Il mio editoriale per il Domani parte di una serie di approfondimenti dedicati ai Presidenti della Repubblica
Un uomo scalzo corre nella notte romana. È Abebe Bikila e vince la maratona alle Olimpiadi del 1960. Da etiope fu una rivincita postuma rispetto all’Italia fascista, e po’ ricordò Jesse Owens a Berlino nel 1938 davanti a un furioso Hitler, e alla guerra che questa mosse al paese del corno d’Africa nel 1935. E che aveva preparato il complesso dell’Eur 1942 per l’esposizione universale che mai avvenne perché la guerra mondiale arrivò, certo, ma l’Italia decise di entrarvi con “maschio” entusiasmo. È il contesto nazionale e il proscenio internazionale che contrassegna la presidenza di Giovanni Gronchi, secondo capo dello Stato e primo democristiano a ricoprire tale ruolo. I giochi olimpici, i Trattati di Roma e il boom economico, nonché il sempre presente confine ideologico – simbolico e sociale – che divideva l’Italia al suo interno e ne faceva un limes naturale e geopolitico tra Est ed Ovest, ridiedero centralità politica alla Penisola dopo le ingiurie del conflitto. Il centrismo come formula politica (con Dc, Psdi, Pli e Pri) era entrato in crisi anche per la contrazione elettorale democristiana del dopo De Gasperi e non apparve più sufficiente per contenere le istanze delle incipienti pressioni sociali e rispondere alle crescenti rivendicazioni di diritti, sociali, civili, individuali. I segnali delle difficoltà della guida democristiana “indipendente” si erano palesati già con il governo Pella e con quello Scelba durante la fase finale del settennato di Einaudi. Solo la fermezza e irremovibilità di De Gasperi avevano consentito di evitare derive estreme ed alleanze pericolose come pure la componente di destra DC, legata ad ambienti curiali vicini al pontefice Pio XII, aveva tentato con “operazione Sturzo” alle comunali di Roma del 1952 puntando a un sodalizio con monarchici e nostalgici del ventennio.
Gronchi ricoprì la carica di Presidente della Repubblica tra il 1955 e il 1962, in uno scenario internazionale da brividi. In Francia la neonata Quinta Repubblica si consolidò ed elesse – con voto popolare diretto – il proprio presidente grazie alla svolta costituzionale impressa dal generale De Gaulle. Negli Stati Uniti la vittoria di John Kennedy aprì una fase nuova anche con l’Europa e più in generale con l’Est. Proprio con il capo del Cremlino Gronchi ebbe scambi al fulmicotone durante una visita ufficiale in Unione Sovietica, sia parlando dello status giuridico internazionale di Berlino che circa i rispettivi meriti e la superiorità del capitalismo e del comunismo. A un intraprendente Gronchi che chiedeva se non fosse auspicabile un pronunciamento dei cittadini tedeschi, attraverso referendum, circa la natura costituzionale delle “due” Germanie, Chruščëv replicò invitandolo ad iscriversi al partito comunista. Suggerimento cui laconicamente il capo dello Stato italiano rilanciò propalando le virtù della DC di cui offriva la tessera. Il presidente italiano era nettamente a favore del dialogo, del contenimento della guerra fredda. In questo senso fu molto attivo in politica estera, con esiti a volte contrastanti tanto da creare qualche tensione con gli USA. L’occasione fu la crisi di Suez del 1956 per la quale Gronchi caldeggiò maggiore attivismo italiano a favore della posizione americana rispetto a quella del duo franco-britannico, sia in Egitto, ma anche nel resto dell’Africa nonché sulla questione “Germania”. La missiva inviata da Gronchi, in risposta ad una del presidente USA recapitata al Quirinale dal vice-presidente Nixon in visita a Roma, venne bloccata al ministero degli affari esteri perché, si disse, non linea con la posizione meno assertiva del governo guidato da Segni. Ma il lavorio di Gronchi in ambito internazionale ebbe una eco importante anche attraverso il sostegno chiede ad Enrico Mattei ed alla sua politica energetica e geo-politica che prevedeva un approccio eterodosso rispetto al cosiddetto Terzo Mondo.
La distensione sul piano internazionale significò anche un tentativo di mitigazione della tensione post-bellica tra gli ex alleati del CLN poi separati da Jalta. Un accenno all’apertura a “sinistra”, non certo al PCI, ma ai socialisti che Gronchi, e una parte della DC, intendevano sottrarre all’orbita comunista. L’entrata al governo dei socialisti in realtà si realizzerà solo dopo la presidenza Gronchi. Il quale aderì sin dall’inizio al Partito popolare con Luigi Sturzo e fu eletto alla Camera nel 1919. Sottosegretario nel governo di Mussolini si dimise non appena il fascismo manifestò compiutamente la sua natura liberticida e criminale, in particolare dopo il 1924 e l’omicidio di Matteotti. Non che i prodromi non ci fossero, patenti, ma molti liberali e popolari aprirono un canale di fiducia al regime soprattutto quale contenimento della minaccia social-comunista.
