Il mio editoriale per il Domani parte di una serie di approfondimenti dedicati ai Presidenti della Repubblica
“Monarchico”. Il primo Presidente della Repubblica italiana aveva simpatie monarchiche e al referendum istituzionale del 2 giugno 1946 votò a favore della soluzione che in caso di vittoria avrebbe istituito una monarchia parlamentare. Luigi Einaudi aveva chiaramente manifestato la sua scelta di voto sulle pagine di un giornale (L’opinione) argomentando poco prima della consultazione che il suo timore fosse per una deriva social-comunista e comunque per una immaturità degli italiani ad affrontare la Repubblica. Il tutto, in puro stile einaudiano, sostenuto e suffragato da dati, numeri, fonti e citazioni. Insomma, un piccolo saggio pur nel sostenere una tesi e una posizione alquanto disallineate rispetto all’élite politica, ai partiti principali e agli intellettuali. La posizione pro-monarchia è da interpretare anche in relazione allo spirito dei tempi, e ad una sorta di populismo ante-litteram. In realtà Einaudi aveva ben presenti le differenze tra i due sistemi istituzionali e non votò monarchia per slancio verso i Savoia quanto per convinzione che in un inesplorato ed inedito scenario repubblicano la debolezza dello stato e dell’economia post-bellica avrebbero fatto naufragare la fragile ritrovata democrazia italiana. Una democrazia parlamentare cui, come ribadì nel discorso di insediamento presidenziale, “aveva dato più di una mera adesione”, proprio a rimarcare la distanza con la precedente opinione espressa nel 1946.
La storia culturale, umana e politica di Einaudi si iscrive completamente nella cultura liberale e liberista in campo economico. Senza sconti o ipocrisie. Le sue simpatie per il (proto) socialismo contadino si trasformarono via via in sospetto e ostilità con il radicalizzarsi del movimento degli anni Dieci e Venti. Fece parte del movimento federalista europeo e si muoveva con agilità negli ambienti europee ed internazionali (trascorse vari periodi di studio negli USA, tra l’altro). La prudenza e anche una certa “condiscendenza” iniziale per il regime fascista, intesa come concessione di credito a un governo che annunciava di contenere la crescente voglia di protagonismo delle masse operaie e contadine e taluni disegni “collettivisti”, scomparvero in un baleno allorché Benito Mussolini si macchiò, reo confesso, della commissione dell’omicidio di Giacomo Matteotti. Einaudi come molti liberali ruppe gli indugi e criticò aspramente quanti non presero parola contro il regime, specialmente gli industriali. E rimase solidamente avversario del regime. Tanto da firmare con Benedetto Croce il manifesto degli intellettuali contro il fascismo nel 1925.
Mite, colto, raffinato. Bibliofilo e proprietario terriero. Figlio del suo tempo, cui si adattò, senza piegarvisi. Le origini piemontesi emergevano quanto ad ammirazione per uno Stato efficiente e strutturato derivante dall’influenza di stampo francofono. Sul versante sociale ed economico Einaudi era ammiratore della Gran Bretagna e del modello finanziario, industriale e politico d’oltre Manica. Fu collaboratore del Corsera e de l’Economist, ma soprattutto professore universitario di scienza delle finanze, apprezzato in Italia e all’estero. In ambito accademico ebbe come allievi personalità di rango, quali Antonio Gramsci, Carlo Rosselli e Piero Gobetti nonché Togliatti che con luì si laureò. Per dire come andava all’epoca. Membro della Costituente, venne eletto nel collegio unico nazionale per il cartello Unione democratica nazionale, insieme di liberali e conservatori, quale candidato del Partito liberale italiano nelle due circoscrizioni piemontesi. Del PLI fu esponente di punta, certamente in termini di prestigio, derivante dalla cospicua reputazione internazionale quale economista. Era stato nominato senatore nel 1919 in qualità componente di una delle classi (Accademia delle scienze) previste dallo Statuto Albertino quale condizione per far parte della camera Alta. Carica che ricoprì fino al 1946, appunto. Da senatore (quarantasei contrari) votò contro la lista unica del fascismo nel 1928 per le elezioni plebiscitarie dell’anno dopo. E non sottoscrisse un manifesto che inneggiava alla guerra italiana in Etiopia, ma soprattutto votò contro le leggi razziali del 1938. Nel 1943 fu costretto a riparare in Svizzera.
Einaudi fu dunque un politico completo e di lungo corso, ma/e con competenze e reputazione, binomi oggi in disuso. Nel periodo post-bellico ricoprì il ruolo di Governatore della Banca d’Italia e le sue idee sul ruolo dello stato “controllore” benché limitato dell’economia lasciando spazio al privato, ma anche abile nel colpire durissimamente nei “gradi più alti delle fortune”.
