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Mio libro – con Francesco Clementi – appena pubblicato per Marsilio.
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editoriale per Il Riformista
C’è un grande assente nella storia sociale e politica dell’Italia: la borghesia. La classe che altrove ha guidato le innovazioni (tecnologie, ma soprattutto sociali e culturali) e che ha promosso le grandi trasformazioni degli ultimi tre secoli, in Italia è rimasta a traino. Ha preferito accomodarsi, accucciata vicino al tepore del camino di casa dello Stato/Governo che elargiva prebende, tanto materiali quanto simboliche-identitarie.
Anziché essere classe dirigente la borghesia italiana ha fatto da stampella al potere, un po’ meretrice, un po’ ruffiana e giullare di corte. Con le dovute eccezioni di rito, appunto. La conseguenza sistemica di questo miscuglio di funzioni e ruoli, ha sostanzialmente rallentato, e forse impedito, che maturassero due poli, uno conservatore ed uno socialdemocratico. Azzoppati certo nel loro sviluppo dal contesto internazionale, dalla “cortina di ferro”, dal primato culturale del Partito comunista rispetto al fratello/cugino/avversario socialista, fino, formalmente, al 1989-1991 e ai travagli identitari e poco intellettuali dei post comunisti che ancora cercano una (terza) via. Sull’altro versante, il predominio, tramutatosi in rendita di posizione, della Democrazia cristiana ha mutilato le spinte riformiste in nome troppo spesso della ragion di Stato (o talora del “segreto” di Stato), fino a farne un alibi rispetto al pericolo “sovietico” anche quando palesemente fuori tempo. La DC, la balena bianca, era però anche un “grande mitile” in grado di filtrare i residui e le incrostazioni del revanchismo fascista, di contenere le invasioni di campo di una componente della Chiesa cattolica, di prendere le distanze dai movimenti eversivi. Marco Follini ha spesso ben richiamato la complessità di quel partito, articolato, fatto non solo di faccendieri, di personaggi legati alla mafia, o mafiosi essi stessi, ma in grado di fare dell’Italia uno dei più grandi paesi industrializzati. Nel bene e nel male. Di mantenere la barra dritta in una navigazione perigliosa per Roma segnata da molti lutti e lati oscuri. La temperie sociale-politica degli anni ’90 non ha consentito una maturazione del campo catto-conservatore in un moderno partito di destra, ma è stato travolto dalle promesse salvifiche del tycoon Silvio Berlusconi che ha ri-proposto la dicotomia anti-comunista (in un Paese quasi senza più comunisti) premiando perciò le rispettive ali “estreme” e consegnando alla Sinistra l’alibi perfetto per non maturare e riformarsi. Forza Italia non ha avuto la penetrazione sociale e la capacità di leggere gli interessi come faceva invece la DC, ma ha affidato tutto il destino del Paese a quello di un solo uomo. Ossia una mentalità mai accettata nel partito dello scudo crociato. Berlusconi ha però modernizzato il polo conservatore, nei modi, nei toni, e anche rispetto ad alcuni temi “di costume” sui quali – bon gré mal gré – ha segnato una rottura, non fosse altro quale “parte in causa”. Dal punto di vista politico però l’azione del Cavaliere ha prodotto due rotture cruciali per l’intero sistema politico e partitico: 1) l’ingresso a Palazzo Chigi della Lega Nord; 2) lo sdoganamento del Movimento sociale italiano. Da un lato, queste due forze sono state indotte a “modernizzarsi” al fine di essere presentabili per entrare nella società dei salotti istituzionali, ma dall’altro la presenza di Berlusconi le ha garantite quanto a iniezione costante di risorse per la coalizione nonché di sostegno politico, e perciò inibendone l’assimilazione, ma anzi enfatizzando il carattere identitario. Al fine di distinguersi, per evitare di estinguersi, Msi/Alleanza nazionale e Lega Nord hanno rimarcato le loro posizioni classiche, di nazione da un alto e di anti-nazione dall’altro. Un ossimoro tenuto insieme dal collante berlusconiano, quello di un capo carismatico, affabulatore, e grande cerimoniere nel tessere le trame per una coalizione di centro-destra variamente denominata. Sul piano culturale l’alleanza trainava e rappresentava quella parte di società che si rispecchiava nel forza/leghismo, scettico verso lo Stato e ultraliberista. Viceversa, gli eredi del Partito nazionale fascista, esclusi dal Governo secondo la celebre conventio ad excludendum (Il polo escluso, P. Ignazi, Il Mulino) insieme al PCI che però aveva lottato per la Liberazione, elaborato e votato la Costituzione, si ritrovano a mutare costretti dagli eventi. Il Movimento sociale italiano compie un passaggio di trasformazione organizzativa, simbolica, ideologica prodromo di successivi aggiustamenti. È il primo passo per l’abbandono del fascismo come ideologia di riferimento, al netto delle intemperanze di alcuni e inevitabili andamenti oscillatori nella definizione della nuova identità politica-partitica.
