussione, di abiura di precedenti esperienze e proposte e di innovazione. Il tutto guidato da una leaderhsip carismatica. L’attuale segretario del partito, il senatore Matteo Salvini, evidentemente non ha alcun carisma, e anche la popolarità è decrescente, come le intenzioni di voto per il suo partito, la Lega Nord. Salvini non solo manca di carisma, ma soprattutto non controlla il partito. Che è sostanzialmente alla deriva, senza un’indicazione chiara sulla strategia nel medio e lungo periodo, ormai allineato alle politiche mainstream. La mitica base è spaesata. Il finto cambiamento pro-Europa è maturato in due ore davanti a un gelato nel cuore della capitale. Parimenti il cambiamento contro il “proprio” governo (Conte I) avvenne ingurgitando un cocktail alcolico. C’è dunque un aspetto parapsicologico del rapporto cibo-posizionamento politico che mal si concilia effettivamente con la sobrietà, la pacatezza e la statura internazionale del Presidente del Consiglio dei Ministri, e della partecipazione a un Governo europeo ed europeista. Le inversioni di rotta della Lega Nord non sono una novità. Il passaggio dal radicalismo finto celtico, dalla secessione sbraitata, alla chimera della secessione, agli strali contro lo stato unitario, alle invettive contro il 25 aprile (quando Bossi invece dichiarava il partito antifascista), alle melensi e odiose carezze alla destra neofascista, dal razzismo contro i meridionali a quello più redditizio verso gli immigrati, dal sessismo, dalla violenza verbale contro tutti i diversi, una congerie di contraddizioni e di proposte scoordinate e spesso strampalate. Il collante era però Bossi, il suo carisma, l’autorevolezza del padre fondatore (astemio) e l’ideologia di una chimera dichiarata a portata di mano. 

La Lega Nord naviga oggi in cattive acque. Il partito è accreditato di un consenso, sovrastimato, attorno al 20%. All’incirca il dato del 2018, dopo l’ebbrezza del 2019. Ad aggravare la crisi della Lega Nord c’è la condizione di socio di maggioranza, con sostegno a politiche espansive e pro-EU, ossia una costrizione cui il partito reagisce sanguinando elettori, e che Salvini vive come una vera contrizione. Nella situazione odierna il senatore eletto per caso a Locri ha le polveri bagnate, non può dare fino in fondo sfogo alle intemerate contro il “sistema”, non può criticare il capo del governo accusandolo di incompetenza, non ha elementi per scagliarsi contro la gestione del Codiv avendo un malgoverno a guida Lega Nord in Calabria e in Lombardia. È come una fiera in gabbia, e molti elettori sembrerebbero ormai mitridatizzati al suo richiamo continuo alla mobilitazione contro il nemico imminente di invasioni immaginifiche. Per questo tenta piccole azioni di sabotaggio quali le discussioni sugli orari del coprifuoco, o rimarca una pregiudiziale identitaria sulla legge contro l’omotransfobia. 

Inoltre Giorgia Meloni da mesi incalza la Lega, e sta recuperando consensi e il sorpasso è ormai prossimo. Una chiara Opa ostile, con Salvini schiacciato tra l’ala governista e la spina nel fianco di Fratelli d’Italia. Alla sfida sulla destra si somma il ritrovato attivismo pacato, ma probabilmente efficace del segretario del PD. Letta ha finalmente iniziato a discutere della possibilità di recuperare i voti del Nord, posto che in maggior parte si tratta di lavoratori (dipendenti), per cui se la Sinistra dismettesse l’atteggiamento rinunciatario potrebbe recuperare molti consensi. Il bacino leghista è assolutamento contendibile, è sul mercato, e disorientato aspetta parole e atti rassicuranti. Per il PD, con una politica “aggressiva” e propositiva sul territorio, sarebbe possibile vincere persino in Veneto, dove il sedicente buongoverno del Presidente Zaia ha generato spesso problemi ambientali, estese diseguaglianze sociali nonchè un sistema sanitario orientato al privato. 

