Le primarie e le secondarie

Barack Obama e Hillary R. Clinton si contesero la nomination quale candidato del partito democratico per le presidenziali USA del 2008, mentre nel 2016 a competere fu Bernie Sanders contro la stessa ex Segretario di Stato. La dinamica che si sviluppò nel dopo primarie fu simmetrica: nel primo caso circa il 23% degli elettori di Clinton non sostenette il futuro presidente americano, mentre nel caso di Sanders i (suoi) supporter a non appoggiare Clinton contro Trump furono circa il 10%. Dati frutto di una distanza tra i candidati, et pour cause, di una campagna molto tesa soprattutto nel 2008. 

Se le primarie del centro-sinistra/PD sono de facto il primo turno delle prossime elezioni comunali di Bologna, è inutile scrutare i possibili scenari del “secondo turno”. Le primarie hanno diversi pregi, tra cui la ri-mobilitazione, la partecipazione, il dibattito, l’inclusione nel processo decisionale di fette più ampie di elettori rispetto a poche unità di funzionari di solito deputate a indicare il nome del candidato. Esistono però anche rischi connessi alla profondità delle divisioni tra i competitori e i rispettivi elettorati, che possono oscillare dalla mera contesa fino all’avversione e aperta ostilità. Tanto più ci si approssima a uno di questi poli ideali, maggiore sarà il livello di in-certezza degli spostamenti di consensi dal perdente sul nome del vincente. Le primarie sono una tappa, seppur importante, nel processo competitivo che culmina con le elezioni di ottobre. Sebbene sia fisiologico e finanche auspicabile un confronto frizzante, deciso, franco e “duro”, esiste una linea rossa da non varcare, quantomeno per evitare esisti esiziali. Le distanze tra i candidati, inevitabili durante la tenzone elettorale, sono tendenzialmente componibili in poche ore tramite negoziazioni franche e scambi mirati. Viceversa, le tensioni generate dal livello di scontro tra i candidati tendono a riassorbirsi più lentamente tra gli elettori. I quali risentono maggiormente della eccitazione ideologica specialmente se de-genera (in)una mutua delegittimazione. È quanto solitamente avviene nel processo di accordi tra élites politiche e parlamentari di tendenze opposte rispetto alla vischiosità tra gli elettori soprattutto se indotta da reiterati attacchi personali, reciproca demonizzazione. Le primarie in qualche misura devono produrre conflitto politico evitando la morta gora di decisioni preventive e di stasi ideale, ma se le divisioni mutano in lacerazioni è arduo in cento giorni ricondurre i propri sostenitori nell’alveo e sul volto di colui/colei che fino a pochi istanti prima è stato oggetto di violenti strali. Non sarà sufficiente una dichiarazione formale, un comizio congiunto, una comparsata passeggiando sorridenti insieme per rimarginare le ferite inflitte all’orgoglio dei due gruppi di riferimento. 

Nelle scorse settimane Isabella Conti e Matteo Lepore, e i rispettivi staff, hanno avvicinato di molto il livello dello scontro al punto di non ritorno. I toni paiono decisamente inferiori alle aspettative e all’aplomb che dovrebbe mostrare il futuro inquilino di Palazzo d’Accursio. Le beghe poco o punto edificanti e il tono complessivo non sono in linea con la “turrita colta”, e soprattutto moderata e composta. Le invettive indirizzate al proprio avversario, di rappresentare il burattino del mondo cooperativo da un lato, e la prestanome di Matteo Renzi quinta colonna della destra dall’altro, paiono ampiamente esagerate e macchiettistiche. Gli elettori meritano un confronto molto più articolato e raffinato. Anche con colpi di fioretto, ma in un contesto urbano e senza isterie da osteria. Elezioni primarie fortemente divisive potrebbero risultare dannose per la creazione di una futura coalizione forte. E soprattutto, Conti e Lepore, (ci) dicano, da perdenti alle primarie, si comporterebbero come Bernie Sanders o come Hillary R. Clinton? 

