Senza la destra

Il mio editoriale per il Corriere della Sera-Corriere di Bologna

«Cavallo scosso». Di primo acchito la Destra partitica di Bologna è simile agli equini in corsa al Palio di Siena che hanno appena disarcionato il fantino e corrono solitari verso la metà, spinti più dalle urla e dalla paura della folla che per una pianificata azione di competizione ippica. In realtà questa fascinosa abusata metafora non rispetta completamente le condizioni in cui versa la destra bolognese, ed emiliano-romagnola in genere. Non ha perduto per un accidente della storia il proprio leader/fantino, semplicemente non lo ha allevato, ne è priva e perciò si affida al caso. Al fato, alla casualità, all’errore dell’avversario, a congiunture astrali che non sempre si verificano.

A tre mesi dalle elezioni amministrative ancora non è all’orizzonte nessun profilo di candidato semplicemente perché in questi anni la destra si è comodamente adagiata sulla condizione di opposizione, confidando in una redistribuzione dei consensi derivante dal crescere della popolarità di Berlusconi prima, del senatore di Locri dopo, e infine sperando nell’exploit di Meloni. Di cui in città esistono diversi epigoni e sostenitori, incapaci però di progettare – questo dice la realtà storica – una proposta alternativa al centro-sinistra, con cui hanno provato a convivere, talvolta in maniera consociativa, ma mai aprendo una sfida serrata, franca, programmata. Il 1999 fu un incidente nella storia della città – in più Guazzaloca non era di destra – e non si ripeterà nel breve, perché l’alternanza non si improvvisa, va costruita coltivando l’alternativa, di cui negli ultimi lustri non si è vista traccia. Un po’ come fece per anni il centro-sinistra a Milano che giungeva agli appuntamenti senza capo (né coda) e confidava che il candidato estratto quasi a sorte compisse il movimento divinatorio spalancando le porte del Municipio, prima di capire che fosse necessario gettare le basi per il cambiamento e intraprendesse il percorso di ascolto e costruzione della leadership con Pisapia. Sotto le Due Torri la destra non ha alcuna chance e lo dimostra il fatto che il candidato non sia ancora pronto non solo perché ci sono state le primarie del centro-sinistra, ma perché non ha nomi (e cognomi) autorevoli e competitivi da spendere che siano in grado di sfidare realmente Lepore. La candidata sfidante di Merola nel 2016 ha de facto lasciato Palazzo d’Accursio e non si è posta come guida dell’opposizione né in Consiglio né in città, tantomeno a capo della coalizione. Analogamente non è emerso nessun disegno complessivo di costruzione di progettualità, ma singoli che hanno talvolta criticato su aspetti puntuali l’amministrazione uscente ovvero hanno presidiato Bologna quali reggenti locali dei rispettivi referenti nazionali.

Abituati alle prebende padronali della destra conservatrice derivanti dalla guida del Cavaliere, il centro-destra locale non riesce a proporre un progetto realmente intraprendente, tale da mettere in discussione il PD. I rapporti di forza elettorali in campo lasciano poco spazio e residue velleitarie prospettive immediate, tanto da indurre ad un comprensibile attendismo sebbene infruttuoso. Tuttavia, per vincere in futuro la Destra dovrebbe iniziare a scavare sin da ora. Mettendo sul tavolo idee, proposte, e risposte, senza indulgere in tatticismo.

L’impasse in cui si trova per indolenza il centro-destra non è congiunturale, ma storico, cronicizzato. La sfida Lepore-Conti è stata solo un alibi, ché una forza sfidante avrebbe dovuto avere in carniere una contromossa matura da mesi, forse anni. Il candidato – chiunque – che arriverà nei prossimi giorni sarà comunque un ripiego, poiché non figlio di un progetto lungimirante, ma un cappello poggiato su una seggiola per segnare il posto. L’inezia della destra rende ineluttabile, e perciò negativa, l’egemonia del centro-sinistra/PD. L’assenza di competizione degenera e produce conseguenze negative per l’intera città; per il centro-sinistra che non si sfidato si crogiola, vanesio talvolta, egocentrico, e per il centro-destra che non in grado di con-vincere declama diversità, si autocommisera, ma rimane trincerato nella ridotta personalistica di pochi peones locali. Orfana del Cavaliere, la destra di Bologna dovrebbe quantomeno tentare almeno a racimolare un fantino. Proponendogli un percorso. 

