La Destra in Italia. Tra Salò, Pontida e Washington.

editoriale per Il Riformista

C’è un grande assente nella storia sociale e politica dell’Italia: la borghesia. La classe che altrove ha guidato le innovazioni (tecnologie, ma soprattutto sociali e culturali) e che ha promosso le grandi trasformazioni degli ultimi tre secoli, in Italia è rimasta a traino. Ha preferito accomodarsi, accucciata vicino al tepore del camino di casa dello Stato/Governo che elargiva prebende, tanto materiali quanto simboliche-identitarie.

Anziché essere classe dirigente la borghesia italiana ha fatto da stampella al potere, un po’ meretrice, un po’ ruffiana e giullare di corte. Con le dovute eccezioni di rito, appunto. La conseguenza sistemica di questo miscuglio di funzioni e ruoli, ha sostanzialmente rallentato, e forse impedito, che maturassero due poli, uno conservatore ed uno socialdemocratico. Azzoppati certo nel loro sviluppo dal contesto internazionale, dalla “cortina di ferro”, dal primato culturale del Partito comunista rispetto al fratello/cugino/avversario socialista, fino, formalmente, al 1989-1991 e ai travagli identitari e poco intellettuali dei post comunisti che ancora cercano una (terza) via. Sull’altro versante, il predominio, tramutatosi in rendita di posizione, della Democrazia cristiana ha mutilato le spinte riformiste in nome troppo spesso della ragion di Stato (o talora del “segreto” di Stato), fino a farne un alibi rispetto al pericolo “sovietico” anche quando palesemente fuori tempo. La DC, la balena bianca, era però anche un “grande mitile” in grado di filtrare i residui e le incrostazioni del revanchismo fascista, di contenere le invasioni di campo di una componente della Chiesa cattolica, di prendere le distanze dai movimenti eversivi. Marco Follini ha spesso ben richiamato la complessità di quel partito, articolato, fatto non solo di faccendieri, di personaggi legati alla mafia, o mafiosi essi stessi, ma in grado di fare dell’Italia uno dei più grandi paesi industrializzati. Nel bene e nel male. Di mantenere la barra dritta in una navigazione perigliosa per Roma segnata da molti lutti e lati oscuri. La temperie sociale-politica degli anni ’90 non ha consentito una maturazione del campo catto-conservatore in un moderno partito di destra, ma è stato travolto dalle promesse salvifiche del tycoon Silvio Berlusconi che ha ri-proposto la dicotomia anti-comunista (in un Paese quasi senza più comunisti) premiando perciò le rispettive ali “estreme” e consegnando alla Sinistra l’alibi perfetto per non maturare e riformarsi. Forza Italia non ha avuto la penetrazione sociale e la capacità di leggere gli interessi come faceva invece la DC, ma ha affidato tutto il destino del Paese a quello di un solo uomo. Ossia una mentalità mai accettata nel partito dello scudo crociato. Berlusconi ha però modernizzato il polo conservatore, nei modi, nei toni, e anche rispetto ad alcuni temi “di costume” sui quali – bon gré mal gré – ha segnato una rottura, non fosse altro quale “parte in causa”. Dal punto di vista politico però l’azione del Cavaliere ha prodotto due rotture cruciali per l’intero sistema politico e partitico: 1) l’ingresso a Palazzo Chigi della Lega Nord; 2) lo sdoganamento del Movimento sociale italiano. Da un lato, queste due forze sono state indotte a “modernizzarsi” al fine di essere presentabili per entrare nella società dei salotti istituzionali, ma dall’altro la presenza di Berlusconi le ha garantite quanto a iniezione costante di risorse per la coalizione nonché di sostegno politico, e perciò inibendone l’assimilazione, ma anzi enfatizzando il carattere identitario. Al fine di distinguersi, per evitare di estinguersi, Msi/Alleanza nazionale e Lega Nord hanno rimarcato le loro posizioni classiche, di nazione da un alto e di anti-nazione dall’altro. Un ossimoro tenuto insieme dal collante berlusconiano, quello di un capo carismatico, affabulatore, e grande cerimoniere nel tessere le trame per una coalizione di centro-destra variamente denominata. Sul piano culturale l’alleanza trainava e rappresentava quella parte di società che si rispecchiava nel forza/leghismo, scettico verso lo Stato e ultraliberista. Viceversa, gli eredi del Partito nazionale fascista, esclusi dal Governo secondo la celebre conventio ad excludendum (Il polo escluso, P. Ignazi, Il Mulino) insieme al PCI che però aveva lottato per la Liberazione, elaborato e votato la Costituzione, si ritrovano a mutare costretti dagli eventi. Il Movimento sociale italiano compie un passaggio di trasformazione organizzativa, simbolica, ideologica prodromo di successivi aggiustamenti. È il primo passo per l’abbandono del fascismo come ideologia di riferimento, al netto delle intemperanze di alcuni e inevitabili andamenti oscillatori nella definizione della nuova identità politica-partitica.