La conviveza nel partito tra massimalisti e riformisti, o meglio tra estremisti di destra con e senza doppiopetto, è ormai impossibile. Addirittura, secondo alcune fonti, Salvini e il ministro Giorgetti avrebbero sfiorato la rissa a causa di divergenze sulla gestione dei fondi europei post pandemia. 

Ai primi di agosto inizierà il “semestre bianco” presidenziale, una ghiotta opportunità per essere non responsabile e allo stesso tempo criticare senza tregua il Governo in carica con l’assicurazione che il Presidente della Repubblica non potrà sciogliere le Camere. La condizione perfetta per un uomo politico da trincea come Salvini che ha costruito il suo effimero consenso su provocazioni, proposte senza evidenze empiriche, e con il complice silenzio di ampi settori dell’informazione che solo in pochi casi ha chiesto conto delle affermazioni fatte. A quel punto Salvini potrà alzare il tiro e il tono, sia che la Lega rimanga nel governo con i ministri sia che la delegazione lasci la maggioranza. Sarà comunque una fuoriuscita politica, e lui potrà negoziare il capitale elettorale mentre i filo governativi saranno in balia delle sue provocazioni. Saranno mesi di grande tensione, con l’asse FdI-Lega Nord che torneranno a dialogare e a sfidarsi ma da alleati in una lunga campagna elettorale in vista del 2023. L’identità del partito è dunque in grave pericolo, e anche l’organizzazione, un tempo efficace macchina elettorale e oleata struttura capace di fare da sentinella sugli umori del Nord, è annichilita dopo un lustro di osanna, e relative risorse, dirottate verso il sedicente capitano di ventura. 

Nessuno può scappare alla propria identità. Salvini è un politico, tattico decente, nella migliore delle ipotesi. Spesso è trascinato dagli eventi, nel senso che trae vantaggio adattandosi al contesto. Non c’è nessun disegno metapolitico, nessuna superstrategia segreta, semplicemente Salvini è rimasto vittima della rivolta della componente “governista” del partito. Non una componente moderata, come ripetuto acriticamente, ma semplicemente quella più pragmatica. In questo Salvini è più leale al carattere “movimentista” del partito. Lo scontro tra le due componenti è in corso da tempo e nel deflagrare farebbe implodere il partito. Per tutte queste ragioni Salvini presto lascerà la maggioranza provando a portare con sè le residue forze irredentiste della (fu) Lega Nord. Salvini non esce dal Governo, non ci è mai entrato

Il mio intervento a Radio inBlu2000 del 28/4/21

Ieri sono intervenuto a Radio inBlu2000 per parlare del dibattito politico sulle riaperture e sul coprifuoco. Messaggi poco chiari e cambiamenti troppo repentini. Ho parlato anche di Salvini e della sua probabile uscita dal governo quando inizierà il semestre bianco. La registrazione si può ascoltare qui

Le primarie a Bologna: benvenuto conflitto

Il mio editoriale per IL CORRIERE DI BOLOGNA

Ex malo bonum. Le primarie di coalizione tra i candidati del centro-sinistra possono rappresentare l’occasione per dirimere le frizioni e le conflittualità emerse nell’ultimo anno. Uno strumento utile, non sempre, non in assoluto, capace di mitigare le tensioni e soprattutto di legittimare la scelta dell’aspirante candidato alla carica elettiva, in questo caso di Sindaco. Il Corriere di Bologna è stato tra i primi a segnalare in varie occasioni l’opportunità delle primarie per procedere all’indicazione dell’aspirante successore di Virginio Merola. La decisione di Isabella Conti di competere rende l’esito della contesa incerto, e potenzialmente amplia l’interesse dei cittadini e degli elettori bolognesi per la campagna elettorale, anche a circuiti meno vicini ai partiti. I principali contendenti – in attesa delle determinazioni di A. Aitini – hanno presentato i rispettivi desiderata, fin’ora linee programmatiche generali, in due “dirette” sui social network entrambe abbastanza noiose e “tattiche”. Come ragionevole fosse al primo “appuntamento”. Possiamo però già trarre qualche elemento di riflessione. Il sindaco di San Lazzaro pare intenda giocare una partita all’insegna della rassicurazione, dell’appello alla “società” esterna al Partito democratico. I toni sono stati concilianti, a tratti troppo melensi, quasi da libro Cuore. La giusta reputazione di cui gode, data da popolarità, doti amministrative e coraggio, deve però trasformarsi in proposte di politiche pubbliche concrete, fattibili, misurabili e comparabili. Non si tratta solo evidentemente di una questione di scala (comparare San Lazzaro e Bologna non è un indicatore sensato, da non abusare ambo lati), ma di affrontare le questioni dirimenti e le prospettive di vita sociale e urbana dei prossimi trent’anni per la capitale felsinea. Per cui sarebbe più opportuno fare riferimento a proposte di miglioramento sempre necessari piuttosto che a presunte gravi deficienze cittadine, viste che tutto sommato Bologna non pare sia assediata dagli Unni. Essere candidati indipendenti può essere un plus, purché i partiti, e il PD non siano visti come un male.