Partito padronale

Il mio editoriale per Il Domani

Conte dovrà se soumettre oppure se démettre. Il Movimento 5 stelle è un partito. E come tale soggiace alla “legge ferrea dell’oligarchia”. La fase movimentista embrionale è durata lo spazio dell’infantilismo ribellista culminata negli strepiti belluini contro il Capo dello Stato nel post voto 2018. La genetica del partito è palesemente intrisa di paternalismo mascolino, di preponderante cultura padronale e personalista. Il partito M5s è una formazione politica di tipo carismatico-cesarista e privatistico, dove prevale il tratto centralizzatore e non democratico tipico dei regimi autoritari. La diade Casaleggio-Grillo ha repentinamente annichilito le residuale istanze di democrazia diretta e di partecipazione diffusa. Il sol dell’avvenire dell’uguaglianza, sintetizzata nel motto da combattimento e di motivazione delle truppe, è stato avviluppato dalla gestione aziendale fattane dal connubio tra interessi privati di una società di comunicazione e le redini saldamente in mano ad un solo individuo. Il combinato disposto tra gli scopi commerciali e quelli personali ha segnato le sorti del qualunquismo italiano degli ultimi tre lustri. La gestione tecnocratica, la disinvolta incompetenza propalata quale virtù e la personalizzazione ossessiva hanno contribuito a minare le già gracili gambe della politica italiana. La perenne nota anti-intellettuale, la sfiducia, l’odio sociale, la cultura del sospetto e la criminalizzazione hanno reso evidente che i sogni utopisti di alcuni fondatori dei “movimenti” alla base del futuro M5s erano stati tacitati nella culla di una forza politica reazionaria. Spesso definita populista, ma decisamente qualunquista che ha allevato e coltivato le pulsioni anti-democratiche e anti-istituzionali tipiche del ribellismo provinciale e pre-politico. Nel M5s convivono, fagocitate dal magnate della comunicazione e dalle intemerate istrioniche del padrone, atteggiamenti sinceramente “rivoluzionari”, sempre più isolati in una base sincera ma disillusa, e tratti movimentisti da camicie nere, da squadracce del Ventennio incluso ricorso al manganello pre-giudiziario e all’asprezza rude, velleitaria e gratuita dell’invettiva a mezzo social network. Permangono illusioni e ignoranza, mutuamente alimentate, che non si tratti di un partito e che se mai lo fosse, semmai lo divenisse, sarebbe comunque altro e altèro, distante e distinto rispetto alla “casta”, ai manigoldi che siedono ogni dove come propaganda “grillina” disegnata nella manichea visione noi/buoni vs loro/corrotti.  Il non partito, il non statuto, il popolo al governo, la rivoluzione incruenta, l’onniscienza individuale e lo spirito di gruppo … Intuizioni commerciali, suggestioni, infatuazioni per modelli privi di contenuto, slogan vuoti, frasi ad effetto, schermaglie accattivanti per celare il non-pensiero, condito da efficaci proposte ad ampio spettro di ricevibilità sociale. Proposte per palati non troppo raffinati. L’infatuazione, che ha però seminato proseliti, ha colpito molti, anche tra (ex) intellettuali, artisti, pensatori della sinistra malandata di un Paese senza memoria, è stato un tratto trascinante del voto per il M5s. Un voto nec spe nec metu, senza speranza e senza timore. Alla giornata, un arrembaggio senza pianificare gli insediamenti, una conquista senza ricordare gli approvvigionamenti e la logistica, oltre che la logica, per amministrare il nuovo territorio. Giunti sulla “Luna” gli esponenti del M5s hanno palesato l’inettitudine degli assalitori della Bastiglia che senza l’élite tanto detestata e vituperata sarebbero stati rinchiusi nelle patrie galere e sedati nel sangue. Il M5s ha anche fatto ricorso a un sedicente autoproclamato avvocato del popolo, quasi non ci fosse la Costituzione a tutelarne i diritti e i doveri, che ha immaginato di domare il “Palazzo” con eloquio furbesco e collodiano senza rischiare l’osso del collo come il più celebre Maximilien. Il Presidente Conte non è un prestanome. Ma lo è stato, sin dal discorso parlamentare di Montecitorio recitato con ausilio di gobbo avendo smarrito lo spartito. Ha governato con spigliatezza con Salvini, con il PD, ha mitigato la carica anti-istituzionale e antieuropea che ancora cova nella base, e ha negoziato un’uscita di scena decente con Draghi. Il futuro potrebbe serbare soprese se facesse cambiare ancora la parte di M5s che lo segue.