Ad Einaudi si deve il riferimento alla previsione di bilancio per ogni spesa come nell’art. 81, mentre si oppose all’“utilità sociale” contenuta nell’art. 41 della Costituzione che mitiga, contiene, circoscrive l’azione dirompente e potenzialmente destabilizzante dell’economia lasciata senza controlli, perché Einaudi la riteneva un’espressione troppo vaga e difficilmente misurabile. Il settennato einaudiano, il primo repubblicano, fu chiaramente durissimo su diversi versanti. Il Paese era da ricostruire, lo Stato da rifondare, la Repubblica da inventare. Nominò tutti i governi De Gasperi che coprirono l’intera prima legislatura e l’avvio della seconda, e poi con l’uscita di scena dello statista trentino indicò Giuseppe Pella, scelto da Einaudi tra i suoi collaboratori e votato dalla Dc e dal Partito nazionale monarchico. Tecnicamente fu il primo spazio di manovra presidenziale nella nuova Repubblica parlamentare; la fase chiave del suo agire politico poiché procedette senza consultazioni. Poi venne Mario Scelba la cui reputazione di uomo d’ordine da ministro dell’interno gli valse il coordinamento del governo proprio quando il paese aveva bisogno di distensione, e rimase in carica fino alla fine del settennato presidenziale. E segnò l’abbandono della politica centrista dei governi post-bellici.
Einaudi è stato il primo presidente eletto dal parlamento repubblicano (1948-1955), sebbene diventi il secondo se nel computo includiamo Enrico De Nicola che però fu capo “provvisorio” dello Stato dopo il 1946 eletto dalla Costituente e poi per un semestre assunse il titolo di Presidente. Eletto a 74 anni con il 57 per cento al quarto scrutinio da una maggioranza “governativa” formata da DC, PLI e PSDI più repubblicani e monarchici, Einaudi riuscì a spuntarla sui suoi contendenti. La DC di De Gasperi puntò su Carlo Sforza, ma la corrente di sinistra (dossettiani) ne ostacolò l’ascesa. I comunisti non vennero coinvolti nella scelta né incisero. Nominò otto senatori a vita: il maestro Arturo Toscanini rifiutò e Trilussa rimase in carica tre settimane. Viceversa, non poté procedere alla nomina di alcun giudice della Corte costituzionale perché venne istituita nel 1956, ossia un anno dopo la fine del mandato presidenziale. In termini di esercizio delle prerogative del capo dello Stato, Einaudi fu abbastanza parco. Rinviò per quattro volte al parlamento altrettante leggi. Nel 1953, al termine della prima legislatura si pose un problema politico ed istituzionale connesso al sistema bicamerale del parlamento. Einaudi procedette allo scioglimento delle camere, includendo il Senato al fine di consentire agli elettori di votare contemporaneamente per entrambe le assemblee posto che i senatori avevano un mandato di sei anni, rispetto a quello quinquennale dei deputati.
Le politiche del 1953 si svolsero con la prospettiva della possibile applicazione della cosiddetta legge elettorale “truffa”, voluta dal governo De Gasperi. Norma che avrebbe allocato il 65 per cento dei seggi al partito, o coalizione, che avesse raccolto il 50 per cento più uno dei voti. Pertanto, conferendo una maggioranza potenzialmente in grado di modificare la Costituzione quasi in autonomia e senza ricorso al referendum.
Ormai ottuagenario alla fine del settennato, fu considerato da ambienti democristiani per la rielezione e venne votato dai partiti di centro-destra ricevendo un centinaio di voti. Fu il primo presidente a risiedere al palazzo del Quirinale; utilizzava un bastone da passeggio e perciò dava l’aria di essere un po’ claudicante, in un certo senso la metafora dell’Italia uscita dalla guerra e dalla dittatura fascista. Einaudi è stato un Presidente dotato di un cospicuo slancio intellettuale, riconosciuto universalmente, per le sue parole e i suoi scritti, soprattutto. Inutili. E prediche. Così intitolò una raccolta di suoi saggi sui problemi dell’Italia. Termini in qualche misura sinonimi avendo la predica insito un costitutivo elemento giaculatorio, rivolto a uditori distratti, a fedeli costretti. Un compendio di accorati e acuti inni alla virtù, le sue puntuali analisi, sempre sostenute per tabula, su vari aspetti sociali, politici e ovviamente economici che investivano l’Italia. “Prediche inutili”, perché non ci sono (stati) scolari direbbe Gramsci. E infine, ma non ultima, l’insistenza per un approccio scientifico, comparato, misurato, che innervasse anche le decisioni politiche, quel monito sempre attuale e mai fin in fondo attuato in Italia: “Conoscere per deliberare”.