Francesco Cossiga: il più giovane al Colle

Il mio editoriale per il Domani parte di una serie di approfondimenti dedicati ai Presidenti della Repubblica

Presidente del Senato, Presidente del Consiglio dei Ministri, e infine Presidente della Repubblica. Francesco Maurizio Cossiga è l’unico politico italiano ad avere accumulato le più importanti cariche politiche ed istituzionali. Il 24 giugno del 1985 è eletto alla più alta carica dello Stato, proprio mentre da Presidente del Senato prende direttamente parte alla gestione dell’elezione insieme alla Presidente della Camera Nilde Iotti. Politico di razza, politico di carriera, democristiano di ferro, come duro fu da ministro dell’Interno, tanto da meritare la K come prima sillaba del cognome, e le doppie “esse” con caratteri runici in stile nazista, affibbiategli dalla sinistra extra-parlamentare e dai movimenti, con i quali non ebbe momenti idilliaci. Una vita politica all’apice delle istituzioni politiche e repubblicane, sempre sull’ottovolante, in un percorso intriso di verve politica, di inclinazione e vis polemica, determinate dalla natura politica, dalle sue idee, e ideologia, ma anche dal contesto storico. Nazionale e internazionale, che non sono un alibi, ma un fatto con cui fare i conti. Al Viminale Cossiga arriva nell’anno delle elezioni del mancato “sorpasso”, nel 1976, e nel momento di maggiore spinta propulsiva del nemico comunista. Sono due anni intensissimi, e tragicamente fatali per la società italiana. Gli anni Settanta, gli anni del piombo rosso/nero, diversi, opposti e letalmente simili. Nell’ultimo tratto di un portico, nel centro storico di Bologna, uno studente e militante di Lotta Continua, a margine di scontri e manifestazioni viene ucciso dai colpi di Beretta esplosi da un giovane carabiniere. Pierfrancesco Lorusso ha soli venticinque anni. Per domare i disordini dei giorni seguenti Cossiga invia i blindati, diranno alcuni, carrarmati di cartoni, diranno altri. Giorgiana Masi è invece una giovane manifestante radicale che partecipa a una manifestazione dei Radicali, indetta proprio a seguito del divieto di Cossiga di tenere cortei. La foto dell’agente in borghese, pistola in pugno, e gli strali di Pannella che invocano la correità morale del ministro democristiano che “giustifica” metodi forti in un contesto di grave tensione. Cossiga ha uno stile al contempo istituzionale e sopra le righe, un po’ funzionario di partito, un po’ guascone, da sempre. Con un curriculum politico così denso e intenso gli errori, le gaffes, i problemi sono un rischio probabilistico, calcolato. Ma Cossiga ha anche una sorta di naturale attitudine al conflitto, alla tenzone. Al recitare al di fuori degli schemi, per indole. Era Capo del Governo quando gli venne notificata l’accusa di avere informato Carlo Donat Cattin, vicesegretario dello Scudo crociato, che il proprio figlio fosse ricercato in quanto militante di Lotta continua e per talune azioni militari. Con la ruvida schiettezza comunista Enrico Berlinguer gli comunicò che il PCI avrebbe votato la procedura per la sua messa in stato di accusa. Erano gli anni di piombo, per tutti. E Cossiga manifestò sempre il suo pensiero rimanendo in trincea, con posizioni certamente scomode, franche, e talvolta assai discutibili. 

Leggi tutto “Francesco Cossiga: il più giovane al Colle”

Sandro Pertini, elegante presidente partigiano e “antisistema”

Il mio editoriale per il Domani parte di una serie di approfondimenti dedicati ai Presidenti della Repubblica