Per capire e spiegare la presunta diatriba tra l’ex Presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il sig. Beppe Grillo è più meritevole studiare la storia patria, la politica italiana degli ultimi trent’anni almeno piuttosto che inseguire le agenzie di stampa degli ultimi quattordici secondi.  

Dove andranno, dunque, il M5s e Conte? Dove sono, da sempre. Nel mare magnum del qualunquismo, ché il populismo è un fenomeno ben più complicato. In questa prospettiva, le intemerate di Grillo non sono ascrivibili a tratti caratteriali, a cattiveria, irascibilità, arroganza e permali. Può darsi ci sia una componente personale, ma per capire le dinamiche del M5s meglio ricorrere al concetto di partito “carismatico” anziché a categorie pre-politiche. Grillo è padrone del partito, e in questo è molto simile a Berlusconi, più di quanto egli stesso assuma. Il partito non è scalabile e la leadership di Grillo non è in discussione, non lo è ontologicamente. Conte, per rimanere in analogia, è simile a Fini, senza partito, ma con molto consenso popolare. L’implosione non è scontata. 

Lepore-Conti. Condannati a dialogare

Il mio editoriale per il Corriere della Sera- Bologna

«Non mi dimenticherò». Matteo Lepore lo dice nel mezzo del discorso di ringraziamento la sera del 20 giugno, e la frase quasi scivola inosservata per i più. E invece è esattamente il contrario, la strada più difficile, quella meno sanguigna, quella meno ancestrale da percorrere. Lepore deve dimenticare i “suoi”, quelli che gli sono stati più vicino. Deve allontanare da sé quelli che sono più ultras, i facinorosi, gli adulatori, coloro che non vorrebbero fare prigionieri. E invece i prigionieri vanno rispettati e anche liberati e inclusi nella nuova costruzione della casa comune. Il giusto, legittimo, persino doveroso e comprensibile riconoscimento del lavoro svolto dagli alleati non può essere confuso con la necessità di travalicare confini della propria tribù. La pace normalmente la siglano i nemici. Lepore dovrà “tradire” i sodali, smarcarsi dai pasdaran, dai sedicenti e imbarazzanti guardiani della rivoluzione, per includere esponenti del mondo che ha sostenuto Isabella Conti.

Il nichilismo in politica conduce alle guerre fratricide e la propalazione di un solo verbo può essere esiziale, per tutti, ma soprattutto per i vincitori. Lepore ha reiteratamente dimostrato di essere un candidato, un politico, con molta testa, tutto raziocinio, con poche cessioni al sentimento. Il che è un bene. Ora è di fronte al dilemma del prigioniero, o meglio deve decidere cosa farne, se annichilirlo, escluderlo pretendendone lo scalpo, ovvero se includere per rafforzare la sua figura quale capo politico, potenziale sindaco e astro nascente della sinistra nazionale. Spesso dice di avere “memoria da partigiano”, ma quelle figure seppero anche “perdonare” pur senza dimenticare. Se prevalessero, se egli lascerà che prevalgano, i fanatici – spesso adulatori, di cui meglio diffidare in politica e nella vita ché sono sempre pronti a saltare da un vagone ad un altro al primo cambio di Luna – la sua sindacatura sarebbe grama, di breve respiro, di piccolo cabotaggio, ricatto perenne degli estremismi e degli isterismi di turno, a seconda del tema. La sua bella vittoria sarebbe offuscata e la sua azione di governo verrebbe catturata dai conservatori ululatori, pronti ad accusarlo di tradimento allorché dovesse, dovrà, inevitabilmente retrocedere rispetto ad alcune promesse e ad alcuni punti caratterizzanti del programma. Posto che la città si governa con l’intera società e per l’intera società e non solo per i militanti. Lepore è persona accorta e intelligente e credo/spero colga il rischio intrinseco in una operazione di settarismo se si lasciasse travolgere dagli umori dello staff e del comitato elettorale. Dovrà scontentare qualcuno di loro, ma se lo facesse sarebbe un bene per la città e per il suo governo.