Federazione Lega-FI? Dà le carte Berlusconi

Il mio editoriale per Il Riformista

«Se dovessi votare il 5 dicembre per il sindaco di Roma, non avrei dubbi: Gianfranco Fini», segretario del Msi. Silvio Berlusconi, l’imprenditore di Arcore, inaugura un suo supermercato alle porte di Bologna nel novembre del 1993 e scagiona il “polo escluso” dalla reiezione del campo democratico ostile a rigurgiti neofascisti invitando a votare per l’erede di Almirante nelle imminenti elezioni amministrative. È l’ufficialità della discesa in campo del Cavaliere che costruisce un capolavoro politico ed elettorale: Polo del buon governo al sud insieme ad Alleanza nazionale, e Polo delle libertà nel nord, insieme alla Lega Nord. Il centro prezzemolino postdemocristiano da collante. 

A questa narrazione facile fa da contraltare la sostanza politica. La destra italiana ha vinto quattro volte le elezioni politiche e governato per dodici degli ultimi venticinque anni in ragione delle scelte del Carroccio. Nel 1994, a pochi mesi dalla vittoria del capo del Biscione, la Lega Nord ruppe con Forza Italia non (solo) per le vicende giudiziarie annunciate pomposamente durante il G7 partenopeo, ma perché, principalmente, Bossi fiutò che i candidati azzurri inamidati stavano fagocitando il suo partito proprio nei bastioni settentrionali, come ampiamente dimostrato dalle elezioni europee dello stesso anno. Berlusconi evoca un “ribaltone”, ma sa che dovrà risanare con il sénatur. In breve, nel 1996 la corsa solitaria leghista contro “Roma Polo” e “Roma Ulivo” genera la storica vittoria del centro-sinistra, esattamente per la defezione bossiana tornato sui fasti dell’avversione al “mafioso di Arcore”. Non a caso una delle passeggiate sui prati di villa Borromeo, con Bossi in delittuosa canottiera, con relativa transazione a sostegno delle sempre emaciate casse delle camicie verdi, decide il ritorno della Lega Nord nell’alleanza conservatrice e conclude la traversata del deserto-opposizione con la clamorosa vittoria del 2001. Il 2006, con le due coalizioni monstre “pigliatutti”, celebra una vittoria di Pirro, poi mutilata, dell’Unione per soli 24.000 voti, un caso, un’inezia, un errore statistico, nonostante la generosità del Professore unico in grado di sconfiggere B. (disinvolto nell’alleanza con Fiamma tricolore e Mussolini), e la Lega non a caso raggiunge l’ipogeo elettorale. Nel 2008 il differenziale tra i neonati partiti post-Novecento (PD e PDL) proviene proprio dal sostegno della Lega Nord che con il suo canto del cigno permette a Berlusconi di tornare a Palazzo Chigi, salvo poi uscirne nel 2011 per patente incapacità ad affrontare la crisi finanziaria. E nel quadro di un centro-sinistra sempre minoritario in voti rispetto al blocco conservatore di destra (estrema). 

In questa prospettiva storica emerge dunque la fallace presunta innovatività della federazione tra Forza Italia e Lega (Nord) del senatore Salvini da Locri. Questa alleanza prospettica nulla aggiunge a una situazione fattuale di osmosi culturale, politica e ideologica tra le due forze, quel “forza-leghismo” declinato dall’abrasiva acuta penna di Edmondo Berselli. Le sovrapposizioni tra Lega e Forza Italia sono di vario genere, ma poco dal punto di vista elettorale. 