Quando termina il settennato presidenziale, nel 1985, alcuni vorrebbero riproporlo per il secondo mandato stante la sua popolarità, ma il Capo dello Stato ha ottantotto anni e, soprattutto, c’è l’alternanza al Quirinale con la DC da rispettare. Il PSI, di cui è figura storica e carismatica, ha infatti espresso anche il capo del Governo con Bettino Craxi e la Balena bianca sempre in ansia per le cariche da distribuire tra le sue fameliche correnti, scalpita. Sandro Pertini ha avuto una vita intensa sul piano personale e politico. Lo fecero evadere dal carcere di Regina Coeli dove i fascisti lo avevano recluso e probabilmente passato per le armi se non fosse fuggito prima, insieme a un altro socialista e futuro Presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat. Condannato al confino a Ventotene per attività antifascista sarà uno dei principali capi della Liberazione, componente del Comitato Liberazione Nazionale (alta Italia), colui che proclamò, sollecitò, alla radio l’insurrezione e lo sciopero generale il 25 aprile del 1945. Esule prima in Francia, insieme a Turati, C. Rosselli, Parri fu animatore della Resistenza e si batté perché Mussolini non fosse consegnato agli Alleati, ma fosse arrestato e condannato a morte. Tra l’altro un incontro fortuito tra il Duce e il futuro Capo dello Stato si ebbe a Milano, allorché l’uno entrante l’altro uscente si avvicendavano in una riunione dove Mussolini intendeva negoziare la resa. Direttore dell’Avanti!, entra all’Assemblea Costituente, e si oppone al modo in cui l’amnistia togliattiana è applicata lasciando ampi margini di riciclaggio repubblicani a seguaci del fascismo repubblichino. Ostile anche alla “svolta di Salerno” del Migliore. Lottatore per l’indipendenza socialista, e per la sua unità, si prodiga instancabile per evitare divisioni, lacerazioni e frammentazioni. Memore certamente della scellerata contrapposizione degli anni Venti che porta, o meglio favorisce, l’ascesa di Mussolini e il consolidamento della dittatura. Pur nella diversità, e nel perseguimento di una alternativa rivoluzionaria di matrice non leninista, ha sempre tentato di lavorare per l’unità “delle sinistre”. La scissione di Palazzo Barberini, e la nascita del PSLI-PSDI trovò in Pertini un fiero oppositore e paziente negoziatore e mediatore seppure sconfitto, infine. 

Leggi tutto “Sandro Pertini, elegante presidente partigiano e “antisistema””

La difficile presidenza di Leone tra terrorismo e scandali

Il mio editoriale per il Domani parte di una serie di approfondimenti dedicati ai Presidenti della Repubblica

«Fuori Rossi o a morte Sossi!» Lo slogan con cui nel 1974 le Brigate rosse debuttano in società rapendo il procuratore di Genova segna gli anni Settanta, la Storia d’Italia. E inevitabilmente il settennato presidenziale di Giovanni Leone, eletto nel 1971. Il candidato (pre) destinato al Colle era Aldo Moro, in competizione con Amintore Fanfani, ma le trame correntizie gli furono ostili, anche per le simpatie tattiche delle sinistre (la sera prima dello scrutinio definitivo Berlinguer annunciò a Moro il sostegno del PCI), e i voti necessari andarono su Leone. Il quale visse proprio la tra la tenaglia brigatista e neofascista e la necessità istituzionale, in anni di tensione e terrore terrorista. Il procuratore Sossi verrà liberato e l’Italia vivrà il ricatto infame della negoziazione di ostaggi. Tragica pratica di diplomazia della paura che Leone sperimentò direttamente sul finire del mandato con il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro. Per il quale nessuna, vera, efficace trattativa si sostanziò, mentre per Sossi si avviarono dei canali di interlocuzione, osteggiati dal procuratore Coco, per questo ucciso dai brigatisti due anni dopo.

Leggi tutto “La difficile presidenza di Leone tra terrorismo e scandali”

La fortezza Bastiani di Matteo Lepore

Editoriale per il Corriere di Bologna-Corriere della Sera

Giovanni B. Drogo, è il sottotenente che non vide mai i nemici giungere alle porte della fortezza Bastiani e ne ricavò frustrazione e prostrazione per un confronto bellicoso tanto agognato quanto inutilmente atteso. La Destra, come scritto, è ancora in panne e Matteo Lepore ha appena ricevuto da Enrico Letta in visita in città l’ennesimo endorsement, che è anche un auspicio che suona però come una profezia: “Lepore è imbattibile”. La scaramanzia non c’entra, e i dati sono inequivocabili e cinicamente schietti.

