Il mio editoriale di oggi per il Corriere di Bologna-Corriere della Sera
“A fare a gara a fare i puri, troverai sempre uno più puro… che ti epura.” Pietro Nenni, socialista, non proprio dal temperamento molle, sintetizzò egregiamente e solennemente il rischio del massimalismo, dell’ortodossia rispetto al pragmatismo idealista dei riformisti. Tacciati appunto di tradimento rispetto al verbo del proprio campo di riferimento, la sinistra. Una storia antica, che rimanda agli inizi del secolo scorso e che ancora si trascina e riemerge carsicamente. Salvo che a lanciare anatemi non sono gruppi espressione di forze alternative a quella dominante, ma componenti che un tempo sarebbero state indicate come settarie. Nel caso di Bologna questa tensione ha una lunga, e oserei dire nobile, tradizione consumatasi tra le mura domestiche, ma con ripercussioni anche nazionali.
Le recenti occupazioni di stabili a Bologna hanno riattizzato un dibattito mai sopito circa la libertà, il tasso di eterodossia e di “libertà” in città. La questione non si risolve con una schietta dicotomia, con una scelta di campo tra favorevoli e contrari. L’illegalità non può essere ammessa, né condiscesa, o peggio evocata ed esaltata. In linea di principio, ovviamente, le norme tutelano infatti i più deboli, dai soprusi e dall’arbitrio. Il riferimento alla presenza di un “giudice a Berlino” rappresenta la summa della speranza che anche il piccolo mugnaio germanico possa trovare giustizia nella legge. La quale può essere certamente emendabile, contestabile, fallibile e persino abietta. Ma la procedura per modificarla deve, o dovrebbe, rimanere entro canali istituzionali e comunque non “violenti”.
Bologna è stata per anni la città con molti stabili occupati, ciascuno dei quali aveva una storia a sé stante. Con esperienze diversificate, di partecipazione, socializzazione, cultura, solidarietà e crescita sociale. I centri sociali “okkupati” sono stati un po’ la cifra della Bologna ribelle, la sua identità alternativa in un contesto di sostanziale stabilità politica, di crescita economica e benessere diffuso. Non si tratta di sostenere il conformismo e a volte il perbenismo.
La città felsinea ha vissuto i “fatti di Palazzo d’Accursio” nel 1920 con la violenza squadrista fascista, ha visto il giovanetto Anteo ucciso nel suo anelito di libertà e ha dato lustro alla dignità patria con la lotta partigiana, le battaglie operaie e sindacali, ed è rimasta in piedi pur con le amare ferite del terrorismo nero del “2 agosto” e della strage di Ustica, e dell’assassinio di Marco Biagi. Come nel resto del mondo occidentale dopo circa un ventennio di crescita economica e materiale, anche a Bologna prese vita il movimento di contestazione, che ebbe una appendice, sebbene in parte del tutto nuova, sul finire degli anni Settanta. La protesta, il movimento del ’77, l’omicidio brutale di Francesco Lorusso, Radio Alice libertaria e scanzonata, diedero una sberla a una città sonnacchiosa e forse troppo preda del consumo. Nel complesso Bologna ha mantenuto una saggia dose di equilibrio tra crescita economica, diritti sociali e politici, welfare e eterodossia.
Il sindaco in carica è stato oggetto, anche di recente, di pesanti minacce. Le quali travalicano la linea legittima della contestazione e della critica, del confronto, dello scontro ideale e politico. Della lotta politica. Matteo Lepore è un politico dialogante, aperto al confronto, democratico e coraggioso. Le posizioni sullo Ius soli, sulle manifestazioni di dissenso in generale, sui diritti civili, sulla tutale dell’ambiente, e sulla guerra segnalano un primo cittadino progressista. Semmai il problema risiede, ma lo scrissi in tempi non sospetti, in una coalizione larga, forse troppo, ma che sino ad ora ha dimostrato di reggere a rischi di avventurismo. Richiamare e rispettare la legalità, banalmente, non è sinonimo di “legge e ordine”, parole e approcci che mi paiono distanti da Lepore. Che può, come tutti, certamente essere contestato, ma nei luoghi e nei modi che non giungano alla violenza, mai.
Insomma, Bologna non “è Cremona”, per richiamare una felice battuta di chi contestava al sindaco “sceriffo” Sergio Cofferati un approccio texano e burocratico. Basti ricordare i giornalisti tenuti a bada, come ha efficacemente descritto da Olivio Romanini su queste colonne commemorando Serafino d’Onofrio.
Il conflitto è fondamentale, necessario, vitale per la crescita delle società. Ma tutti gli attori devono convenire sul rispetto di regole comuni, la prima delle quali è il riconoscimento dell’altro, non nemico da annichilire, ma avversario. È giusto, in ogni tipo di lotta, volere non solo il “pane”, ma anche “le rose”, purché non calpestiamo il diritto e la dignità altrui.