Il progetto promosso e incarnato da Gianfranco Fini era solido, aveva una prospettiva e puntava a entrare a pieno titolo nel gruppo dei conservatori europei. L’obiettivo, non dichiarato perché tabù, era l’egemonia nel campo del centro-destra, dominato e in realtà posseduto manu militari (e finanziaria) da Berlusconi che perciò non ammise nessuna sfida diretta alla sua leadership. Il progetto aveva una visione ed era frutto di lavoro cui contribuirono intellettuali di rilievo, tra tutti Domenico Fisichella, ed articolazioni come la fondazione Farefuturo che promosse un dibattito coi principali leader del mondo conservatore europeo, da J.M. Aznar a Nicolas Sarkozy, del cui libro nel 2007 Fini non a caso scrisse la prefazione. Insomma, c’era un fermento che si interruppe bruscamente con la marginalizzazione di Fini che osò sfidare apertamente il padrone di Forza Italia, mutata da una battuta in piazza in Popolo della Libertà. L’impossibilità di avere due leader in un solo partito fece il resto. E congelò il processo riformatore interno ad Alleanza nazionale posto che molti realisti rimasero come cortigiani di Berlusconi e la fuoriuscita di Fini si rivelò fallimentare nelle urne. Fratelli d’Italia nasce dunque come contro-risposta identitaria, ritorno alle “origini” dopo la presunta onta del partitone berlusconiano che assimilava tutto e tutti. Giorgia Meloni è stata abile a riprendere le fila di militanti orfani di una identità e a rinsaldare i temi cari al duo Msi/An. Unitamente a un piglio casareccio con toni popolari, a tratti popolani e perciò elettoralmente salubri, e una indubbia tenacia, Meloni ha intercettato l’umore di una parte importante del Paese distante dalle boutades di Salvini e disorientate dopo la fine, de facto, della spinta propulsiva di Forza Italia.
La marcia trionfante di Meloni è però strettamente intrecciata con i destini del fratello/nemico Matteo Salvini. È lì il cuore della questione, del futuro della Destra italiana, contesa tra ambizioni individuali, scontri di potere, oscillazioni elettorali e riposizionamenti sullo scacchiere internazionale.
Fino a pochi mesi fa la tenzone era prevalentemente basata sul duopolio “immigrazione-nazione”, laddove il primo lemma è nettamente appannaggio di Salvini e la nazione invece è meglio maneggiata da Meloni. Dopo le politiche del 2018 Meloni era ancillare rispetto a Salvini, sia sul piano elettorale, ma anche dal punto di vista mediatico. Il leader era indubbiamente il capo della Lega Nord, mentre Meloni provava a ritagliarsi uno spazio residuale. La sciagurata gestione del proprio ruolo all’interno del Governo Conte I ha reso la Lega Nord oramai un orpello, un ostacolo per la modernizzazione del polo conservatore. L’idea di aderire al gruppo del partito popolare europeo è del tutto estemporanea, una … emerita sciocchezza che denota l’approssimazione, l’improvvisazione del partito in una dinamica di scontro tra bande interno all’organizzazione di cui Salvini ormai sta perdendo il controllo.
