Il mio editoriale per il Domani parte di una serie di approfondimenti dedicati ai Presidenti della Repubblica
La presidenza meno longeva della storia repubblicana. Un anno e mezzo soltanto il periodo trascorso da Antonio Segni alla guida della carica monocratica più importante.
La presidenza Segni rimarrà però nella storia per la famigerata vicenda del cosiddetto “Piano solo”, poiché sarebbe stato attuato all’uopo soltanto dall’arma dei carabinieri. Il piano fu elaborato nel 1964 dal Comandante dell’arma dei carabinieri con l’avallo del presidente della Repubblica, il quale tra l’altro convocò proprio al Quirinale lo stesso Giovanni de Lorenzo, durante la fase di consultazioni per la formazione del governo, senza che mai questa vicenda sia stata mai del tutto chiarita. Il progetto prevedeva azioni repressive nei confronti di politici, intellettuali, e figure di rilievo che fossero state ritenute pericolose, soprattutto esponenti della sinistra, e l’occupazione della Rai. Il punto dolente è che queste azioni sarebbero state svincolate dal controllo dei civili/governo, ma gestite direttamente dai militari. Una questione dai contorni inquietanti, anche se la storiografia ritiene fosse un’arma di pressione su Moro e Nenni per accettare posizioni più moderate per il centrosinistra e non un vero e proprio tentato golpe. Nenni comunque parlò di un evocativo “tintinnar di sciabole“.
Siglò i Trattati di Roma da presidente del Consiglio sotto la presidenza di Gronchi, europeista convinto sostenne una stretta cooperazione con gli USA. Di origini familiari nobili è stato tra i fondatori della Democrazia cristiana di cui fu deputato sin dall’Assemblea Costituente.
Sul piano simbolico e diplomatico, va segnalato certamente l’incontro con Giovanni XXIII, primo Pontefice a salire al Quirinale e segno di una raggiunta riconciliazione tra Stato e Chiesa. Sull’altra sponda dell’Atlantico la crisi dei missili di Cuba condusse il mondo sull’orlo dell’abisso, da cui lo salvarono l’audacia di Chruščëv e la freddezza di J.F. Kennedy. A sua volta ammazzato perché aveva osato anticipare la Storia (JFK fu in visita al Quirinale accolto da Segni nel 1963). Dal quel momento la guerra fredda iniziò a contenersi anche proprio l’anno prima l’inizio della costruzione del Muro di Berlino rappresentò un simulacro, un altare su scala internazionale cui consacrare la divisione del mondo in blocchi, trascinandola per decenni nella contesa. Sul versante interno Segni fu testimone della tragedia (annunciata) del Vajont, in un paese in cui il rispetto della natura era di là da venire.
Aldo Moro lo sostenne contro le ambizioni di rielezione avanzate da Gronchi, sia per ostilità politica verso quest’ultimo, ma anche per un disegno strategico più ampio, ovvero avere un uomo al Quirinale non ostile al futuro centrosinistra in via di varo. E Segni era, non solo antifascista, ma era sempre stato vicino alle posizioni della sinistra DC e dialogante con socialisti e comunisti. Un caso emblematico fu la collaborazione con Fausto Gullo, comunista, per il varo della legislazione a favore della distribuzione delle terre dai latifondi ai contadini del centro-sud. La maggioranza che sostenne l’elezione di Segni era diversa a quella che sosteneva il governo e fu, dunque, in qualche misura propedeutica al nuovo schema di azione, ossia al centrosinistra, di cui l’elezione presidenziale fu il primo atto, in un certo senso.
Eletto al nono scrutinio con una risicata maggioranza (52%), a malapena sufficiente per superare il quorum richiesto. I suoi sostenitori provenivano principalmente dalla Democrazia cristiana, ovviamente, ma anche dai missini che risultarono determinanti e dai monarchici. Un cinico scherzo della storia posto che proprio durante il voto di fiducia al suo secondo governo aveva denunciato di non volere il sostegno del Msi allorché si rese conto che sarebbe stato decisivo. Dicono le cronache che un contributo, forse simbolico, ma probabilmente significativo, provenne anche da alcuni parlamentari “di sinistra” sardi, gruppo subito denominato “Brigata Sassari”, di cui era nativo. La sua elezione fu alquanto complicata nonostante la palese copertura e spinta politica proveniente da Moro, di cui Segni era sostenitore ed esponente di spicco della corrente maggioritaria (dorotei). I problemi erano di duplice natura; una sfida interna alla DC ed una interna alla coalizione di governo. Dopo un presidente liberale (Einaudi) e uno democristiano (Gronchi), i socialdemocratici puntavano ad eleggere Giuseppe Saragat elogiandone le virtù antifasciste di indiscutibile tempra democratica, ma anche chiaramente anti-comunista e con grande afflato atlantista. Questa reale e insidiosa sfida venne disinnescata agendo direttamente sul primo versante, quello interno alla DC.