Del resto per lo zoccolo duro leghista Berlusconi rappresenta la quintessenza dell’antileghismo, essendo un grande imprenditore (rispetto ai piccoli padroncini e lavoratori dipendenti), milanese (la città meneghina non è mai stata culla del leghismo concentrato nelle valli pre-alpine e nella bassa veneta), troppo legato ad ambienti romani. I flussi elettorali (si vedano i volumi di ITANES) indicano chiaramente pochi o nulli spostamenti tra le due aree, ad esclusione del periodo post-2008, ossia con la nascita del PDL che rappresenta un’opzione appetibile per una fetta di leghisti. Mentre assai maggiore è il dialogo elettorale tra Lega Nord e AN/FdI, ragion per cui Salvini teme Meloni in questa fase. Il personale politico viceversa ha sempre dialogato, sebbene con una certa circospezione soprattutto della componente istituzionale di Forza Italia spiazzata, ma non sempre conseguente, dalle esuberanze della prima linea leghista. Tra tutti basti ricordare Giulio Tremonti, eletto con la Lega Nord nel 2013 e in passato con Forza Italia. La natura di questa presunta alleanza sarebbe da un lato naturale, il corollario inevitabile di forze che mirano a rappresentare l’Italia della piccola borghesia. Tuttavia, l’incompatibilità è data sia dalla ontologica impossibilità di far convivere due leader al vertice di un partito, ma soprattutto per la presenza di una matrice liberale-laico-socialista (Brunetta, Cicchitto, Guzzanti, Gelmini, Carfagna) che – presumo – sarebbe a disagio con le truculente frequentazioni ed esternazioni della “Lega di Salvini”, solo minimamente ovattate dai corridoi ministeriali. 

Per anni la Lega Nord è stata in posizione ancillare rispetto alla tracotanza elettorale e di risorse ostentata da Forza Italia, tenuta a bada solo dal carisma bossiano, abile negoziatore e ricattatore di accordi. Il declino fisico del padre fondatore della Lega e la fanghiglia dei diamanti tanzaniani travolsero l’orizzonte dei “barbari sognanti” fino al tentativo di rianimazione salviniano per risuscitare il simulacro del nazionalismo padano edulcorato dall’acrimonia verso i migranti e diversi d’ogni risma. Il crepuscolo del magnate televisivo, privo del tocco che lo portò in sintonia con milioni di italiani smaniosi di vivere come il padrone e di casalinghe disperate e semi-analfabete, ha consentito alla Lega Nord sotto mentite spoglie “nazionali” di superare l’antico avversario. Plasticamente l’agognata egemonia leghista si manifestò durante le consultazioni quirinalizie per la formazione del governo Conte I, con Berlusconi ridotto a orpello giocoliere e Salvini impacciato nei panni di aspirante statista, ma ancora intriso del lezzo di goliardate da Caduta degli dei. 

La Lega Nord ha sempre avuto meno voti di Forza Italia (fino al 2018), ma non è stata altrettanto subalterna sul piano culturale e politico. Stante il suo insediamento territoriale, economico e sociale, l’importanza dei suoi parlamentari per governare e l’incidenza presso settori importanti del Nord, Bossi era in grado di agire sull’agenda del centro-destra e del governo. La legge sull’immigrazione reca il duplice cognome Bossi-Fini, ma è in realtà figlia del lavorio leghista e di anni di intemerate contro i “migranti” nazionali ed internazionali. Alla norma che regolava l’immigrazione, poi peggiorata in chiave suprematista e razzista dai “decreti Salvini”, si aggiunse anche l’imprimatur leghista alla revisione costituzionale del 2006 in senso “federale”, poi rigettata in sede referendaria (le uniche regioni in cui prevalse il Sì alla riforma furono appunto Lombardia e Veneto). E, infine, il costante anti-europeismo che non poco incise sulle posizioni dei governi conservatori e su un già refrattario Berlusconi. In questo tentativo di federazione l’anello debole è proprio Salvini e non Berlusconi, il cui capitale umano, finanziario e politico/elettorale permane e coincide con la sua stessa permanenza sul proscenio. Viceversa, Salvini prova goffamente ad uscire dall’ angolo, per sopravvivere, altro che annessione. 

Sfidato sull’ala destra dal revanchismo nazionalista di Meloni, e schiacciato al centro da un’acritica adesione alle politiche del governo Draghi, Salvini tenta una mossa dettata dal timore di rimanere isolato, e perciò esautorato, espulso dall’aula come un Franti riottoso. Da un lato coltiva legami con l’estrema destra europea e mondiale, per rimanere in scia qualora ci fosse un ritorno di fiamma populista se l’azione lenitiva del Recovery fund non producesse effetti calmieranti sulle disuguaglianze sociali ed economiche, dall’altro per rintuzzare le mire espansionistiche di Renzi, tentato dalla ghiotta occasione di raccogliere consensi della parte liberale, residua, di Forza Italia. La cui scomparsa nel mare magnum leghista sarebbe esiziale anche in chiave quirinalizia 2022 e per la strutturazione di una maggioranza “Ursula”, che metterebbe fuori gioco Salvini dacché il suo attivismo.