Il progetto promosso e incarnato da Gianfranco Fini era solido, aveva una prospettiva e puntava a entrare a pieno titolo nel gruppo dei conservatori europei. L’obiettivo, non dichiarato perché tabù, era l’egemonia nel campo del centro-destra, dominato e in realtà posseduto manu militari (e finanziaria) da Berlusconi che perciò non ammise nessuna sfida diretta alla sua leadership. Il progetto aveva una visione ed era frutto di lavoro cui contribuirono intellettuali di rilievo, tra tutti Domenico Fisichella, ed articolazioni come la fondazione Farefuturo che promosse un dibattito coi principali leader del mondo conservatore europeo, da J.M. Aznar a Nicolas Sarkozy, del cui libro nel 2007 Fini non a caso scrisse la prefazione. Insomma, c’era un fermento che si interruppe bruscamente con la marginalizzazione di Fini che osò sfidare apertamente il padrone di Forza Italia, mutata da una battuta in piazza in Popolo della Libertà. L’impossibilità di avere due leader in un solo partito fece il resto. E congelò il processo riformatore interno ad Alleanza nazionale posto che molti realisti rimasero come cortigiani di Berlusconi e la fuoriuscita di Fini si rivelò fallimentare nelle urne. Fratelli d’Italia nasce dunque come contro-risposta identitaria, ritorno alle “origini” dopo la presunta onta del partitone berlusconiano che assimilava tutto e tutti. Giorgia Meloni è stata abile a riprendere le fila di militanti orfani di una identità e a rinsaldare i temi cari al duo Msi/An. Unitamente a un piglio casareccio con toni popolari, a tratti popolani e perciò elettoralmente salubri, e una indubbia tenacia, Meloni ha intercettato l’umore di una parte importante del Paese distante dalle boutades di Salvini e disorientate dopo la fine, de facto, della spinta propulsiva di Forza Italia.

La marcia trionfante di Meloni è però strettamente intrecciata con i destini del fratello/nemico Matteo Salvini. È lì il cuore della questione, del futuro della Destra italiana, contesa tra ambizioni individuali, scontri di potere, oscillazioni elettorali e riposizionamenti sullo scacchiere internazionale.

Fino a pochi mesi fa la tenzone era prevalentemente basata sul duopolio “immigrazione-nazione”, laddove il primo lemma è nettamente appannaggio di Salvini e la nazione invece è meglio maneggiata da Meloni. Dopo le politiche del 2018 Meloni era ancillare rispetto a Salvini, sia sul piano elettorale, ma anche dal punto di vista mediatico. Il leader era indubbiamente il capo della Lega Nord, mentre Meloni provava a ritagliarsi uno spazio residuale. La sciagurata gestione del proprio ruolo all’interno del Governo Conte I ha reso la Lega Nord oramai un orpello, un ostacolo per la modernizzazione del polo conservatore. L’idea di aderire al gruppo del partito popolare europeo è del tutto estemporanea, una … emerita sciocchezza che denota l’approssimazione, l’improvvisazione del partito in una dinamica di scontro tra bande interno all’organizzazione di cui Salvini ormai sta perdendo il controllo.

