Il mio editoriale per Il Riformista
Nella letteratura scientifica di riferimento si chiama “genetica dei partiti”, per definirne il carattere identitario, la cifra ideologica e politica. Si tratta di elementi tipici difficilmente superabili, modificabili e cancellabili, e che rimandano alla nascita del partito, alla sua natura, all’essere e all’agire. Sono caratteristiche ascrittive, un po’ come il colore degli occhi, sostanzialmente immodificabili. A meno che la leadership del partito non proceda a profondi, radicali cambiamenti che investano l’intero assetto ideologico, organizzativo e identitario. Affinché tale atto rivoluzionario vada a buon fine è però indispensabile la presenza del combinato disposto della volontà politica e, soprattuto, di una guida autorevole, riconosciuta e riconoscibile per condurre l’operazione. Taluni, ignari o interessati, ripetono la cantilena della Lega nazionale e della Lega che sarebbe diventata nello spazio di un mattino un partito responsabile e istituzionale. Il tutto perchè il partito ispirato ad Alberto da Giussano ha deciso di sostenere, per ora, il Governo Draghi. Ma già in passato il partito fondato da Umberto Bossi ha dato prova di acrobazie politiche e parlamentari, di tattiche estreme per sopravvivere e addattarsi al contesto.
Il cambiamento, per essere serio, definitivo e profondo necessiterebbe di una pubblica discussione, di abiura di precedenti esperienze e proposte e di innovazione. Il tutto guidato da una leaderhsip carismatica. L’attuale segretario del partito, il senatore Matteo Salvini, evidentemente non ha alcun carisma, e anche la popolarità è decrescente, come le intenzioni di voto per il suo partito, la Lega Nord. Salvini non solo manca di carisma, ma soprattutto non controlla il partito. Che è sostanzialmente alla deriva, senza un’indicazione chiara sulla strategia nel medio e lungo periodo, ormai allineato alle politiche mainstream. La mitica base è spaesata. Il finto cambiamento pro-Europa è maturato in due ore davanti a un gelato nel cuore della capitale. Parimenti il cambiamento contro il “proprio” governo (Conte I) avvenne ingurgitando un cocktail alcolico. C’è dunque un aspetto parapsicologico del rapporto cibo-posizionamento politico che mal si concilia effettivamente con la sobrietà, la pacatezza e la statura internazionale del Presidente del Consiglio dei Ministri, e della partecipazione a un Governo europeo ed europeista. Le inversioni di rotta della Lega Nord non sono una novità. Il passaggio dal radicalismo finto celtico, dalla secessione sbraitata, alla chimera della secessione, agli strali contro lo stato unitario, alle invettive contro il 25 aprile (quando Bossi invece dichiarava il partito antifascista), alle melensi e odiose carezze alla destra neofascista, dal razzismo contro i meridionali a quello più redditizio verso gli immigrati, dal sessismo, dalla violenza verbale contro tutti i diversi, una congerie di contraddizioni e di proposte scoordinate e spesso strampalate. Il collante era però Bossi, il suo carisma, l’autorevolezza del padre fondatore (astemio) e l’ideologia di una chimera dichiarata a portata di mano.
La Lega Nord naviga oggi in cattive acque. Il partito è accreditato di un consenso, sovrastimato, attorno al 20%. All’incirca il dato del 2018, dopo l’ebbrezza del 2019. Ad aggravare la crisi della Lega Nord c’è la condizione di socio di maggioranza, con sostegno a politiche espansive e pro-EU, ossia una costrizione cui il partito reagisce sanguinando elettori, e che Salvini vive come una vera contrizione. Nella situazione odierna il senatore eletto per caso a Locri ha le polveri bagnate, non può dare fino in fondo sfogo alle intemerate contro il “sistema”, non può criticare il capo del governo accusandolo di incompetenza, non ha elementi per scagliarsi contro la gestione del Codiv avendo un malgoverno a guida Lega Nord in Calabria e in Lombardia. È come una fiera in gabbia, e molti elettori sembrerebbero ormai mitridatizzati al suo richiamo continuo alla mobilitazione contro il nemico imminente di invasioni immaginifiche. Per questo tenta piccole azioni di sabotaggio quali le discussioni sugli orari del coprifuoco, o rimarca una pregiudiziale identitaria sulla legge contro l’omotransfobia.