Che questa prospettiva sia un azzardo e una trovata mediatica autunnale, solo come risposta alla mossa azzeccata di Meloni, lo si evince studiando la storia della Lega Nord. La difficile trattativa con i popolari europei prima che complicata dalle ritrosie di forze realmente conservatrici ostili agli strali di nazionalisti di estrema destra, ha un intrinseco limite ontologico: la Lega stessa. Entrare nel Partito popolare europeo, se per assurdo avvenisse, significherebbe la fine stessa del Carroccio. Il quale dovrebbe rinunciare o comunque nascondere come un ladro le libagioni in onore della sovranità nazionale a scapito della dimensione sovra-nazionale, l’anti-europeismo, il regionalismo differenziato, ossia la “secessione 2.0”, così denominata per addolcire le residue resistenze culturali a sinistra e nel Paese. Né, tantomeno, la Lega Nord ha le tradizioni e la cultura politica di partiti nazionalisti quali lo Scottish national party o altri. Si tratterebbe di un matrimonio senza speranze che nessuno dei partner vuole davvero. I popolari europei accettarono Berlusconi solo, o principalmente, per la dote finanziaria derivante dal numero di deputati a Strasburgo, figurarsi se – almeno nella componente britannica e polacca – accetterebbero tra le proprie fila chi flitra con la Russia di Putin. La Lega è, al di là dei sondaggi, un partito allo sbando, senza identità, senza idee, senza visione. L’unica residuale inerzia è quella di un partito personale che come tale risente delle difficoltà del leader al crepuscolo. Finirà che i maggiorenti del partito liquideranno Salvini, con un pretesto, per patente incapacità di politica prospettica. Lo stesso si arroccherà su una posizione irredentista, massimalista e urlerà al tradimento. Il senatore eletto per sbaglio a Locri Epizephiri sarà costretto a tornare alle sagre di paese, alle fiaccolate, puntando alla “origini”. Con partito “suo” attorno al 3% sarà una sorta di Front national delle pre-Alpi con una piattaforma anti-sistemica e di estrema destra (come del resto già succede alla c.d. Lega di Salvini, ovvero alla mai defunta Lega Nord).
Se, dunque, il processo che ha portato Meloni alla guida del gruppo dei conservatori europei risale a un percorso di revisione interrottosi due lustri fa, ma che ha incluso vari esponenti della società e della cultura in un dibattito vero, il caso della Lega è senza speranza. Non c’è nessun confronto ideale all’interno, nessun orizzonte di scontro “congressuale” su tesi contrapposte, né si vedono personaggi del calibro di Gianfranco Miglio, ma solo funzionari. A questo si aggiunga che la strategia di Luca Zaia e Giancarlo Giorgetti mira a fagocitare la parte elettorale del partito “nazionale” e lasciare a Salvini la bad company. I due però non sono per nulla “moderati”, categoria dello spirito che tra l’altro non esiste nella storia delle dottrine politiche: il moderatismo. Manifestano semmai “modi” un po’, ma leggermente, più urbani del duo che però nella sostanza ha sempre e comunque sostenuto gli strali di Bossi, gli “eccessi” di Salvini e le intemerate dei vari colonelli della Lega.
Meloni, pertanto, come ho già scritto altre volte, ha una occasione storica. Può dimostrare di essere all’altezza del compito. Ma per farlo deve annientare i residuati bellici del revanchismo neo-fascista, chiarire definitivamente sull’antifascismo, sui diritti civili (vedi L. 194) e sulle diversità, togliere la “fiamma” dal simbolo, rimanere nel campo europeista (non indulgendo su Orban) e infine mostrare postura istituzionale sulla magistratura (sostegno politico a Salvini, ma non in piazza contro i giudici). Dal suo punto di vista certo, ma presentando una destra conservatrice e moderna. Sarebbe un bene per l’intero sistema partitico, per il Paese e indurrebbe anche il centro-sinistra a modernizzarsi. Non sappiamo quali siano le intenzioni, ma se Meloni facesse sul serio non potrebbe che essere una buona notizia. Lo spazio lasciato da Forza Italia, dalla Lega in declino e da forze personali/stiche come Azione e Italia viva offrono praterie elettorali, ma richiedono leadership moderna e innovativa.
Oggi la Destra italiana è a un bivio. La scelta identitaria e culturale passa tra l’abbandono definitivo di Salò, lasciare Pontida alle forze anti-sistema e folkloristiche e rivolgersi, da veri conservatori maturi, a Washington dialogando con Bruxelles.
La Lega governa l’intero nord, dal confine con la Francia a quello con la Slovenia, dalle Alpi sino al Po. Sono leghisti i Presidenti delle regioni più ricche, popolose e industrializzate del Paese. La Lega di Salvini è primo partito in migliaia di comuni, ha sfidato a viso aperto, e fatto tribolare, il centro-sinistra in Emilia-Romagna e in Toscana, luoghi dove l’accerchiamento è rimandato, mentre Umbria e Marche hanno ceduto al vento populista. E ha contribuito a far vincere il centro-destra a Venezia, non proprio un feudo leghista. Difficile pertanto liquidare l’affaire Salvini pensando che il referendum grillino lavi ogni difficoltà politica.