Che questa prospettiva sia un azzardo e una trovata mediatica autunnale, solo come risposta alla mossa azzeccata di Meloni, lo si evince studiando la storia della Lega Nord. La difficile trattativa con i popolari europei prima che complicata dalle ritrosie di forze realmente conservatrici ostili agli strali di nazionalisti di estrema destra, ha un intrinseco limite ontologico: la Lega stessa. Entrare nel Partito popolare europeo, se per assurdo avvenisse, significherebbe la fine stessa del Carroccio. Il quale dovrebbe rinunciare o comunque nascondere come un ladro le libagioni in onore della sovranità nazionale a scapito della dimensione sovra-nazionale, l’anti-europeismo, il regionalismo differenziato, ossia la “secessione 2.0”, così denominata per addolcire le residue resistenze culturali a sinistra e nel Paese. Né, tantomeno, la Lega Nord ha le tradizioni e la cultura politica di partiti nazionalisti quali lo Scottish national party o altri. Si tratterebbe di un matrimonio senza speranze che nessuno dei partner vuole davvero. I popolari europei accettarono Berlusconi solo, o principalmente, per la dote finanziaria derivante dal numero di deputati a Strasburgo, figurarsi se – almeno nella componente britannica e polacca – accetterebbero tra le proprie fila chi flitra con la Russia di Putin. La Lega è, al di là dei sondaggi, un partito allo sbando, senza identità, senza idee, senza visione. L’unica residuale inerzia è quella di un partito personale che come tale risente delle difficoltà del leader al crepuscolo. Finirà che i maggiorenti del partito liquideranno Salvini, con un pretesto, per patente incapacità di politica prospettica. Lo stesso si arroccherà su una posizione irredentista, massimalista e urlerà al tradimento. Il senatore eletto per sbaglio a Locri Epizephiri sarà costretto a tornare alle sagre di paese, alle fiaccolate, puntando alla “origini”. Con partito “suo” attorno al 3% sarà una sorta di Front national delle pre-Alpi con una piattaforma anti-sistemica e di estrema destra (come del resto già succede alla c.d. Lega di Salvini, ovvero alla mai defunta Lega Nord).

Se, dunque, il processo che ha portato Meloni alla guida del gruppo dei conservatori europei risale a un percorso di revisione interrottosi due lustri fa, ma che ha incluso vari esponenti della società e della cultura in un dibattito vero, il caso della Lega è senza speranza. Non c’è nessun confronto ideale all’interno, nessun orizzonte di scontro “congressuale” su tesi contrapposte, né si vedono personaggi del calibro di Gianfranco Miglio, ma solo funzionari. A questo si aggiunga che la strategia di Luca Zaia e Giancarlo Giorgetti mira a fagocitare la parte elettorale del partito “nazionale” e lasciare a Salvini la bad company.  I due però non sono per nulla “moderati”, categoria dello spirito che tra l’altro non esiste nella storia delle dottrine politiche: il moderatismo. Manifestano semmai “modi” un po’, ma leggermente, più urbani del duo che però nella sostanza ha sempre e comunque sostenuto gli strali di Bossi, gli “eccessi” di Salvini e le intemerate dei vari colonelli della Lega.

Meloni, pertanto, come ho già scritto altre volte, ha una occasione storica. Può dimostrare di essere all’altezza del compito. Ma per farlo deve annientare i residuati bellici del revanchismo neo-fascista, chiarire definitivamente sull’antifascismo, sui diritti civili (vedi L. 194) e sulle diversità, togliere la “fiamma” dal simbolo, rimanere nel campo europeista (non indulgendo su Orban) e infine mostrare postura istituzionale sulla magistratura (sostegno politico a Salvini, ma non in piazza contro i giudici). Dal suo punto di vista certo, ma presentando una destra conservatrice e moderna. Sarebbe un bene per l’intero sistema partitico, per il Paese e indurrebbe anche il centro-sinistra a modernizzarsi. Non sappiamo quali siano le intenzioni, ma se Meloni facesse sul serio non potrebbe che essere una buona notizia. Lo spazio lasciato da Forza Italia, dalla Lega in declino e da forze personali/stiche come Azione e Italia viva offrono praterie elettorali, ma richiedono leadership moderna e innovativa.

Oggi la Destra italiana è a un bivio. La scelta identitaria e culturale passa tra l’abbandono definitivo di Salò, lasciare Pontida alle forze anti-sistema e folkloristiche e rivolgersi, da veri conservatori maturi, a Washington dialogando con Bruxelles.