Il punto politico è che qualora fosse eletto sindaco, come plausibile ritenere, Lepore avrebbe di fronte la peggiore consiliatura possibile e uno scenario da guerra fratricida. In assenza di una opposizione in grado di sfidare prima del voto e di presentare un capo che costruisca le basi per l’alternativa e l’alternanza (come del resto, in parte, nel caso di Virginio Merola), l’intera posta del conflitto si trasferirebbe/trasferirà all’interno del centro-sinistra. Che già storicamente non brilla per unità. In mancanza di una forza competitiva Lepore non potrebbe invitare i suoi a serrare le fila per evitare di cedere il passo all’avversario su questioni delicate e divisive o su scelte cruciali per la città. Il vuoto di avversari implica una “condanna” a governare per le forze del centro-sinistra che si sentirebbero deresponsabilizzate e quindi potrebbero alzare il tiro, avanzare proposte “ideologiche” al solo fine di rimarcare la propria identità e rassicurare la base di riferimento. Sarebbero cioè indotte a spingere l’agenda municipale in direzione di politiche “simboliche”, proprio per consolidare il recinto elettorale. Il rischio è un compromesso al ribasso, una sorta di manuale Cencelli della redistribuzione di piccole parcelle politiche a ciascuno dei sostenitori, senza riportare l’afflato universalistico e ambizioso che a tratti Lepore ha presentato in campagna elettorale sinora. Con una maggioranza consiliare che per il centro-sinistra potrebbe raggiungere cifre inedite, il negoziato, e il conflitto si trasferirebbero quasi interamente all’interno delle forze progressiste. Lo scenario per nulla improbabile è quello di un sindaco in balia di bande interne al Partito democratico nonché dei (troppi) partiti alleati della coalizione, i cui confini appaiono ancora troppo flessuosi. Inoltre, senza o con poca disciplina nei partiti, e dunque in Assemblea, il rischio sarebbe la palude, con continue minacce, ricatti ed estenuanti negoziazioni. In aggiunta si potrebbe avere quale prospettiva, solo parzialmente alternativa alla prima, lo svuotamento della Galleria dei Senatori con un accentramento nelle mani del primo cittadino indotto ad eludere i tranelli consiliari procedendo per “delibera/ordinanza”. 

La varianza interna alla coalizione è molto, forse troppo, ampia. Si prospetta non l’Ulivo, ma l’Unione, e per tenere tutti “insieme” non basterà “ago e filo”, ma ci vorranno le forbici, per evitare un programma monstre di centinaia di pagine e troppe voci, intese come punti. Dalla estrema sinistra, ai movimenti, al civismo, al centro, ai fedeli di Isabella Conti, fino all’ambientalismo e al PD, quest’ultimo già di suo eufemisticamente attraversato da correnti e fazioni. Lepore dovrebbe puntare a rafforzare il suo partito, perché diventi perno non solo culturale, ma anche legislativo ed evitare il mercato delle singole proposte in contraddizione tra loro. Le tensioni con Labàs delle ultime ora preludono a terribili scontri identitari, che ciascun attore sarebbe propenso a sviscerare in mancanza presumibile di sanzioni politiche. Il numero di veto players, di coloro in grado di esercitare un potenziale di “veto” e di “ricatto” è tremendamente alto. E si tratta di “nemici” interni. Nel “Deserto dei Tartari” un soldato uscito dalla fortezza per recuperare un cavallo scappato venne ucciso da una sentinella amica, ma zelante. Lepore dovrà concentrare tutte le sue energie all’interno del proprio campo per indurlo a miti consigli, e consiliature, anche nella fase di definizione delle liste e dei nomi che le compongono, per evitare che in attesa del nemico esterno quello interno cresca troppo e velocemente. Il sottotenente Lepore è avvisato. 