Pare complicato, arduo, immaginare che il centro-sinistra/populista continui a guidare l’Italia senza porsi una domanda cruciale circa gli strumenti (legislativi, ma soprattutto culturali e politici) per recuperare i consensi del Nord. A meno di non volerli considerare contaminati e perciò indegni.
Il voto delle elezioni regionali di domenica scorsa consegna un risultato non troppo chiaro, e perciò da ciascuno ascrivibile al proprio campo in termini di “vittoria”. Il Partito democratico ha perso una regione, le Marche, ha abbandonato il Veneto al suo destino, eppure la leadership esulta per il pericolo scampato. È primo partito di una coalizione minoritaria nel Paese, governa un terzo delle regioni ed in difficoltà a sintonizzarsi con intere fasce della popolazione. Il Movimento 5 stelle è in dissoluzione, ma cela la frantumazione ricorrendo all’esito del voto referendario e rilanciando sui temi dell’anti-democrazia rappresentativa. La Lega Nord del sen. Matteo Salvini ringrazia gli “italiani” (e le italiane) per non si sa bene quali motivi. La Lega è, infatti, in rotta almeno sul piano dei consensi e della leadership. Ha perso in tutte le regioni ove presente (la Valle d’Aosta, in cui è primo partito ma non è detto riesca a governare, è storia a sé per molte ragioni storiche-sociali). Dei due candidati alla carica di Presidente uno solo è stato ri-eletto, mentre nel resto del Paese la lista “Salvini” ha subito una grave sconfitta.
Per dare la misura della débâcle è importante considerare i voti assoluti (tabella 1), sebbene alla comparazione con le precedenti elezioni politiche ed europee sarebbe preferibile quella con il 2015 che però rappresenta un’era politica diversa. Nel complesso delle sei regioni principali, la Lista Salvini ha perso quasi due milioni di voti (-1.948.896) voti tra il 2020 e le elezioni europee dello scorso anno, con valori negativi ovunque, anche al netto della specificità veneta. La quale, semmai, segnala non un problema per il leghismo quanto per la leadership, ormai presunta, del senatore milanese eletto in Calabria. Zaia appunto non è un caso a parte, ma rappresenta per Salvini l’indicatore principale che la presa sul partito è ai minimi storici. Una vicenda di questo tipo non sarebbe mai successa con il vero leader della Lega Nord, ossia Umberto Bossi. L’acrimonia tra leghisti/lombardi e leghisti/veneti ha fatto il resto. Va altresì notato che in veneto la Lega si presentava con il simbolo della “Łiga veneta” proprio a sancire l’ammainare delle velleità nazionali. In percentuale la Lega Nord di Salvini perde tra 10 punti percentuali (Toscana) e -15 punti nelle altre regioni, in media. Anche la comparazione con il 2018 segnala in realtà un falso punto di tenuta poiché ad esclusione di pochi voti in più in Puglia e Campania, la Lega Nord perde 641.000 voti, che solo in parte sono spiegabili con la differenziazione lista Zaia/lista Salvini. Questo dato indica perciò che il partito “tiene” politicamente nel complesso rispetto all’impennata 2019 (sul 2015 aumenta di circa 10 unità il gruppo dei consiglieri regionali), ma si sta ritirando e rintanando nel Nord-Est, posto che anche alle comunali di Milano sarà difficile recuperare lo smalto di un tempo.
Se, dunque, la sfida alla guida di Matteo Salvini è ormai questione di qualche mese, la persistenza della questione leghista e della questione settentrionale invita ad andare oltre i facili proclami, ambo lati.
La parabola discendente della popolarità di Salvini, e di conseguenza il calo di intenzioni di voto (che sono diversi dai voti reali) nonché la battuta di arresto in elezioni “locali”, quattro delle quali in zone storicamente ostiche per il partito, non debbono essere confuse, sovrapposte e sostitute con la tenuta sociale, politica e culturale del leghismo. Che è vivo, vegeto e ben insediato nel tessuto profondo dell’Italia. E degli italiani. Negli ultimi anni sono cresciuti i sentimenti di ostilità per i diversi (immigrati, diritti civili), la richiesta di politiche di chiusura verso l’altro da sé, l’autoritarismo, il nazionalismo, l’antisemitismo, l’intolleranza, il favore per pene “esemplari”. Temi battuti direttamente, palesemente, ovvero in forma subdola dalla Lega salviniana da almeno un lustro. Ma che covano nel Paese da molto tempo. Per cui, non importa quanto abbia vinto/perso la Lega e il suo leader pro tempore, ma è rilevante avviare un’analisi profonda sulla pervasività e invasività del leghismo. Chi volesse affrontare la Lega e sconfiggerla sul piano elettorale, prima dovrebbe agire su quello politico-culturale con una proposta radicalmente diversa, efficace, riformista, basata su politiche inclusive e progressiste, ripartendo dalla diseguaglianza. Che è diffusa in tutto il Paese e investe i precari, i disoccupati, la classe media e i lavoratori dipendenti da Nord a Sud. Molti, stolti, pensarono che la Lega fosse finita già nel 2010 allorché Bossi si scontrò coi diamanti del cerchio magico. Il voto non è che UN indicatore dei valori e della cultura politica.
