intervista rilasciata a “Geopolitica”
Alla vigilia del voto per il rinnovo dell’Europarlamento di Bruxelles Geopolitica.info ha incontrato Gianluca Passarelli, ricercatore di scienza politica presso il dipartimento di scienze politiche, Sapienza Università di Roma. Un’occasione per tirare le somme di una campagna elettorale che, in Italia come nel resto del Continente, ha assunto per la prima volta una dimensione almeno parzialmente transnazionale, nonché un’opportunità di riflessione sul ruolo effettivo e potenziale dell’Unione nella pericolosa quanto vicina crisi ucraina.
Dati dell’Istituto Cattaneo alla mano, l’Italia appare l’unico grande paese europeo in cui uno dei principali partiti di governo potrebbe confermare un significativo consenso elettorale: effetto Renzi?
La presenza di questo tipo di effetti sull’elettorato è stata oggetto di ricerca politologica sin dalla prima elezione diretta del Parlamento Europeo: negli anni Ottanta le consultazione vennero definite di “secondo ordine”, appuntamenti elettorali in cui gli elettori tenderebbero a punire gli incumbent, favorendo i partiti minori o propendendo per la scelta dell’astensionismo. Ma è probabile che oramai non si possa più fare riferimento solo a questo schema: per la prima volta notiamo in seno all’UE una personalizzazione della dinamica di governo con dei candidati alla leadership della Commissione europea e una campagna elettorale sotto molti aspetti già transnazionale.
Effetto Renzi? Non direi. E comunque non solo. Dal punto di vista simbolico, e dal punto di vista politico, Renzi potrebbe avere tutt’al più contenuto nelle cosiddette regioni rosse del centro Italia l’emorragia di voti democratici verso il Movimento 5 Stelle. Generalmente, ritengo comunque il movimento di Beppe Grillo capace di ottenere dalla tornata elettorale un successo significativo (tra l’altro non vedrei la sorpresa posto che nel 2013 il M5s è arrivato in testa tra le forze politiche italiane, ovvero secondo se consideriamo la circoscrizione estera), soprattutto se si tiene conto della possibile sottorappresentazione dello stesso nei dati dei sondaggi: si tratta di un voto ancora con una relativamente bassa accettabilità sociale, spesso paradossalmente poco palesato e in ciò simile a quello accordato alla Forza Italia dei primi anni Duemila. Una previsione sui risultati che andremmo a scoprire dopo il 26 maggio deve, tuttavia, tenere anche conto di fattori di distorsione quali l’alto livello di astensionismo previsto, un astensionismo divenuto anche critico, ossia in un vero e proprio comportamento di voto consapevole, nonché l’effetto della redistribuzione dei voti del centro-destra. La vera partita si gioca tra Partito Democratico e Movimento 5 Stelle, ma è in realtà Berlusconi il convitato di pietra e nessuno può ancora dire con chiarezza dove confluirà la slavina elettorale che potrebbe staccarsi da Forza Italia.A riguardo va detto che certamente Renzi è riuscito sia ad aprire un canale di credito presso l’elettorato prima radicalmente ostile al centro sinistra, ma non sopravvaluterei troppo le dimensioni dei vasi comunicanti tra l’elettorato democratico e quello berlusconiano. Nel 2013 Berlusconi ha perso il 50% dei voti: di questi un terzo è confluito nell’astensione e due terzi nel M5S. In questo caso l’effetto Renzi sulla destra sarà abbastanza limitato perché l’elettore fedele difficilmente deciderà di abbandonare il proprio leader storico. In Italia la geografia elettorale si basa storicamente su settori di forte immobilità, i blocchi sociali sono rilevanti e le lunghe tradizioni di comportamento elettorale difficilmente potranno essere scalfite significativamente tra un’elezione e un’altra. Nel 2013 la volatilità elettorale (il cambiamento di voto tra un’elezione e l’altra) è stato pari dal 46%, in magna pars dovuti alla presenza del M5s, mentre i passeggi in campo (da destra a sinistra e viceversa), sono stati statisticamente non significativi.
Quali crede siano in questo momento le argomentazioni capaci di catalizzare l’attenzione del corpo elettorale e quanto incideranno, anche in termini di partecipazione al voto, tematiche quali la governance economica e monetaria dell’Unione?
Noto che per la prima volta si parla direttamente di politiche europee, non come surrogato delle politiche nazionali; questo accade perché c’è una variabile interveniente fondamentale che è la crisi economica e finanziaria. Va sottolineato, però che se la governance economica e monetaria irrompe direttamente nella campagna elettorale, il dibattito sull’aspetto istituzionale appare congelato dai tempi del Trattato di Lisbona. In realtà il riassetto istituzionale sarebbe un punto altrettanto importante, anche per aprire il capitolo della legittimazione e della (in larga parte presunta) delegittimazione degli organi di rappresentanza e di governo europei. Un messaggio che avrebbe potuto avere impatto sull’elettorato del Continente sarebbe stata la proposta di un’elezione diretta del Presidente della Commissione, che avrebbe indotto la maggiore strutturazione di partiti “europei” e di una competizione continentale.