Matteo Lepore, ha esperienza, visione, capacità amministrative e politiche. Per vincere dovrebbe evitare di rinchiudersi, di rimanere ancorato al gruppo di riferimento, ai soliti noti, e a volte non troppo disinteressati consiglieri. La reazione altèra sarebbe esiziale, tanto quanto considerare -come in parte ha fatto – la sfida di Conti come una lesa maestà. E nemmeno l’attacco a Matteo Renzi, accomunato a Salvini, appare ragionevole, almeno in questa fase, posto che Italia viva è composta di molti elettori di centro-sinistra. Tiri fuori, con umiltà, il coraggio di navigato amministratore, di giovane miliante e capace promotore della bellezza della Città, senza timore di lanciare il cuore e la mente nell’arena un pò affollata. Allarghi partendo dal PD, ma guardano oltre.

L’apertura della competizione ha innescato una normale, fisiologica, azione di ri-posizionamento e un confronto serrato tra sostenitori della lealtà coatta ed eroismi in favore della libertà di voto. Le primarie “aperte” coinvolgono gli elettori che si riconoscono nei valori (e nel manifesto) della coalizione, e che versano un obolo, si spera. Pertanto, le accuse di tradimento quanto gli strali contro il presunto liberticidio appaiono ampiamente sovrastimati. Una diatriba ristretta a pochi funzionari ed eletti. Che poco dovrebbe interessare il “popolo delle primarie”, stante la logica intrinsecamente “aperta” dei “gazebo”. La libertà va garantita, ovviamente, e non hanno senso i richiami alla disciplina, le minacce di espulsioni o i toni da anni Cinquanta. Tuttavia, è altresì bene essere consapevoli che i partiti politici non sono taxi o autobus, e nemmeno lo sono le istituzioni o le correnti, da cambiare a ogni mutar di Eolo. Pena la scarsa reputazione presso i cittadini. 

Meglio sarebbe, invece, per Conti e Lepore, raccogliere la sfida, puntando sul confronto rispetto ai temi. 

Il conflitto ideale è sempre foriero di avanzamento sociale e culturale, di progresso e civiltà. Confronto libero, serrato, argomentato e scevro da risentimenti, in una vera logica di competizione dove “prevalga il miglior candidato”. La nostra città ha raggiunto altissimi risultati in ambito sociale, economico, culturale, proprio grazie alla sinistra, al centro-sinistra. Ma non basta onorare il passato per conquistare il futuro. Bisogna reinventare un nuovo modello che affronti il post-Covid. Ma partendo dal patrimonio comune che è Bologna, con la sua vasta e solida ricchezza, economica e immateriale. Ne tengano conto i pretendenti per non rischiare di disperdere l’obiettivo primario nella temperie e nella polvere della tenzone elettorale. 

Le primarie prossime anticipano la contesa elettorale autunnale e decideranno, de facto, il prossimo primo cittadino di Palazzo d’Accursio, come rilevato anche dal Presidente P.F. Casini. Lo dicono i numeri del centro-sinistra a Bologna e l’annoso ritardo programmatico della destra locale. Conti e Lepore, diano dunque fuoco alle polveri delle proposte, delle idee, dei numeri, dei sogni, delle visioni, e della partecipazione politica. In entrambi i casi prestando maggiore attenzione ai temi e meno alle paturnie personali.