Sbaglierebbe chi considerasse oggi la parentesi chiusa, il Paese è ancora lontano dagli standard di civismo scandinavo.
Tabella. 1 – L’andamento del voto alla Lega di Salvini 2018-2020 (valori assoluti e differenza punti percentuali in parentesi)
Regione | 2020-2019 | 2020-2018 |
Veneto | -886.778 (-33) | -572.536 (-15) |
Campania | -286.471 (-14) | 3.720 (+1) |
Puglia | -242.917(-16) | 25.382 (+3) |
Toscana | -236.751(-10) | -19.420 (+4) |
Marche | -151.623(-15) | -14.304 (+5) |
Liguria | -144.356 (-16) | -64.012 (-3) |
Totale | -1.948.896 | -641.170 |
Fonte: elaborazione dell’Autore da Ministero dell’Interno.
Il PD non cambi simbolo
Editoriale per Corriere della Sera (Bologna)
La Coca Cola investe milioni di euro in pubblicità ogni anno. E, sostanzialmente, non ha mai cambiato brand; la ragione principale è che i consumatori conoscono e si riconoscono nel nome e nel simbolo della bibita per eccellenza. E per questo lo ri-acquistano, ovvero lo detestano, ma sanno di cosa si tratta. In termini politici potremmo prendere l’esempio del partito Socialista Obrero Espanol, ossia il PSOE che non ha rinunciato ai suoi riferimenti “operai” e al simbolo benché possano apparire alcuni, come il garofano, il pugno e il termine “operaio” possano apparire come “superati”. Certamente, per evitare defezioni di elettori e di consumatori, partiti ed aziende tendono ad adattarsi al “mercato” di riferimento. Tutto sommato pero’ il cambiamento di nome e/o simbolo per essere credibile deve sostanziarsi in una mutazione di contenuto ed identità. Non ad una facciata. E’ la cruciale differenza tra il concetto di Partito nuovo e nuovo partito fatta da Antonio Gramsci.
Per queste ragioni, l’idea avanzata dal sindaco di Bologna Virginio Merola appare sbagliata nel merito, nel metodo e rischia di far sbandare il Partito democratico. Se l’intento è il rinnovamento allora le nuove proposte di “partito nuovo” vanno avanzate e discusse. Viceversa, se il tentativo e’ quello di una mosca cocchiera solo per le prossime elezioni comunali, forse è meglio soprassedere.
In sintesi, bisogna decidere se il problema è il cambio del simbolo del Pd (per le elezioni di Bologna) o la richiesta di un’unica coalizione dove l’etichetta civica richiama alla distanza e alla vaghezza nei confronti del politico? Del resto, l’utilizzo delle liste civiche viene spesso utilizzato a livello locale per sbiadire appartenenze politiche pensando di attrarre elettori fuori dallo schema destra-sinistra. A Bologna pero’ tale tattica pare lunare.
Il PD credo abbia bisogno di profonde riforme certamente, ma anche di conferme e di ri-costruire la propria identità, senza cestinare in un solo colpo la (breve) storia iniziata nel 2007 allorché si propose come “partito nuovo”. Come riportata dai media la prospettiva delineata da Merola parrebbe una rivisitazione tardiva e fuori luogo di una lista civica “Due Torri” 2.0 che pero’ non trova conferme empiriche quanto a capacità attrattiva. Illo tempore era tutto molto diverso, ma oggi, paradossalmente, l’identità rappresenta un potente attrattore di consensi. Dopo tutto, e non e’ poco, il PD e’ il primo partito in città e oscurando il nome apparirebbe come una forza che si vergognasse della propria storia e quindi celasse quanto ha fatto. Nel bene e nel male. Merola è politico di lunga esperienza, e quindi l’esternazione è plausibilmente legata al tentativo di superare l’impasse in cui la scelta della candidatura del successore pare stia incagliandosi.