Il tema centrale che sta attraversando l’opinione pubblica è capire qual è la colazione in grado di affrontare al meglio le criticità economiche, posto che circa tre quarti degli italiani non mette in discussione tout court la costruzione europea, ma esige da Bruxelles delle risposte chiare a problematiche reali.
Sull’argomento ritengo che le politiche rigoriste adottate negli ultimi anni rappresentino un passo necessario per il risanamento finanziario degli Stati membri, e in particolare dell’Italia (il nostro debito è ormai a livelli di guardia), ma auspico che a breve possano essere affrontate con un atteggiamento meno ragionieristico e ben più attento alle fondamentali strategie di rilancio e sviluppo.
Data la presenza di tendenze euroscettiche sia in Italia che in Europa, secondo lei quali sono i partiti italiani che potrebbero più beneficiare di queste politiche che si riflettono dai partiti europei a quelli italiani?
All’inizio del percorso storico dell’Unione Europea in Italia erano riscontrabili partiti meno favorevoli all’UE e che poi, con il tempo hanno finito per sposare, in misure diverse, la causa europeista. Per contro nell’opinione pubblica appariva evidente la volontà di demandare all’Unione Europea la risoluzione di alcuni problemi strutturali secondo una schema che sottintendeva un’adesione di tipo strumentale all’idea dell’Europa unita: il cittadino vedeva i benefici di quest’adesione in quanto Bruxelles forniva delle risorse materiali (ad esempio i programmi Urban I e Urban II), senza realtà avere piena coscienza del meccanismo di cofinanziamento tra gli Stati membri e dunque del ruolo politico e finanziario giocato stessa Italia in tali iniziative.
Nel corso degli anni la curva del sentimento europeista degli italiani e la crescente curva di disaffezione per il funzionamento della democrazia sono entrate in contrasto e la seconda ha finito per minare la prima.
Venuta meno la componente utilitaristica dell’adesione è cresciuto quello che sui giornali meno raffinati “euroscetticismo”. Ho, tuttavia, delle riserve su questa espressione: il termine scettico non presuppone automaticamente contrarietà, come invece si vorrebbe far intendere. Bisogna, quindi, analizzare cosa si intenda per euroscetticismo poiché c’è chi critica l’Europa tout court e chi, mettendone in discussione taluni aspetti, auspica una revisione più o meno sostanziale delle strutture politiche e funzionali.
L’unico partito che potrebbe beneficiare del sentimento di disaffezione verso l’Unione Europea è il Movimento 5 Stelle. L’appello di Matteo Salvini e della Lega Nord, per contro, appare un urlo nel deserto dato che lo spazio elettorale che aspira a ricoprire è già stato assorbito in buona misura proprio da Grillo.
Per quanto riguarda la Lega Nord si potrebbe dire che le percentuali alle elezioni, sia nazionali che europee, dipendevano molto dalla presenza di questa all’interno della compagine governativa: nel momento in cui la Lega si tirava fuori dal governo ritornava a un 8-9%, mentre nei momenti di clou della coalizione con il centrodestra berlusconiano si ritraeva. Questa volta questo fenomeno non si è verificato.
Non si è verificato (ma le urna sono ancora mute…) per due ragioni: in primis perché le elezioni europee in passato hanno consentito di giocare su elementi di radicalizzazione, e di conseguenza, l’elettore si sentiva svincolato dal voto di governo: ad esempio nelle elezioni del 1999 Emma Bonino, con una campagna elettorale molto spregiudicata, raccolse il 9% per poi vedere il consenso contratto fino all’1% nel 2001. Una dinamica resa oggi impossibile dalla citata “politicizzazione” del prossimo appuntamento elettorale.
La seconda ragione è l’assenza di una leadership riconosciuta e riconoscibile, e carismatica come in parte era quella di Bossi. Questo potrebbe in parte spiegare la défaillance, legata anche a problemi identitari della Lega Nord. Nell’ ‘87-‘90 e a metà degli anni ‘90 la Lega si proponeva come partito antisistema. Dopo l’esperienza di governo questo messaggio è meno credibile e nei suoi tradizionali bacini elettorali – soprattutto in Veneto – il partito è stato sensibilmente soppiantato dal Movimento 5 Stelle. Questo fenomeno si poteva evincere già all’inizio del 2010 quando una parte dell’elettorale dell’Italia dei Valori venne riassorbito dal M5S a segnalare la ricerca di un (nuovo) partito “anti-sistema” o se preferisce “anti-establishment”. Ripeto, i partiti euroscettici minori della destra o altri ancor più marginali come l’Italia dei Valori difficilmente riusciranno a usare la retorica antieuropea per accrescere le proprie percentuali di consenso.