Occupare il Nord. Il PD agisca per conquistare Veneto e Lombardia

Editoriale per Domani

Festa della zucca di Pecorara sull’appennino di Piacenza, che già pare il carteggio della scenografia di Cesare Zavattini, e Giulio Tremonti sibilante invita gli astanti, militanti della Lega Nord a guida bossiana, ad “occupare l’Emilia”, mentre quelli invocavano la secessione unendosi alla Lombardia. L’avanzamento delle camicie verdi verso sud ha nel mirino la terra rossa emiliana e la crescita elettorale è in quegli anni – siamo nel 2009 – prologo del tentativo, poi fallito, di un partito nazionale a guida Matteo Salvini da Locri. Nessuno a sinistra prende sul serio l’intento leghista, e il PD si crogiola su fasti ormai decadenti. Qualcuno che scrive, legge e analizza le sorti dell’Emilia fu rossa esiste, ma l’auto-considerazione dei dirigenti è elevata, salvo trasformarsi in auto-commiserazione appena il vento cambia come se non ci fossero stati cattivi, evidenti, presagi ad annunciare tempesta. L’incitamento/motto del ministro delle Finanze diventò anche il titolo omonimo per un ben fatto documentario (Lombardi-Tomassone-Aurighi), ma le vittorie, pur rocambolesche, tacitano quasi sempre tutto e tutti. Tanto che la sorpresa aleggiava ancora allorché la Lega (Nord) del sen. Salvini nel 2020 rischiò il colpaccio vittoria, se non fosse stato per la super mobilitazione e per il contributo dell’area metropolitana bolognese, e se non avesse candidato una figura politicamente evanescente. Ma nel PD ancora le ragioni di quella vittoria non sono state ben investigate, e pertanto non capite adeguatamente. 

Il Partito democratico dovrebbe produrre una azione politica analoga e di segno contrario, una pianificazione di “conquista” elettorale. Perché? Per varie, concomitanti e convergenti ragioni. È impossibile, impraticabile, ambire ad essere partito di governo nazionale senza la guida almeno di Lombardia e/o Veneto, come minimo di una delle regioni più prosperose, ricche e popolose. Il PD non può limitarsi alla gestione delle grandi città, delle aree metropolitane; non sarebbe credibile, oltre che non competitivo. In Italia il 70% dei comuni ha meno di 5.000 abitanti, che rappresentano il 17% della popolazione nazionale; di tutti questi il 45% si trova dislocata tra Piemonte, Lombardia e Veneto (fonte ISTAT). Inconcepibile non avere una prospettiva per governare il Nord, che implica l’accento su una netta distorsione geografica, con l’enfasi su talune aree e la quasi assenza in altre, frutto di insostenibili differenze geografiche. Il PD non è il partito della ZTL, una definizione facile per i talk show domenicali, è piuttosto il partito dei dipendenti pubblici. Il dato su chi siano gli elettori democratici genera la condensazione e la concentrazione spaziale, e non il contrario. L’aspetto geografico è una conseguenza e perciò distorcente se assume caratteri esplicativi. Se guardiamo alle caratteristiche socio-demografiche e professionali, emerge un quadro inquietante per il Nazareno. Un solo dato circa le professioni: gli operari che hanno votato PD erano il 23% nel 2013 e solo il 10% nel 2018 (fonte ITANES).