La confederazione (così l’avrebbero chiamata Miglio e Bossi) è l’ennesimo figlio della nidiata propagandistica del senatore Salvini abile nel distrarre masse disinteressate rispetto alle malefatte politiche e giudiziarie della Lega Nord recente. L’annuncio della nascita della “nuova” federazione forza-leghista è abbondantemente sovrastimato, quel grumo, quella alleanza politica, sociale e culturale esistono da un trentennio almeno. È una confederazione in cerca d’autore, ma non sarà il senatore milanese a guidarla.  

La Costituzione che verrà

Il mio editoriale per Il Corriere della Sera

Libertà. Democrazia. Questa la diade di concetti che ispirò e guidò il voto degli italiani il 2 giugno del 1946. Il referendum istituzionale sancì un passaggio costituzionale cruciale, dalla monarchia alla repubblica. Gli elettori non si pronunciarono sull’assetto istituzionale, ma votarono in larga misura per respingere il recente passato autoritario e la monarchia con le sue indegne complicità, e correità con il fascismo. È però sintomatico che l’Italia repubblicana nacque per via referendaria, un istituto di democrazia diretta, ma anche carico di contraddizioni, emotività. Una scelta compiuta per evitare che la tensione polarizzante si trasferisse nei lavori della Costituente investendo i partiti. Il voto palesò profonde differenze territoriali, una decisa frattura tra nord (maggioritariamente repubblicano, tranne due province) e sud (prevalentemente monarchico, tranne due province. A Bologna finì 54% vs 46% per la Repubblica. Per la prima volta votarono anche le donne, anche se qualche giornale titolò “ci moriamo di fame e pensiamo al voto alle donne”. La politica fu più dignitosa e ambiziosa.

Contemporaneamente il voto servì ad eleggere l’Assemblea costituente che lavorò per un anno e mezzo al testo costituzionale prima dell’approvazione finale. La Carta Magna della Repubblica italiana entrò in vigore il 1 gennaio del 1948: per inciso insieme al nuovo anno nei comuni italiani si potrebbe concepire un appuntamento fisso per celebrare la Carta. Le urne “costituenti” consegnarono anche il primato alla Democrazia cristiana, seguita dai socialisti (Psiup) e dal Pci, con questi ultimi due che concorreranno uniti nel 1948 (Fronte popolare) per poi vedere i comunisti prevalere, unico caso in Europa occidentale, sui fratelli maggiori socialisti sino al 1992.

Il “2 giugno”, la repubblica democratica, non esisterebbe e non sarebbe nata senza il “25 aprile”, senza la lotta partigiana, senza la guerra civile, senza la Liberazione dal nazi-fascismo. Quella data è l’anticamera, ma soprattutto la condizione indispensabile per discutere poi di “come” effettivamente organizzare l’assetto istituzionale (si sarebbe potuto anche optare per una monarchia parlamentare, come in Spagna, ma solo una volta ritrovate “libertà e democrazia”). In realtà, l’apertura democratica era iniziata il 25 luglio del 1943, con la caduta del fascismo, e l’ordine del giorno “Grandi” (che era bolognese) che sancì la destituzione del Duce, e che si protrasse fino al 18 aprile del 1948, giorno delle prime elezioni politiche democratiche. L’estensione temporale del processo costituente favorì un esito negoziale di compromesso, accentuando il consenso anche su punti dirimenti (articoli 1 e 7 in particolare) e divisivi sebbene sul versante governativo i partiti del Comitato di liberazione nazionale si separarono con l’incombere della Guerra fredda che spinse De Gasperi a espungere i comunisti dall’esecutivo a seguito dell’accordo sul piano Marshall.

Il dibattito, nel c.d. comitato dei 75, e in Assemblea con lo scontro ideale tra i principali partiti e leader ha reso possibile l’approvazione di un testo moderno, lungimirante, innovativo e per diversi aspetti rivoluzionario. I principi fondamentale (primi 12 articoli) permangono somma garanzia, tutela e promozione dei diritti del cittadino, e delle persone sia quanto individui che in associazione.