Nelson Mandela neoeletto Presidente suscitò scandalo tra i neri prendendo tra le sue guardie del corpo uomini di pelle bianca, ma volle dare un segnale chiaro di pacificazione. Difficile, forse impraticabile, certamente complicato da gestire, un coinvolgimento diretto di Conti, ma Lepore per navigare a lungo e ragionare su una prospettiva decennale, dovrà evitare che i “suoi” azzannino la fiera ferita. Gli esecutivi nelle democrazie sono espressione del personale partitico, ed è quindi perfettamente coerente che gli incarichi, le posizioni di pregio e responsabilità, la rappresentanza siano allocate innanzitutto alle forze politiche che hanno sostenuto la sua candidatura, frutto di una scelta di campo. Non si tratta di cedere alle lusinghe dei “tecnici”, alle sirene del populismo accattone che rivendica l’uguaglianza delle incompetenze in nome della parità dei diritti individuali. I governanti e gli amministratori vanno selezionati all’interno della formazione politica di riferimento, e questa stessa può e deve farsi carico di attingere risorse dalle energie cittadine e della comunità, anche al dì fuori dei “militanti”. Lo snodo politico centrale è il peso, l’orientamento, la salienza che il candidato vincitore, e il probabile futuro sindaco, intenderà conferire alla propria azione di governo. Se ripiegata sugli allori dei transeunti fasti elettorali delle primarie, ovvero se intenderà guardare lontano, in una città pragmatica, laboriosa, colta, attiva e viva politicamente, ma sempre attenta alla forma ed ostile agli -ismi.

Dopo le primarie, si apre la partita vera

Editoriale per il Corriere della Sera ed. Bologna

Enrico Letta è più solido al comando del Partito democratico dopo il risultato delle primarie che hanno consacrato Matteo Lepore quale candidato sindaco di Bologna. Primarie locali con letture nazionali, dunque. La partita aveva un evidente, seppure negato da taluni, risvolto complessivo per il PD e per il centro-sinistra per diversi e concomitanti fattori. Il partito fondato da Veltroni nel 2007 recupera una boccata d’ossigeno, ma la vetta è ancora lontana, e il centro-sinistra sempre minoritario nel Paese. Il viatico che consegna in dote la vittoria di Lepore è importante, ma è una tappa. Le primarie hanno elementi che trascendono e travalicano i confini della Mura felsinee ed investono l’intero campo progressista e democratico. Alcuni segnali sono però chiari. 

Nonostante la prima calura da vigilia estiva, la frustrazione post-Covid, le periodiche iniezioni di panem et circenses calcistico, i cittadini di Bologna (e di Roma), o meglio una parte significativa degli elettori del PD e del centro-sinistra ha deciso di prendere parte al processo decisionale per individuare il loro candidato alla carica di primo cittadino. Il livello di partecipazione è stato buono, ma meno rilevante di quanto potesse far presagire uno scontro dai contorni e dai risultati incerti, certamente meno scontati delle precedenti occasioni analoghe. 

