Il mio editoriale per il Domani parte di una serie di approfondimenti dedicati ai Presidenti della Repubblica
Dopo un liberale e due democristiani fu il turno di un socialdemocratico. Che aveva già tentato la scalata alla Luna contro Segni. E per poco non riuscì nell’impresa, che forse però avrebbe intimorito gli avversari del nascente centrosinistra per l’avvicendamento tra un esponente conservatore della Dc e uno riformista dei socialisti.
Saragat aveva maturato grande esperienza politica e competenze. Da ministro degli esteri, ambasciatore a Parigi. E soprattutto in qualità di (primo) presidente dell’Assemblea costituente tra il 1946-47. E soprattutto segretario del partito socialdemocratico, a più riprese, prima e dopo la parentesi del settennato al Quirinale. Da antifascista fu costretto all’esilio in Francia negli anni Venti, per poi tornare in Italia all’indomani dell’8 settembre ed essere però arrestato, recluso a Regina Coeli e condannato a morte dai nazisti. Con lui c’era a condividere la sorte un altro futuro capo dello Stato, e socialista, Sandro Pertini. Entrambi liberati grazie a una audace azione di partigiani, avvocati, socialisti, degna di un film d’azione. Ininterrottamente deputato dal 1946 sempre ri-eletto nella circoscrizione di Torino – città natale – fino all’elezione presidenziale e successivamente senatore a vita per diritto. Fu artefice della cosiddetta scissione di “palazzo Barberini”, un’operazione politica d’avanguardia, lungimirante che puntò a scardinare l’asse tra Pci e Psi per proporre una politica di stampo socialdemocratico riformista proprio partendo da una critica al marxismo ortodosso. Ne nacque il Psli nel 1947 e coerentemente con questa scelta si oppose alla strategia elettorale del cartello delle sinistre social-comuniste alleate nel Fronte popolare nel 1948. Le vicende successive alla pubblicazione del Rapporto segreto di Nikita Chruščёv sui crimini dello stalinismo fecero barcollare molte delle certezze socialiste e l’alleanza strategica con i comunisti. Saragat e Nenni, acerrimi nemici, siglarono un patto di alleanza (il famoso incontro di Pralognan, in Francia) che di fatto aprì la strada alla futura creazione del centrosinistra organico con la Dc. E in cui, nel 1963, proprio Saragat ebbe un ruolo di rilievo ricoprendo la carica di ministro degli esteri nel primo Governo Moro.
Al Colle lo condusse il sostegno del Pci, di tutta la famiglia socialista e della sinistra interna della Dc capeggiata da Aldo Moro. Mancavano tre giorni alla fine del 1964 e sul nome di Saragat conversero i due terzi dei grandi elettori concordi sul suo nome, ma solo al ventunesimo scrutinio. La partita fu lunga, articolata e complicata, all’inizio quasi uno stallo tripolare: i comunisti sostenettero Terracini, i democristiani Leone e i socialisti prima Saragat/Nenni e poi, appunto, il leader del Psdi. L’elezione di Saragat è stata quella più tesa, contesa, incerta sul piano politico, divisiva e “partitica”, nel senso che i vari attori hanno faticato a trovare un consenso e un accordo su nome comune. Alla candidatura Dc di Leone si contrappose quella di Fanfani. La contesa tra i due esponenti democristiani genera uno stallo per una dozzina di scrutini, e a quel punto entrambi abbandonano la corsa. La Dc non poté sostenere Nenni poiché candidato anche dal Pci e quindi virò su Saragat al pari dei socialisti uniti. La posizione di Saragat in chiave presidenziale era solida per il suo lungo e prestigioso curriculum, ma si consolidò dopo le elezioni politiche del 1963 allorché il suo partito, il Psdi, poté capitalizzare la partecipazione al governo di centrosinistra (circa 7% voti) e rivendicare l’azione compiuta per la nazionalizzazione dell’energia elettrica, l’istituzione della scuola media pubblica il tutto condensato in un messaggio elettorale moderno e ambizioso: “scuole, case e ospedali”. La ritrovata unità socialista tra Psi e Psdi (Psu) del 1966, fu di breve durata e il negativo risultato fu al di sotto delle aspettative e soprattutto inferiore alla somma dei consensi raccolti dalle due formazioni separatamente. Il Psi subì una scissione a sinistra (Psiup) e il Psdi tornò alle origini; il sodalizio era durata meno di tre anni. Saragat causticamente annotò il rischio della divisione: “un dramma, una sciagura, una rovina”. Ma per lui, convinto atlantista e anticomunista, lo era meno del cedimento al Pci.