Va tuttavia sottolineato che probabilmente questo ridimensionamento non sarebbe emerso in uno scenario politico senza il Movimento 5 Stelle e che i partiti della destra nazionalista e della sinistra critica avrebbero probabilmente visto crescere il proprio elettorato. A riguardo, quale potrebbe essere il risultato in Italia della sinistra che si raccoglie dentro la lista Tsipras e della destra di Giorgia Meloni?
Non conosco molto bene le dinamiche di Tsipras a livello europeo, anche se intuisco che il leader si sia affermato con forza nello scenario ellenico: è riuscito a convogliare molti settori della protesta, è diventato leader del primo partito secondo i più recenti sondaggi e probabilmente potrebbe accedere a cariche di governo in una coalizione con i socialisti.
In Italia è stata fatta un’operazione da “cartello elettorale”: non c’è una vasta base di movimento bensì un’aggregazione di vari pezzi di classe politica dirigente “in cerca d’autore” che ha sposato quest’opportunità, adoperandosi tuttavia in una campagna elettorale non molto incisiva. Non vedo a livello nazionale una collocazione chiara, a parte l’azione di Sel e di Nichi Vendola, per la natura ibrida ed eterogenea dei movimenti che sostengono questo modello.
Non mi aspetto nemmeno una forte affermazione della destra. La costruzione sociale dei partiti dell’area non può essere paragonata a quella ben più solida del Front National di Marine Le Pen, che dal 1979 (con Jean-Marie Le Pen) costruisce la propria identità politica ed elettorale su immigrazione, lavoro e politiche securitarie.
I risultati elettorali potrebbero favorire o rallentare il ripensamento della diplomazia europea. A fronte delle tensioni che hanno circondato il continente in questi ultimi mesi, quali potrebbero essere i passi che l’UE dovrebbe compiere per guadagnare credibilità internazionale?
Catherine Ashton, Commissario europeo agli Esteri, non rappresenta l’Unione Europea intesa quale attore coerente, né un insieme omogeneo di interessi, bensì cerca di trovare una difficile sintesi tra le differenti posizioni dei ventisette capi di Stato e di governo. L’Unione Europea – e gli Stati membri – potranno avere un peso, non solo regionale, una volta conseguita la piena legittimazione dell’Europa come attore in grado di rappresentare un interlocutore percepito come forte in termini di difesa, di produzione industriale e di quota demografica, sia da partner tradizionali (gli Stati Uniti), ma anche da nuove potenze continentali, mondiali e regionali come la Cina, l’India, il Brasile, le ex tigri asiatiche e la Russia.
Rifacendomi alla scala nazionale come proiezione del comportamento elettorale sui temi delle prossime politiche dell’Unione europea, mi chiedo come possano pensare gli elettori euroscettici che l’Europa, con i suoi milioni di abitanti e circa 7% del PIL mondiale, non sia in grado di interagire con le nuove potenze, mentre lo possa essere la “Padania”, i nostalgici dei Borboni e dell’autarchia?
L’Unione europea, quindi, deve rivedere la diplomazia conferendo un mandato deciso a un rappresentante che non costituisca il semplice risultato di una logica di redistribuzione di potere tra i singoli stati o le varie componenti della coalizione di maggioranza, ma sia un interlocutore credibile e legittimato, con esperienze di governo, riconoscibilità internazionale, autorevolezza, “conoscenza della materia” e capacità di porre sul tavolo della diplomazia questioni importanti.
Sulla recente vicenda della Crimea l’Unione Europea non avrebbe voluto/dovuto giocare un ruolo di presunta mediazione tra gli Stati Uniti e la Russia. Al contrario, avrebbe dovuto essere un attore protagonista, anche attraverso l’utilizzo di vere sanzioni, perché come scrive Garry Kasparov nel libro “Scacco a Putin”, l’unica arma con cui è possibile negoziare con il presidente della Federazione russa è la forza, anche se non necessariamente militare, ma delle (reali) sanzioni economiche al suo entourage. Una scelta simile, tuttavia, può essere compiuta solo da un attore che sia consapevole degli strumenti a sua disposizione e in grado di utilizzarli agendo come un attore unitario.
Con una crisi di tale entità che ha preso forma ai confini dell’Europa questa poteva essere l’occasione giusta per presentare all’interno del dibattito politico la variabile istituzionale. Ma le idee camminano sulle gambe degli uomini e, purtroppo, un po’ meno delle donne. Ci vorrebbe l’ambizione di François Mitterrand, di Helmut Kohl, di Altiero Spinelli, insomma di figure di alto profilo politico, per rilanciare questo progetto. In questa prospettiva reputo debole la proposta politica degli euroscettici, perché noi europei abbiamo bisogno di affrontare il futuro agendo come un attore protagonista nella dimensione globale.