La proverbiale abilità diplomatica di Moro e la sua capacità di risolvere problematiche complesse produssero un metodo di selezione del candidato presidenziale per la DC in grado di contenere al minimo il rischio defezioni ovvero la spina nel fianco dei franchi tiratori, sempre pronti ad affossare una candidatura al fine di proporne un’altra. Moro propose che il candidato democristiano sarebbe stato colui che avesse raccolto la maggioranza assoluta dei voti tra i gruppi parlamentari e i delegati regionali purché avesse partecipato alla consultazione almeno i due terzi di essi. Così fu, e i sabotatori non poterono che accodarsi, volenti o nolenti. Una volta risolta la contesa interna alla Balena bianca, il resto apparve decisamente meno preoccupante. Tuttavia, Saragat rimase quale candidato e contendente in grado di avere concrete chances di elezione, sebbene alla fine fu staccato da Segni per oltre cento voti.
Segni nominò tre senatori a vita, avendo cura di ponderare con equilibrio la provenienza politica degli stessi (Parri, Merzagora, Ruini) e nessun giudice costituzionale. Il terzo Presidente della Repubblica rinviò per otto volte alle Camere dei progetti di legge sprovvisti di copertura finanziaria e contrastò i disegni di legge relativi alla nazionalizzazione dell’energia elettrica e ai contratti agrari. Sebbene coraggioso sui patti agrari, Segni era esponente della componente moderata della DC, e per questa ragione scelto da Moro, in chiave rassicurante per l’ala più conservatrice in prospettiva dell’apertura al centrosinistra. Durante la sua presidenza, Segni affrontò tre crisi di governo che però non generarono particolari tensioni, ma anzi confermarono la solidità e stabilità complessive della coalizione (Dc, Psi, Psdi, Pri). Il presidente si limitò ad alcune scelte transitorie, come il governo Leone (I), funzionali a far decantare eventuali frizioni, ma in chiave di riprova del centrosinistra, anche per eludere o mitigare i sempre presenti tentativi di quanti, nella Dc e nella coalizione, lavorarono alacremente per un ritorno al centrismo ovvero a imbarcare la destra. O, al limite, seguendo l’opzione di un tecnico in una situazione emergenziale. In una qualche misura Segni agì in questa direzione convocando varie volte Merzagora, senatore, politicamente non schierato, ma fortemente legato ad ambienti finanziari, e propugnatore di soluzioni emergenziali. Inoltre, Segni fece balenare l’ipotesi dello scioglimento anticipato delle camere al fine di superare velocemente la crisi di governo.
Il messaggio alle Camere del 1963 rappresenta il caso più eclatante quanto a tematica di ri-elezione presidenziale e prerogative del capo dello Stato. Segni, infatti, nel celebre messaggio avanzò l’idea di abolire il “semestre bianco”, e di conseguenza la non immediata rieleggibilità del Presidente. Nel complesso quel messaggio rappresentò una innovazione: si trattava della prima volta che un presidente ricorresse alla facoltà conferitagli dalla Costituzione (art. 87) e poi perché conteneva proposte di modifica della Carta costituzionale. In particolare, sui giudici costituzionali, sulla durata del loro mandato e sulle procedure di elezione dei magistrati; tematiche ancora oggi in agenda. Quel messaggio, preparato con il sostegno e il confronto di eminenti giuristi inedito e innovatore nelle forme e nella sostanza, non venne mai discusso in parlamento, a conferma della vischiosità della società politica italiana, sempre ostile al “nuovo”, sempre trincerata sul conformismo e non sul confronto.
Il presidente del Senato Merzagora esercitò le funzioni del capo dello Stato durante la fase della convalescenza e fino alle dimissioni di Segni che avvennero quasi liberatorie, consolatorie, per la classe dirigente imbarazzata per l’ipotesi di dover destituire un presidente ammalato, ma soprattutto non concordi su chi fosse preposto – parlamento o Corte costituzionale – a decretarne l’incapacità permanente e, quindi, la destituzione. Segni, cronicamente cagionevole (“ammalato di ferro” lo definì De Gasperi), ebbe un malore durante un accesso confronto con Moro e Saragat a margine del varo del secondo governo Moro, e forse sulla vicenda de Lorenzo, e fu costretto al ricovero. Finiva così la terza presidenza della Repubblica, la più breve sino ad ora, ma molto intesa.