La presidenza Saragat coincise con una lunga e dura fase di lotte sociali e politiche. Il movimento del 1968, l’autunno “caldo” e le rivendicazioni del lavoro e di una generazione nuova, che da Parigi e Berkley arrivò fino a Valle Giulia. Inoltre, la stagione terroristica neofascista iniziata il “12 dicembre” macchiarono la rinascita del Paese e marchiarono a fuoco la giovane democrazia in cerca di stabilità e solidità. Si aggiungessero le folli scorribande omicide brigatiste “rosse”. La Primavera di Praga, i roghi, i carri armati sovietici, e Jan Palach trasformatosi volontariamente in bonzo di fuoco per protesta contro i carri armati, confermarono in Saragat le sue “riserve” anti-sovietiche e anti-comuniste rinsaldando il suo atlantismo.
Il punto politico e sociale più basso nell’Italia che attraversò la presidenza di Saragat si registrò nel 1970. Nella notte dell’Immacolata ci fu la prova per rovesciare le istituzioni democratiche e instaurare un regime autoritario in linea con le tendenze nel resto dell’Europa mediterranea, e in particolare con la dittatura dei Colonnelli in Grecia. Fu il tentativo di golpe, quello del viscido grumo di trame poteri, interessi, debolezze, viltà e collusioni che ancora erano presenti in tanti corpi istituzionali e politici dello Stato. Capitanati da Junio Valerio Borghese, già alla guida della famigerata X-MAS, un reparto di repubblichini attivo nella “repubblica” fantoccio di Salò, che provò a mutare e minare le istituzioni della Repubblica nata nel 1948. Il “colpo di stato coi forestali” (l’unità mobilitata per questo) fallì per vicende mai chiarite del tutto, sebbene l’intervento di una parte dei Servizi segreti e della Cia fosse chiaro. Il piano prevedeva tra gli altri l’arresto proprio del Presidente Saragat. Nel 1967 scoppiò il caso SIFAR, ossia lo svelamento delle trame oscure e sediziose di una componente importante dei servizi segreti, guidati da de Lorenzo già implicato nel “piano solo” durante la fase finale della presidenza Segni. Migliaia di schedature, trame militari, di cui diede conto in uno scoop il settimanale l’Espresso. Saragat intervenne poi, infine, in una diatriba con i magistrati che intendevano promuovere uno sciopero: da presidente del Csm ricordò che la “funzione sovrana” dei magistrati dovesse indurli a riflettere sull’opportunità dell’astensione dal lavoro.
Durante il settennato Saragat affrontò e gestì sei crisi di governo, a conferma del grande fermento politico e sociale in una fase complicata per il centrosinistra che stava perdendo la sua spinta propulsiva. In quadro che però non presagiva un mutamento dell’assetto emerso nel 1963 con l’ingresso del Psi nella compagine di governo, e soprattutto con la persistente e permanente esclusione del Pci dall’agone governativo. Le crisi gestite da Saragat durarono diverse settimane (in tre casi anche un mese) ed enfatizzarono il livello di conflittualità infra-coalizionale esacerbato dal correntismo di Dc e Psi e dell’assenza di alternativa/alternanza. Se il ruolo di Saragat fu complessivamente rivolto a prendere atto delle crisi partitiche e della coalizione anche generate dal dopo elezioni (locali o nazionali), in un frangente ebbe un momento di attivismo inusuale. Con la crisi del governo Moro (III) Saragat assunse un ruolo centrale conferendo un incarico a Giovanni Leone, con una scelta fortemente voluta dal capo dello Stato, ossia un monocolore DC, operata in chiave di temporeggiamento per fare riassettare gli equilibri in seno alla coalizione. Identica azione attendista fu dettata dal governo Rumor (II), quei governi di breve durata, “balneari”, difficili da spiegare all’estero, e per il quale Saragat si adoperò tentando di fronteggiare la crisi della coalizione di centrosinistra esasperata dalla scissione interna al campo socialista. Saragat, dunque, agisce in qualche misura su un doppio binario: quello perfettamente allineato allorché la maggioranza parlamentare del conio centrosinistra naviga in acque chete, e quello di un presidente “interventista” quando la coalizione mostra la corda per tensioni. Con il suo ruolo di (ex) capo partito di una forza rilevante e determinante per la coalizione, riesce non solo a garantirne la presenza e la lealtà, ma anche a mitigare i conflitti con il principale competitore, il Psi, con generale beneficio per gli alleati.
Non esercitò il potere di rinvio alle Camere di testi legislativi approvati dal parlamento, unico caso di assenza di richieste del Presidente della Repubblica di nuove deliberazioni di leggi. Nel discorso di insediamento e giuramento ebbe chiaramente un approccio votato alla “separazione” dei poteri, in particolare di rispetto delle dinamiche tra legislativo ed esecutivo, anche alla luce del nuovo corso politico dato dal centrosinistra. Saragat, quarto capo dello Stato, innovò la presidenza anche per il suo attivismo in termini di presenze esterne al Quirinale, visitando una società in fermento e in cerca di riferimenti istituzionali con cui identificarsi.
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