commento scritto con Dario Tuorto per l’Huffington Post
Le recenti manifestazioni di piazza di Torino e Roma hanno chiamato in causa la cosiddetta borghesia. Nell’accezione data da sedicenti sociologi domenicali avrebbe un significato deteriore, negativo, quasi un epiteto.
Nel periodo del pauperismo rancoroso e senza pensiero tutto ciò che è ragionamento diventa élite, casta persino. Ergo borghesia sinonimo di privilegio e dunque meritevole di dileggio. No, non è il reddito a fare da ostacolo o a rappresentare un immondo tabù da rimuovere. La borghesia ha avuto un ruolo importante in alcune società moderne, persino rivoluzionario, basti pensare al 1789, altro che Popolo indiscriminato e indistinto. Robespierre non voleva vederlo nemmeno in cartolina.
Giuseppe De Rita ha posto giustamente l’accento sulle debolezze della borghesia italiana e il rischio di scomparsa. Anche Michele Serra lo ha fatto su Repubblica, con la consueta attenzione. Ma in Italia il problema borghese non è tanto la sua assenza, bensì la sua essenza.
È utile partire, in questo senso, dalle scelte di voto. Alle elezioni politiche del 2018 la quota più alta di dirigenti, imprenditori, liberi professionisti si riscontrava tra gli elettori di Forza Italia/Fdi (28%) e della Lega (27%). Il dato non è certo inatteso, così come non lo è l’assai ridotta capacità di attrazione del M5s su questa componente di votanti (14%). Ciò che colpisce sono piuttosto le posizioni sui temi politici che i borghesi italiani esprimono. Ben il 65% ha sfiducia nel Parlamento, 60% nei partiti e addirittura il 74% nell’Europa.
Tali atteggiamenti di forte disaffezione e distacco dalle istituzioni rappresentative sono sorprendenti perché si allineano a quelli espressi dall’insieme dell’elettorato e stanno a ricordare come la borghesia non riesca (e quindi non possa) indicare la via del civismo alla grande massa di elettori scettici e arrabbiati. Anche su un tema più scomodo come l’immigrazione, su cui si misura la lungimiranza della classe dirigente di un Paese, la borghesia finisce per accodarsi alla strada facile segnata dal populismo. Il 58% è d’accordo sul fatto che l’Italia riceva troppi immigrati (elettorato: 63%), il 52% crede che gli immigrati siano un male per l’economia (elettorato 56%), il 57% che siano una minaccia per la cultura (elettorato 60%).
Una virata, quindi, a destra nei valori. E non deve sorprendere che la borghesia abbia assecondato, nel corso degli anni, l’ascesa di forze anti-statali, individualiste ed anti-solidali. La guerra urlata alla casta è stata vigorosa, a tratti violenta, quasi sempre senza supporto empirico se non alcune grossolane banalità e ghiotte frasi populiste formulate nel vuoto pneumatico di una qualsivoglia impostazione teorica o domanda di ricerca.
È stato lo sdoganamento definitivo per le pulsioni anti-statali presenti in Italia sin dal 1861, tenute con difficoltà a bada solo dalla lungimiranza e visione dei partiti democratici dopo il 1945. Decenni di delegittimazione di ogni agenzia culturale, istituzionale, sociale politica hanno generato o comunque agevolato l’emergere di un gruppo culturalmente subalterno ma compatto, che ha assunto il rango di attore politico, di classe dirigente in pectore, anche grazie alla debolezza delle forze progressiste, diventato egemonico senza averne i talenti.
La borghesia, a volte “piccola piccola“, ha dunque gravissime responsabilità perché ha preferito non guidare ma seguire, assecondare, condiscendere, adulare il potente, chiunque esso fosse, senza porsi quale classe dirigente che si assume onori e oneri, ma limitandosi ad omaggiare allori al nuovo di turno.
La borghesia c’è, ma non guarda al Paese intero (o forse guarda a un Paese che non ci piace).