Tra tutti gli articolo ho a cuore l’articolo 3, compendio di rispetto, riconoscimento e azioni per rimuovere gli ostacoli che vanifichino i principi di uguaglianza. Una Costituzione “bella”, certamente, ma non immodificabile, e da riformare, da aggiornare in talune parti, dal processo legislativo e rappresentativo al rapporto tra centro e periferia (Titolo V) ed evitando il rischio della torsione comunitarista.

Per molti aspetti oggi, ancora, direbbe Piero Calamandrei, la Costituzione “non è attuata”. Rimangono aree da tutelare, diritti da garantire, ostacoli da rimuovere, disuguaglianze da eliminare. Nuove e vecchie ingiustizie da combattere. Negli occhi dei migranti, nella dignità violata negata di troppi lavoratori, nel volto di bimbi cadaveri sulle spiagge dove peregrinava Enea, nei soprusi del potere, nelle raccomandazioni, nei traffici di rifiuti, nell’istruzione per pochi, nella negazione dell’accesso alla sanità pubblica … Ovunque ci sia una violazione dei diritti ci sarà la Costituzione. Ché i principi costituzionali, frutto di lotte, di sangue e di ideali, vivono sulle gambe, nella mente e nel cuore dei suoi cittadini. La Repubblica, tramite, la Costituzione, è un ideale da perseguire e – ancora Calamandrei – un “programma” da attuare. Buona Festa della Repubblica!

Monta la marea nera

Il mio editoriale per Il Riformista

Enrico Berlinguer e Aldo Moro progettarono, sognarono, una democrazia della competizione e non della segregazione. In cui l’alternanza al governo fosse fisiologica, risultante del comportamento di voto e non della separazione ideologica e degli schieramenti intangibili. Il tutto in un contesto internazionale bipolare che poneva l’Italia in condizione di discutere le forme di tale appartenenza, ma non la sua collocazione nello spazio occidentale, come deciso a Yalta. Con l’avvio della “terza fase” e l’avvicinamento e la normalizzazione dei rapporti con il Pci, la Democrazia cristiana era finalmente «liberata dalla necessità di governare a tutti i costi», come disse Aldo Moro. Mutatis mutandis, dopo quarantacinque anni è quanto accade al centro-sinistra, e in particolare al Partito democratico in un Paese con una democrazia ancora monca, avendo un polo non (auto)escluso, ma ampliamente illiberale. La similitudine con il concetto moroteo è emersa riecheggiando nelle parole di Enrico Letta insediandosi al Nazareno. Con una destra a trazione estrema il sistema è inceppato, il Pd “obbligato” a governare, a supplire, a sostituire, a garantire continuità e stabilità. Tant’è che in questa legislatura abbiamo avuto quasi tutte le combinazioni di coalizione che nemmeno in un manuale di scienza politica. E tutto ciò è dannoso per l’intero sistema. E alimenta il populismo, ieri di matrice grillina, domani con tinte nere. 

La destra italiana è ancora largamente e maggioritariamente immatura, illiberale, di estrema destra. Non ha compiuto i passaggi indispensabili per porsi quale forza “normale” del panorama politico nazionale e nel contesto dell’Unione europea. Che rappresenta per l’asse nero-verde la croce e la delizia delle alterne fortune politiche ed elettorali. 

La Lega (Nord) è rimasta impantanata non solo nel fango della pianura padana quanto a insediamento elettorale e soprattutto sociale, ma ha anche dovuto subire una torsione verso l’estrema destra per assecondare i desiderata del nuovo segretario. Il senatore Matteo Salvini ha infatti sottoposto il partito a una rapida seduta di trucco provando a dargli sembianze meno tribali, e enfatizzando una prospettiva nazionale in chiave e funzione anti-immigrati. In questa operazione ha imbarcato il sostegno, esplicito politicamente e culturalmente, delle scorie settarie fasciste del movimentismo violento (da Casapound in giù). La componente identitaria e regionalista del partito, quella filogovernativa – la Lega Nord ha partecipato al Governo per dodici degli ultimi 24 anni – ha vinto la contesa per il sostegno all’esecutivo Draghi, ma è ostaggio del sen. Salvini, sul piano culturale ma soprattutto su quello elettorale. Senza il truce politico di carriera la Lega (Nord) avrebbe ancora meno voti di quelli declamati dai sondaggi recenti, ma al contempo è bloccata verso una possibile transizione di partito conservatore su basi locali, simile alla Csu bavarese, esempio pure chiaramente indicato da esponenti della prima ora come Roberto Maroni. 