Inoltre Giorgia Meloni da mesi incalza la Lega, e sta recuperando consensi e il sorpasso è ormai prossimo. Una chiara Opa ostile, con Salvini schiacciato tra l’ala governista e la spina nel fianco di Fratelli d’Italia. Alla sfida sulla destra si somma il ritrovato attivismo pacato, ma probabilmente efficace del segretario del PD. Letta ha finalmente iniziato a discutere della possibilità di recuperare i voti del Nord, posto che in maggior parte si tratta di lavoratori (dipendenti), per cui se la Sinistra dismettesse l’atteggiamento rinunciatario potrebbe recuperare molti consensi. Il bacino leghista è assolutamento contendibile, è sul mercato, e disorientato aspetta parole e atti rassicuranti. Per il PD, con una politica “aggressiva” e propositiva sul territorio, sarebbe possibile vincere persino in Veneto, dove il sedicente buongoverno del Presidente Zaia ha generato spesso problemi ambientali, estese diseguaglianze sociali nonchè un sistema sanitario orientato al privato.
La conviveza nel partito tra massimalisti e riformisti, o meglio tra estremisti di destra con e senza doppiopetto, è ormai impossibile. Addirittura, secondo alcune fonti, Salvini e il ministro Giorgetti avrebbero sfiorato la rissa a causa di divergenze sulla gestione dei fondi europei post pandemia.
Ai primi di agosto inizierà il “semestre bianco” presidenziale, una ghiotta opportunità per essere non responsabile e allo stesso tempo criticare senza tregua il Governo in carica con l’assicurazione che il Presidente della Repubblica non potrà sciogliere le Camere. La condizione perfetta per un uomo politico da trincea come Salvini che ha costruito il suo effimero consenso su provocazioni, proposte senza evidenze empiriche, e con il complice silenzio di ampi settori dell’informazione che solo in pochi casi ha chiesto conto delle affermazioni fatte. A quel punto Salvini potrà alzare il tiro e il tono, sia che la Lega rimanga nel governo con i ministri sia che la delegazione lasci la maggioranza. Sarà comunque una fuoriuscita politica, e lui potrà negoziare il capitale elettorale mentre i filo governativi saranno in balia delle sue provocazioni. Saranno mesi di grande tensione, con l’asse FdI-Lega Nord che torneranno a dialogare e a sfidarsi ma da alleati in una lunga campagna elettorale in vista del 2023. L’identità del partito è dunque in grave pericolo, e anche l’organizzazione, un tempo efficace macchina elettorale e oleata struttura capace di fare da sentinella sugli umori del Nord, è annichilita dopo un lustro di osanna, e relative risorse, dirottate verso il sedicente capitano di ventura.
Nessuno può scappare alla propria identità. Salvini è un politico, tattico decente, nella migliore delle ipotesi. Spesso è trascinato dagli eventi, nel senso che trae vantaggio adattandosi al contesto. Non c’è nessun disegno metapolitico, nessuna superstrategia segreta, semplicemente Salvini è rimasto vittima della rivolta della componente “governista” del partito. Non una componente moderata, come ripetuto acriticamente, ma semplicemente quella più pragmatica. In questo Salvini è più leale al carattere “movimentista” del partito. Lo scontro tra le due componenti è in corso da tempo e nel deflagrare farebbe implodere il partito. Per tutte queste ragioni Salvini presto lascerà la maggioranza provando a portare con sè le residue forze irredentiste della (fu) Lega Nord. Salvini non esce dal Governo, non ci è mai entrato.