Il messaggio che arriva da Piazza Maggiore è in parte nuovo in parte vecchio, quasi antico. La rinnovata espressione della leadership di Lega Nord e Fratelli d’Italia rappresenta il nuovo conio, anche se in presenza di politici di professione e dalla lunga carriera politica. La riproposizione dello schema coalizionale “Casa della Libertà” (sul palco c’era anche il rappresentante del Partito dei pensionati) viceversa ribadisce il format classico dei conservatori italiani. Se per un verso sarebbe troppo banale ribadire che non è stata un’operazione “nostalgia” né che sarà plausibile ripetere i fasti del 1994 o del 2001, dall’altro andrebbe enfatizzato che trattasi di un elemento di forte continuità. La discontinuità dei protagonisti cela un profondo radicamento sociale e politico dell’alleanza. Dal 1993 (elezioni amministrative: fu Berlusconi proprio alle porte di Bologna che sdoganò l’alleanza con i post fascisti e con la Lega Nord) al 2011 quei partiti hanno marciato e colpito insieme, tranne che per un breve periodo in cui la Lega si è allontanata per “andare da sola”. Il punto dirimente è che – per ora – l’incedere leghista trascina il centrodestra su ali estreme, e prova ne è la fuga di diversi parlamentari dalla Piazza, sebbene non se ne capisca l’imbarazzo politico. La Lega e Forza Italia sono espressione socio-politica del forza-leghismo (Edmondo Berselli dixit) che ha egemonizzato la cultura politica italiana per 20 anni. La simbiosi Ln-FI era palese sul piano culturale, sociale ed elettorale: i flussi elettorali per anni hanno ribadito che si trattava di vasi comunicanti, ma la suggestione di un’interpretazione cialtrona e priva di dati dell’operaio Fiom in fuga dalla diaspora Pci e votante Lega era giornalisticamente troppo ghiotta.
La Pontida bolognese è il tentativo di Salvini di spostare l’asse leghista nel cuore del (Centro)Nord produttivo dove il dolore e le contraddizioni della crisi economica fanno male soprattutto perché meno frequenti. Una Piazza radicale dunque per la ragione sociale dell’alleanza cui aggiungere la Destra di Storace e i domenicali del “boia chi molla”. La Lega ha un crisi di identità collettiva, prova ne sono i messaggi contraddittori veicolati. Dal “prima il Nord” di stampo maroniano, a “prima gli Italiani”, dal Sole delle Alpi a “Noi Salvini Calabria” (sic!), alle urla da crociata di Magdi (Cristiano) Allam. La riproposizione della coalizione di centrodestra come catarsi per superare contraddizioni pericolose. Era una piazza “diversiva” più che “eversiva”. Come il vagheggiato progetto di nazionalizzare la Lega, cancellando con un tweet mattutino le bravate di Salvini dei cori “Forza Etna” e “Forza Vesuvio”: nazionalizzare i temi della campagna e mettere in conto una dose di smemoratezza degli elettori meridionali non significa creare un partito nazionalista. E non basta nemmeno flirtare con Marine Le Pen.
Tuttavia, la colorata, pacifica o meglio sorniona (ma non pacifista), nutrita, manifestazione leghista del 8 novembre non rappresenta un pericolo, un’alternativa di Governo all’esecutivo Renzi. Troppo spinta a destra (basta ascoltare Meloni e i toni da pre-Fiuggi usati). E inoltre manca l’asse centrale (non solo centrista) della coalizione, e questo non può essere rappresentato da Forza Italia, come è oggi, e conta l’assenza di una forza neo-gollista incarnata in passato dal tentativo di Fini. La vera sfida a Renzi proviene dal combinato disposto dell’anti-comunismo (senza comunisti, Ilvo Diamanti docet) del centrodestra e di ampi strati dell’elettorato italiano e della galassia grillina. Indizio grave ne sia che da quella piazza affollata, folkloristica e persino allegra (salvo scattare in moti di pura cattiveria ai primi accenni ai migranti), non un sibilo o uno starnuto abbia accolto gli strali (ben troppo sopra le righe) di Berlusconi verso Beppe Grillo. Come se fosse stata desolatamente vuota. Sorprende che Berlusconi, a tratti ilare e patetico, abbia ceduto cadendo nella trappola della piazza ostile. Del resto Elias Canetti insegna che la folla esalta, esulta e sancisce gloria e declino, di populismi e populisti. Il prossimo a farne le spese, della Piazza, sarà Grillo. Inesorabilmente. Proprio la saldatura più che potenziale tra populismi è il principale incubo renziano. Il Pd dovrebbe provare a riempire di entusiasmo, contenuti e giovani Piazza delle Erbe a Padova, Piazza Duomo a Milano o Piazza Brà a Verona. Da cui del resto partì con intuito la campagna elettorale di Renzi alle primarie.
Il tentativo di Salvini di guidare il centrodestra non è semplice stante la riottosità di Forza Italia a rimanere sotto l’egida leghista dopo esserne stata per quattro lustri la guida. E viceversa la base leghista ontologicamente direi “non ama” Berlusconi (il “piduista”, il “mafioso”), lo ha accettato, sopportato, si è adeguata per convenienza e strategia. E per capirlo non era necessario essere lì ad ascoltare il giubilo liberatorio che ha salutato la fine del discorso di Berlusconi. La base leghista negli anni si è piegata alle inversioni a “U” di Bossi, vero dominus delle alleanze. Ma Salvini, siamo seri, non ha il càrisma di Bossi e Berlusconi non copre lo spazio “moderato” che manca a questo embrione di coalizione. Ma i quindici (!) interventi di altrettanti esponenti di categorie professionali hanno ribadito quale sia lo zoccolo duro che la Destra italiana ambisce a rappresentare. Di converso, la risposta del PD non può essere solo “identitaria”, pena settarismo e irrilevanza, sebbene debba comunque rinsaldare i legami con alcuni gruppi sociali di riferimento.
La Pontida 2.0 di Salvini ha chiaramente segnalato una modernizzazione dell’organizzazione, fino ai dettagli, e un tentativo di liberare il partito dai confini delle valli bergamasche. Fino alla coreografia del palco con la foto di decine di giovani esultanti e il sottofondo musicale iper-techno; era meglio – musicalmente s’intende – il Va, Pensiero verdiano. Viva V.E.R.D.I.