La via alla costruzione di un partito nazionale è stata percorsa solo come tour enogastronomico utile a far scordare alle plebi le ignominiose azioni, intenzioni e dichiarazioni dello stesso senatore e dell’intero apparato, da sempre razzista verso il sud. Facezie prêt-à-porter sui social network di fianco a derrate di cibi, ma il sud prontamente escluso dalla distribuzione del recovery fund che nelle intenzioni della Lega Nord serve solo a ripagare i padroncini e i padroni delle ferriere del Nord. Un partito, del nord, dal nord e per il nord. Alla favoletta nazionale crede ormai solo qualche pennivendolo o poche migliaia di disperati, anche perché non v’è più traccia dei comizi sbraitanti nelle regioni del Sud contro le presunte invasioni di migranti. Resta il nazionalismo, sempre in chiave territoriale, ossia sub-nazionale. Identità finto celtica, nazione padana inesistente e politiche ultraconservatrici. Difesa dei privilegi e nessuna spinta alla lotta alle disuguaglianze sull’asse economico, sbandamenti teorici e strategici in politica estera, perseguita senza alcuna bussola geopolitica, ma piuttosto condotta su basi spontaneiste e di opportunità. Le peregrinazioni del senatore Salvini da Locri hanno toccato i vari angoli del globo in una geografia diplomatica volta a rafforzare il precario controllo sul partito, sulla base, per evitare di essere definitivamente disarcionato dalla Lega ministeriale e industrialista. Per mostrare i muscoli in patria Salvini incontra il gotha dell’estremismo di destra, da Le Pen a Orban, da Kaczyński, da Bolsonaro a Trump, fino alla penisola Iberica con le proposte neo-franchiste di Vox e i portoghesi di Chega, senza scordare il rinnegato Putin e il nazionalismo sionista di Netanyahu e le simpatie per Alba Dorata. Un frullatore incoerente e che è anni luce distante dalla Lega Nord, posto che i primi – con vari livelli di differenziazione – perseguono un nazionalismo della patria, mentre Salvini è solo il portavoce della componente governista di un partito regionale. La Lega è il sindacato di base della classe media/alta del triangolo lombardo-veneto-friulano.  

Fratelli d’Italia punta decisamente ad ammaliare le casalinghe disperate, il ceto medio impoverito, gli elettori meridionali circuiti dalle sirene leghiste e del M5s, scordati dal Pd romanocentrico. Il partito guidato da Giorgia Meloni, e inebriato da rilevazioni demoscopiche che misurano la popolarità e solo in parte le intenzioni di voto a due anni dalle urne, continua a sovrapporre la riconoscibilità del leader con la reale forza politica. E, pertanto, non si cruccia di condurre una profonda, radicale, decisa e definitiva revisione delle coordinate ideologiche rimanendo ben piantata nel solco della destra post-fascista. L’unica difesa di FdI è il mantra che le ideologie non esisterebbero e che andrebbero valutati i programmi. Uno scaltro escamotage, non nuovo peraltro, che mira a rilanciare evitando di affrontare le questioni dirimenti. Tuttavia, il filo rosso programmatico del partito è interamente dedicato alla chiusura sui diritti civili, al nazionalismo identitario, il tutto ribadito con toni apodittici sulla società globale, la denuncia del dominio plutocratico e le ambiguità sulle libertà di culto, e ovviamente le barricate contro le migrazioni. E decine di esponenti che non lesinano, impuniti, simpatie e apologie del ventennio ancora presenti finanche nel simbolo elettorale. La permanenza nel gruppo Conservatori e riformisti, un ossimoro concettuale, serve solo a distogliere semanticamente l’attenzione dalla sostanza, ché è composto da partiti di chiara ispirazione neo-patriottica, religiosa, nazionalista, tradizionalista e reazionaria. Gli atti sono conseguenti, come il voto contro la risoluzione europea a condanna di ogni forma di violenza, razzismo e odio, e le reiterate posizioni contro “l’ideologia” gender. 