Il dato del 2021 è il secondo in termini di votanti (valore assoluto) dopo le primarie che consacrarono il sindaco uscente Merola, ma è il terzo quanto a capacità di ri-mobilitazione, ossia di abilità a intercettare elettori nel campo dei voti potenzialmente ascrivibili al PD-centrosinistra. Lepore e Conti hanno portato al voto poco più di un quarto (26.6%) del bacino elettorale di riferimento rispetto al 36% di Merola e al 29% di Delbono. In generale tutti i dati delle primarie per il sindaco hanno registrato in città valori di partecipazione meno solidi rispetto alle omologhe consultazioni per l’elezione diretta del segretario del partito o capo della coalizione, dal 2005 in poi. Allorché Romano Prodi vinse le primarie dell’Unione.

In realtà la partita è più complessa del solo dato della partecipazione elettorale. Esiste una dimensione territoriale multilivello. Il dato di Bologna non può ri-solvere i problemi della sinistra nazionale e, viceversa, il PD romano non potrà condizionare l’andamento di una città che per quanto simbolica e importante rimane “periferica” e decisiva solo nella sommatoria di una dinamica complessiva. Parlare di “modello Bologna” è prematuro, ancorché evocativo e suggestivo, rischia di mescolare piani analitici, di ridurre ad unum la complessità del Paese e indurre a letture ombelicali che non trovano riscontro fuori dalla tangenziale. Una maggiore sobrietà e più raziocinio rispetto a facili entusiasmi indurrebbero a fornire un’analisi del risultato di Bologna quale combinazione dell’azione del partito nazionale e, soprattutto, della intensa campagna di Lepore, ma senza andare oltre nell’inferenza. La storia recente della selezione del candidato all’interno del Pd/centro-sinistra è iniziata (male) nel 1999 ed è stata sempre caratterizzata da un esito scontato dal principio, e per principio. Ossia per incontestabilità delle scelte delle segreterie partitiche. Mai come nello scontro Conti-Lepore si pensava (non chi scrive) che la partita fosse aperta, non tanto in termini di esito finale, quanto nella natura della competizione. Che è stata vera, ossia non scontata, “sangue” incluso, come giustamente evocato dal Presidente Prodi. Comunque, c’è stata competizione reale. La presenza di Isabella Conti ha portato in dote un valore aggiunto, ha indotto tutti i partecipanti a rimettersi in discussione, a rilanciare, a limitare i vantaggi delle rendite di posizione, a sfidare anche sé stessi. Le primarie hanno fatto bene alle idee, alle persone e hanno anche conferito maggiore legittimità e legittimazione a Lepore, da oggi più forte e più indipendente, meno esposto alle critiche di chi voleva farne solo un candidato eterodiretto (Delbono non arrivò al 50% seppur sostenuto da quasi tutti i maggiorenti). La fila di persone davanti ai seggi è un balsamo per il PD e le sue emaciate finanze, è una spinta alla ri-mobilitazione, alla partecipazione politica in una fase storica di individualismo esasperato e di qualunquismo rampante e beota. La competizione ha ridato fiato alla politica, ai cittadini, ai candidati, ha fornito uno strumento per protestare, per proporre, per sentirsi parte, per evocare una comunità e per invocare l’unità futura prossima, se verrà. Non esagero scrivendo che la partecipazione politica fa bene alla Città intera, fa crescere l’intero indotto civico-culturale che è persino più importante di tutti gli indicatori economici immaginabili, da cui essi stessi discendono. Ha vinto Lepore, ha perso Conti. Entrambi hanno fatto vincere Bologna. Ha vinto la partecipazione, ha perso il disfattismo. Ha vinto la democrazia, ha perso il populismo. Ora si apre la partita vera (sul Corriere lo scriviamo da settembre scorso) in cui la prospettiva nazionale e quella delle amministrative si mescoleranno, come già accaduto dal 1993 in poi. Il PD dovrà insistere sulla strada del rinnovamento, includendo di più, con meno steccati, con meno settarismo, con più facce giovani di giovani, per incontrare il riformismo evocato da quasi tutti i segretari nazionali da Veltroni fino a Letta. Ed essere vero perno del campo riformista e riformatore del Paese. 

Bologna c’è, con il suo consolidato civismo e l’amore per la politica che in fondo sono l’amore per sé stessa e per quelli che da molti secoli la scelgono.