Candidati sindaci e partiti. A Bologna lo schema è ancora paritario

Il mio editoriale di oggi per il Corriere di Bologna-Corriere della Sera

Insieme all’ovvio e scontato interesse e interrogativo su chi avrebbe vinto, se al primo turno ovvero al ballottaggio, e su quanti elettori si sarebbero recati al seggio, la domanda sul ruolo del candidato alla carica di primo cittadino è stata e rimane centrale, focale. Alle elezioni amministrative la figura del potenziale sindaco ha assunto un ruolo preminente sul versante istituzionale, nella fase di campagna elettorale e successivamente nella guida della giunta locale. Per una serie di concomitanti ragioni, dunque, il primo cittadino si pone all’intersezione di una serie di interessi, figure politiche e amministrative. La vulgata la definisce “personalizzazione”, ma si tratta di un fenomeno politico articolato e a tratti difficile da indagare. Qual è il peso specifico del candidato sindaco? Quanto conta e incide sul complesso della sua lista e della sua coalizione? Il Sindaco quale primus super pares che guida l’azione politica, nomina e se del caso dimette gli assessori, risponde in prima persona dell’andamento amministrativo e rappresenta simbolicamente oltre che formalmente la città.  

La principale innovazione della legge elettorale per i Comuni introdotta nel 1993 prevede l’elezione “diretta del sindaco”. E pertanto lo pone in una situazione di centralità elettorale, prima che politica, di fronte agli elettori e certamente di primazia rispetto ai candidati consiglio. Perciò da circa vent’anni sono gli elettori che selezionano direttamente i sindaci delle proprie città, con conseguenze rilevanti sul rapporto tra partiti, candidati e cittadini. La riforma del 1993 ha infatti contribuito a scardinare l’intermediazione dei partiti politici quali rappresentanti dei cittadini/elettori in seno alle assemblee democratiche. Il voto, è stato detto e scritto a iosa, ha assunto sempre più caratteristiche personali pro o contro l’aspirante sindaco. Viceversa, o meglio in conseguenza di questa prospettiva, la vittoria – o la sconfitta – di uno schieramento politico sono state ascritte quasi interamente alla prestazione del potenziale Cesare locale. Al fine di misurare, di dare conto di tale potenziale di capitale politico e personale individuale, è possibile ricorrere al numero di voti conferiti al solo candidato sindaco.  O meglio, allo scarto algebrico tra il totale di voti alle liste a lui/lei collegate e quelli in capo ai concorrenti per le chiavi della città. Si tratta di un dato importante, sebbene aggregato e “sporco” sul piano metodologico perché non tiene conto dei movimenti tra schieramenti, ossia non sappiamo quanti consensi al sindaco di un dato schieramento provengano da un voto disgiunto o da un voto solo per il capolista. L’interrogativo su quanti voti ha “portato” il candidato sindaco è pertanto una euristica importante, sebbene non l’unica, del suo peso specifico politico ed elettorale. La facoltà conferita agli elettori di esprimere un voto disgiunto (ossia il voto conferito a un partito e a un candidato sindaco di schieramenti diversi) amplificano potenzialmente e a dismisura le chances per alcuni di ergersi a collettori di consensi ad personam. Nella campagna elettorale appena conclusa il candidato del centrosinistra Matteo Lepore ha rivolto un esplicito appello al “voto disgiunto” segnalando che non avrebbe disdegnato il consenso di elettori sostenitori di liste di centrodestra, ma che avessero voluto indicare lui per Palazzo d’Accursio anziché il campione della destra. Un dato che pare non sia emerso, anzi. 

Storicamente sinistra e destra, non solo a Bologna, hanno elettorati con un profilo e un comportamento elettorale abbastanza differenziati e marcati soprattutto quanto a fedeltà per il leader ovvero ad adesione (acritica) per il partito di riferimento. 

Nel periodo tra il 1995 e il 2021 per il centrosinistra si registra un costante calo dal 1999, quando la candidata Silvia Bartolini fece registrare il maggiore distacco tra i voti alla sua persona e quelli per le liste collegate (+12%). Il dato minore si è avuto nel 2016 allorché il sindaco uscente Virginio Merola raccolse meno consensi dei partiti che lo sostenevano (-2%, pari a circa 2.000 schede). Nella maggior parte dei casi il dato ha mostrato un valore sopra a 1, ossia il candidato alla carica di sindaco ha ricevuto più voti delle liste a lui collegate, ma questo rapporto è diminuito ininterrottamente. Il centrodestra ha sperimentato una dinamica declinante nel complesso, ma con andamento molto altalenante per i singoli passaggi, a conferma del ruolo dirimente della personalità candidata. Nel complesso, per la rilevanza del voto al solo candidato in città ha inciso il peso delle liste (il cui numero medio è cresciuto in entrambi i campi), la tradizione dei partiti e del voto di appartenenza/espressivo (soprattutto a sinistra ancora conta) e il voto di preferenza (una iattura trasversale in passato poco conosciuta in città). E ovviamente il profilo del candidato, posto che il tutto si esaurisce in una sfida tra uomini (e qualche volta qualche donna) per il consenso.

Matteo Lepore ha raccolto il secondo peggior dato nella storia elettorale della città dopo il dato di Merola, con una distanza di circa il 3% rispetto alle liste. Indicatore di una debole capacità di allargare il cerchio del centrosinistra, ossia di prendere quei voti “disgiunti” cui faceva riferimento, e in certa misura in coerenza con l’appello al voto identitario della città “progressista”. Ma anche al cordone sanitario costruito dai partiti attorno alla sua figura, meno centralizzante di quanto abbiano detto i suoi avversari. 

Fabio Battistini fa abbastanza meglio delle cinque liste a lui collegate (circa 5%), portando in dote un buon capitale politico, potenzialmente meglio utilizzabile se la partita fosse iniziata prima.

Considerando che in una elezione per una carica monocratica i potenziali aspiranti vincitori sono soltanto due, è utile guardare il livello di polarizzazione del consenso. Con il massimo del duello Cofferati-Guazzaloca (97% per i due contendenti), al minimo tra Merola e Borgonzoni (62%), fino ad oggi con il 91%. 

E i bolognesi, in tutto ciò? L’astensione alle comunali è passata dal 13% del 1995 al 40% del 2016 e al 48% del 2021. Un grande e inquietante segnale, ma coerente con le scellerate scelte degli ultimi lustri. Anche frutto di una deliberata campagna elettorale soporifera e annichilita.  Dinamica non dissimile rispetto alle elezioni europee e alle politiche. Segno dei tempi, ma anche esito di comportamenti devianti, troppi centri commerciali, troppi aperitivi, troppo individualismo, troppo qualunquismo becero, troppa poca analisi e studio nei partiti. Tornate alla politica, ai partiti (sì, ha letto bene) all’agorà, diffidate della solitudine. 

(Foto tratta dalla pagina Facebook Pubblica di Matteo Lepore)