La Destra italiana, come direbbe Juan Linz, è pervasa da una “mentalità” autoritaria, ossia di una ideologia vaga, confusa, di una linea prevalente fatta di un espresso riferimento alla triade Dio, patria e famiglia. Ove ciascuno dei termini è declinato secondo un chiaro indirizzo a base escludente: dio cattolico, patria e ius sanguinis, e famiglia da pubblicità per biscotti. 

L’asse si è spostato decisamente a destra, sull’estrema destra, anche per la scomparsa di Forza Italia dotata di una solida struttura liberale, che spesso pativa sotto le manovre scomposte e azzardate di Berlusconi, ma che riusciva a contenere proprio grazie a un’ossatura moderata e anche ad innesti di individualità di provenienza democristiana, socialista e libertaria. 

La destra italiana oggi è dominata da una ideologia del culto della persona/lità che repelle il dibattito, il confronto e la costruzione delle idee. Che pure potrebbero arrivare da vari esponenti che orbitano attorno al duo Melo-Salvini, troppo chini su sé stessi, tuttavia. Nessuna Scuola di Chicago, nessun approccio neocon, non la rivisitazione delle politiche conservatrici di Reagan/Thatcher o del popolarismo di Kohl, della destra di Sarkozy o Aznar, e nemmeno il disegno neo-repubblicano di G. Bush. Piuttosto le lodi acritiche per un nuovo protagonismo americano sull’onda del post “11 settembre” à la W. Bush o del nazionalismo isolazionista di Trump. E, come, nota permanente il nazionalismo anti-EU, surrettiziamente mascherato dalla sussidiarietà, mentre il vero obiettivo è tornare al 1945.  

Un conservatorismo caritatevole e popolare solo nella propaganda, mentre nei fatti il grande capitale rimane un solido alleato, e il racconto della difesa del popolo trova molte specificazioni e sottogruppi allorché ci si allontani dall’ideale del maschio bianco. 

A suffragare questa dinamica, questa analisi, esistono messi di dati, pubblicazioni scientifiche nonché auto-dichiarazioni di esponenti leghisti e di FdI sempre meno a disagio nel palesare intenti fascistoidi ed estremisti.

La Lega Nord e Fratelli d’Italia non hanno compiuto nessuno degli atti politici, intellettuali e organizzativi prodromici al passaggio verso una formazione moderna, conservatrice. Ma, il fato e gli dèi sono magnanimi, posto che in Italia quasi nessuno li considera illiberali; pochi ritengono anomalo che stiano al governo (nel 1999 levate di scudi in tutta Europa per l’accesso al rango ministeriale del partito di Jorge Haider in Austria): altra Europa, altri tempi.

Bologna come Parigi

Il mio editoriale per il Corriere di Bologna

Bologna per me provinciale Parigi minore”. Così il Maestro Francesco Guccini definiva la città adottiva. Parimenti, le primarie del PD (centro-sinistra) somigliano alla politica francese, almeno nell’atteggiamento dei due candidati, nella maniera in cui stanno conducendo la campagna elettorale in queste settimane. Matteo Lepore somiglia a François Mitterrand, mentre Isabella Conti ricorda il percorso di Emmanuel Macron. Entrambi eletti Presidenti della Repubblica, con strategie asimmetriche, ambedue vincenti, in contesti di rinnovamento del sistema. Di passaggio di fase. 