Le ragioni di una riscossa che parta da Nord, come detto, sono molteplici e poggiano su basi agilmente spendibili sul piano politico, elettorale e persino comunicativo. L’asse lombardo-veneto non rappresenta affatto un “modello” di buongoverno, come da sedicenti esaltazioni e da troppo remissive qualunquiste asserzioni. La Giunta e l’amministrazione del Veneto e della Lombardia rappresentano in realtà casi esemplari di malgoverno, per molti aspetti. Dalla sanità, martorizzata e consegnata ai privati, alla gestione del territorio e dell’ambiente. Dai diritti sociali a quelli civili, posti in secondo piano rispetto al perseguimento esclusivo della difesa degli interessi imprenditoriali, o meglio solo di una parte di essi. Il Presidente Luca Zaia è un politico di professione, eppure si presenta come parvenu, ed è meno valido come amministratore di quel che si narra. Perché manca un racconto alternativo credibile. È un politico per nulla “moderato”, ma ha i tratti ideologici tipici dell’estrema destra (basterebbe ricordare i molti momenti di puro razzismo), come il partito cui appartiene, sebbene ogni tanto provi tatticamente a sganciarsene. Parimenti, nel caso lombardo la mala gestione della pandemia è evidente, come la disarticolazione degli istituti di welfare e una allegra e lasca amministrazione del bene pubblico e delle nomine politiche. Il Nord rimane perciò centrale. Nel post Liberazione si parlò di “Vento del Nord”, a indicare l’aria di libertà che spirava in seguito alla lotta di Resistenza e al movimento civico-politico che ne scaturì investendo l’intero Paese. Oggi nelle regioni settentrionali vivono e lavorano la maggior parte degli operai e dei lavoratori dipendenti, ossia l’elettorato “tipico” dei partiti progressisti, almeno nella storia e nell’afflato. E, dunque, in prospettiva. In termini di rappresentanza Lombardia e Veneto generano una quantità di seggi pari a quasi un sesto del totale, derivante dalla popolosità, mentre il Sud si svuota con la continua migrazione unilaterale. È tempo di impiantare una squadra speciale, a tempo pieno, con azione e impegno effettivo permanente. Amministratori locali, dirigenti ed eletti del PD, esponenti di associazioni, intellettuali, lavoratori e imprenditori. Una vasta operazione di ascolto, di apprendimento, di raccolta dati, di incontri. Attivare militanti, giovani, donne, precari, in territori dove la disuguaglianza è cresciuta enormemente ed esiste una sete atavica di sinistra e di diritti sociali. Una domanda inevasa di partecipazione e di rilancio dei valori progressisti. Per “occupare il Nord”, partendo dai molti dati ed analisi presenti, ma tentando di riconnettersi “sentimentalmente” con quel mondo. Una riunione mensile della Direzione nazionale svolta nelle province lombardo-venete sarebbe l’ideale, da ripetere con incontri periodici itineranti in giro per il Paese. Per dare un segnale, ma soprattutto per raccogliere idee, critiche e informazioni. Andare nella tana del lupo, e stanarlo. È un lavoro di lunga lena, ma da qualche parte e prima o poi bisognerà principiare. Un esempio può venire dai Democratici americani. I quali grazie a un lavoro intenso, diffuso, articolato, e prolungato, hanno conquistato la Georgia, strappandola al controllo dei Repubblicani. Grazie a una mobilitazione capillare, a un disegno strategico e ad un obiettivo condiviso, Biden e i suoi hanno vinto le elezioni presidenziali nello stato di Atlanta come non succedeva dal 1972 (Presidente Carter), hanno vinto i due seggi senatoriale e nel 2018 per una inezia hanno perso la carica di Governatore. Nel 2012 Renzi aprì la campagna elettorale per le primarie da Verona, nel 2014 il PD risultò primo partito con il 38% in Veneto e il 40% in Lombardia. Il Nord non è una battaglia persa, come talvolta pare sia considerato. Gli elettori sono molto (per i miei standard troppo) mobili e volatili, e cambiano comportamento elettorale con repentina facilità (il 36% nel 2013 e il 26% nel 2018). Purché individuino, elaborino ed indichino una proposta alternativa. E che i dirigenti del centro-sinistra non dicano, come troppe volte accaduto, che quegli elettori sono ontologicamente di “destra” o leghisti e che quindi è possibile vincere solo per un accidente della storia. Il caso virtuoso di Milano, la bella battaglia delle regionali di Ambrosoli del 2013, il tentativo di Gori nel 2018, pur in uno scenario tripolare, le decine di comuni vinti in Veneto, dimostrano che la battaglia è aperta. Togliatti voleva che il PCI avesse una sezione in ogni comune, ovunque ci fosse un campanile; il PD provi almeno a recuperare qualche punto percentuale, perché il Nord determinerà il prossimo assetto parlamentare. Si può fare.