Da (primo) presidente della camera (1948-1955) esercitò abilmente il ruolo per stabilire una fitta rete di rapporti con i gruppi politici funzionali all’elezione presidenziale, mostrando capacità negoziali e retoriche. La morte di De Gasperi aprì la partita del Quirinale ad altri nuovi potenziali candidati. Amintore Fanfani, segretario del partito, ma anche Cesare Merzagora, presidente del Senato, e “indipendente” nelle fila DC e quindi in grado di far convogliare su di sé anche i voti degli altri partiti della maggioranza di governo. Ma gli equilibri nella Direzione e nei gruppi parlamentari democristiani mutarono a favore di Gronchi, sia per il minore sfavore di PSI e PCI che per la maggiore popolarità e funzionalità al disegno “aperturista”.
Per la prima volta all’elezione del capo dello Stato parteciparono i delegati regionali, almeno di quelle regioni “speciali” posto che le “ordinarie” vennero istituite nel 1970 e i loro delegati votarono solo a partire dall’elezione di Leone l’anno dopo.
Eletto al quarto scrutinio con 658 voti (78%) provenienti da DC, di cui era candidato ufficiale dopo il superamento della candidatura di Merzagora e del ministro Martino, dal Pci – che intese essere decisivo anche in chiave anti-centrista dopo il forfait nel caso dell’elezione di Einaudi-, dal Psi, dal Msi e dai monarchici. Il presidente uscente raccolse un buon numero di voti (circa 70) sostenuto prevalentemente dai liberali e dai socialdemocratici. Come in precedenza Einaudi con il governo Pella, Gronchi tentò l’opzione “governo del presidente” nominando Adone Zoli, per un esecutivo che potesse attrarre il sostegno esterno dei socialisti, elemento che tuttavia non poté giungere a maturazione stante il sodalizio ancora cospicuo a livello nazionale tra socialisti e comunisti. Patto incrinato con la denuncia dello stesso successivamente ai fatti di Ungheria nel 1956 che minarono i rapporti tra PCI e PSI avvicinando la DC. Approccio che avvenne con il varo del quarto governo Fanfani nel 1958 che ebbe la benevola astensione dei socialisti, prodromica al centro-sinistra organico di un lustro dopo.
Lo scoglio più difficile che Gronchi dovette affrontare fu probabilmente una grana superlativa in ambito interno, con il governo Tambroni. Il 1960 la scelta di svolgere a Genova il congresso del Msi fu l’occasione per le opposizioni, interne ed esterne, di indebolire l’esecutivo monocolore democristiano. Lo svolgimento dell’assise nella città medaglia d’oro al valor militare alla Resistenza fu visto come un affronto anche per il sostegno determinante dei voti missini al governo, di cui lo stesso Gronchi respinse le dimissioni nel passaggio tra Camera e Senato. La rivolta popolare fu ampia, diffusa e durissima ché le provocazioni reazionarie all’epoca non passavano sottotono. Gli scontri furono furiosi e la polizia guidata da Scelba reagì mobilitando il famigerato reparto “Celere” creato nel post-guerra per “contenere” le tensioni e le ripercussioni derivanti dalla fine del conflitto. Molti caddero vittima della repressione e decine di feriti e una dozzina di uccisi si registrarono in tutta la penisola, da Licata fino al caso eclatante dei morti di Reggio Emilia. Cinque iscritti al PCI. A seguito di tale episodio Tambroni rassegnò le dimissioni: molti processi e nessun colpevole.
Rispetto alla prima presidenza “notarile” di Einaudi, Gronchi ebbe un approccio molto più diretto, interventista, deciso e decisivo nell’affrontare i rapporti con il parlamento, le maggioranze di governo e i partiti. In una lunga fase di passaggio, di transizione, tra la senescenza del centrismo e l’incerta prospettiva dell’apertura a sinistra. Con buona dose di pragmatismo riuscì a mediare, negoziare, imporsi quando necessario, per superare le non poche difficoltà della terza legislatura, del calo di voti democristiani nel 1953 e di un settennato costellato di insidie nazionali e di sommovimenti internazionali. La fase di minore influenza la ebbe durante la formazione del governo Fanfani (III) che sancì il passaggio dalle “convergenze parallele” – dialogo con i socialisti e opposizione al comunismo – al prologo del centrosinistra organico, e per plateale protesta si ritirò alcuni giorni nella tenuta presidenziale di San Rossore. Il centrosinistra in prospettiva fu aiutato proprio da vicende interne verificatesi durante la sua presidenza: l’enciclica Mater et Magistra nonché l’elezione presidenziale di Kennedy negli USA che allentò la tensione internazionale. Nominò un solo senatore a vita e rinviò alle camere tre leggi. In due casi rifiutò la promulgazione per mancanza di copertura finanziaria, mentre in un altro richiamò l’art. 73 in quanto il governo gli aveva trasmesso il testo legislativo «oltre il termine stabilito dalla Costituzione»: più che di formalismo giuridico si trattò di un momento di forte tensione con il presidente del consiglio (Fanfani), emblematico del dualismo politico esistente. Si adoperò per l’istituzione del Cnel, della Corte costituzionale e del Csm. Sconfortato da una valutazione di impossibilità di incidere sulla politica, Gronchi fu tentato di proporre l’elezione diretta del capo dello stato con un mandato di quattro anni, probabilmente anche influenzato dalla neonata esperienza d’oltralpe.
Una discreta popolarità, la normale ambizione e qualche sostegno politico fuori e dentro il parlamento e l’età non troppo avanzata aprirono la strada per una possibile rielezione, ma il segretario dello scudo crociato, Aldo Moro, si oppose. Uscì di scena da senatore a vita nel quasi disinteresse popolare generale posto che morì il giorno dopo dell’elezione di Karol Wojtila.