Considero, come scritto, le primarie quali primo turno della competizione autunnale, e in parte anche il ballottaggio, a meno che il centro-destra non dimostri capacità eclettiche nell’ultimo miglio, o il centrosinistra imbocchi la strada fratricida. In questa dinamica Lepore sta giocando una partita molto identitaria, che rimarca i confini politici dello schieramento – ideologico e partitico – che lo sostiene. Richiama la Storia della città, della sinistra, i suoi valori e le sue prospettive. Senza arroganza, ma con tranquillità, a volte sfociando in eccessiva fiducia nel proprio campo. Sta operando un richiamo alla mobilitazione, alla fierezza della tradizione, del buongoverno, con temi “tipici” della socialdemocrazia, dai diritti, all’ambiente, al lavoro. Punta cioè a vincere invitando tutto il bacino progressista a votare il 20 giugno per sancire immediatamente un’affermazione definitiva. La Force tranquille che evoca – non sempre seguita nella filosofia da taluni pasdaran troppo facinorosi – potrebbe essere la carta vincente, ma considerando adeguatamente la seconda parte del match, ossia l’eventuale ballottaggio autunnale. Anche Mitterrand puntava a mobilitare i “suoi” al primo turno, mostrandosi come candidato di partito, per poi presentarsi “presidenziale” al duello finale, dovendo giocoforza ampliare l’area di riferimento per giungere all’Eliseo. Sapeva cioè, come scrisse e disse, che il “serbatoio” a sinistra – allora il PCF – era ormai quasi svuotato e, dunque, dovesse per forza aprire, non a singole sigle, ma all’intera Francia. Lepore punta a giungere in testa senza “compromessi”. 

La candidata Conti pare stia conducendo una campagna che genera una dinamica uguale e contraria. Evoca i tratti di concorrente indipendente, slegata dai partiti, di amministratrice capace e innovatrice, competente e decisionista. In grado di guidare la macchina organizzativa di Palazzo d’Accurso senza negoziati, senza le temperie dei partiti, con piglio innovatore e moderno. Ricorda la discesa in campo di Macron che sfidò l’establishment socialista di cui prosciugò le traballanti basi elettorali ed organizzative. Conti mira a disegnare un campo largo senza l’ingombro dei partiti, senza l’impiccio delle sigle politiche e, sempre come Macron, si rivolge a tutti sin dal primo turno. Ha intravisto la opportunità di scardinare il sistema partitico e di farlo invocando l’appoggio dei cittadini-elettori in quanto tali, senza etichette politiche. Con scivolate in richiami populisti. In qualche misura, Conti è, tecnicamente e in forma avalutativa, una candidatura antisistema, intesa a disarcionare il gruppo che amministra la città da due lustri. È però trattenuta dall’infliggere il colpo finale perché ha nel suo ricco pedigree una solida esperienza politica-partitica, e il sostegno del candidato vice Alberto Aitini, e di ampi settori democratici. Non c’è soltanto la recente militanza in Italia viva, e soprattutto nel PD, ma anche l’attivismo nei Democratici di sinistra, che essa stessa spesso rivendica per scacciare insinuanti attacchi su sua deriva destrorsa. Conti, proprio insieme a Lepore, era nella segreteria provinciale dei giovani DS. Ergo, chiuderei la diatriba sul punto. Lepore non mi pare uno stalinista né Conti una sprovveduta parvenue.  

In tutto questo i temi, gli argomenti, si stanno pericolosamente eclissando sebbene presentati dai candidati, ma sommersi dal rumore di fondo della diatriba, degli ultras, dello scenario di guerra interna. In cui si è insinuato recentemente un altro scontro latente, ma permanente in città, quello tra Ascom e mondo cooperativo. Mentre la città ha bisogno di crescita economica, di sicurezza fisica e sociale, di cultura e visione. Gli sfidanti possono essere artefici di una presenza maggiore di Bologna in Europa. 

Lepore affronta le primarie/primo turno come fossero l’antipasto dell’incoronazione, rivolgendosi ai “suoi”, per fare il pieno di consensi di “sinistra”. Conti gioca la competizione interna come se si trattasse del ballottaggio delle vere elezioni comunali appellandosi ai bolognesi e per svuotare il bacino del malumore piddino. Chi la spunterà, dunque? 

Due strategie opposte, entrambe potenzialmente vincenti. La chiave di volta sarà la partecipazione elettorale. Tutto dipenderà infatti da quanti saranno coloro che andranno alle urne (virtuali o reali), e da quali profili avranno gli elettori mobilitati nella vigilia d’estate.