Il Corriere di Bologna ha per primo aperto il dibattito sulle primarie, che paiono lo strumento meno doloroso per dirimere le dure lotte sotterranee di questi mesi, tra contendenti, aspiranti e gruppi di pressione.
La legittima aspirazione di Matteo Lepore pare essersi stranamente impantanata tra veti piu’ o meno palesi, autocandidature (alcune delle quali un po’ fuori luogo), nomi di papi stranieri e fughe dalle primarie. La soluzione è invece meno complessa. Il PD (primarie o meno) dovrebbe tornare a parlarsi, costruire consenso, con negoziazioni, intese e persino “scambi”. Quindi il dibattito sul nome/simbolo del PD pare un modo per “scappare” dal PD e dalla sua articolazione.
Il partito democratico e quello repubblicano negli USA, per rimanere al Paese in cui si voterà tra poche settimane, sono cambiati profondamente, a tratti radicalmente, negli ultimi decenni. Ma non hanno mai cambiato nome e/o simbolo. Cambiare il (solo) nome non serve, è sbagliato e soprattutto non basta a perseguire i fini indicati nella proposta avanzata in questi giorni. Per cambiare davvero servono nuove idee, nuove prospettive, nuovi orizzonti e una diversa collocazione geo-politica. Ma allora non basterebbero certo pochi mesi per approntare tale progetto in tempo per il voto. Pertanto il rischio, forse calcolato, è che azioni di marketing implichino quanto detto da Tancredi nel Gattopardo: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi.» Meglio discutere di contenuto che di etichette.
Il Sud respinge l’opa di Salvini
Napoli, la prima città d’Europa a liberarsi autonomamente dal nazifascismo durante le celebri “quattro giornate”, magnificamente ricordate nel film omonimo diretto da Nanny Loy. La capitale Partenopea, ostile a ogni “invasione”, rappresenta l’ostacolo più arcigno al tentativo della Lega (Nord) di avanzare al Sud, una mascarade guidata dal Sen. Salvini – di cui abbiamo parlato su queste colonne – e già fallita nei fatti perché mendace e infondata sul piano culturale.
Proprio al Sud la Lega rischia molto alle imminenti elezioni regionali, in un contesto complessivamente sfavorevole al Carroccio.
Sul piano internazionale l’alleanza ultra-conservatrice miete meno successi che in passato sebbene sia ancora solida nel complesso, e in molti ambiti, certamente quello economico-finanziario, continui ad essere influente o egemonica. Le singole realtà della rete del varipointo gruppo che trae ispirazione da D. Trump, J. Bolsonaro, M. Le Pen e dalla “foto” di Visegrád sono paradossalmente esposte proprio agli effetti dell’isolamento nazionalista. La torsione individualista inflitta dal Covid-19 ai sogni di geopolitica sovranisti ha mostrato l’irricevibilità teorica prima che pratica del modello che mira al ritorno di fiamma delle (piccole) patrie. Mentre la forza economica, militare, e la statura di altri leader consente pero’ di sopravvivere almeno sul piano nazionale, la Lega (Nord) paga l’irrilevanza della visione e dello spessore politico-culturale del senatore eletto nella Locride.
Stretta e ristretta dunque nella geografia dello Stivale, la Lega (Nord) punta a rimediare al crollo di consensi che la investe da un anno almeno. L’abbandono del Governo nell’estate in cui l’ex Ministro dell’Interno vestì i panni del bullo di periferia ha marcato l’inizio della fine per un progetto cui oltre alle citate idee e prospettive teoriche e culturali, manca oggi anche la copertura aerea delle risorse (latu sensu) derivanti da incarichi istituzionali. Il ricorso disinvolto ai benefici delle funzioni di Governo lascia spazio a pesanti costi organizzativi in una fase di allontamento di iscritti, simpatizzanti e donatori vari. Cui si sommano i problemi giudiziari del Sen. Salvini per la vicenda migranti nonché quelli legati alla galassia di procacciatori di affari legati al partito. Al netto del procedimento giudiziario che deve ovviamente garantire ogni cittadino, nel complesso queste condizioni “di contesto” non aiutano il Sen. Salvini né la Lega (Nord) a detrimento dell’imagine e dell’attrattività del partito.
Infine, il contesto locale, pur nelle specificita’, rimanda a un “terreno di caccia” complicato, per un leader che ha perso il momentum, e un partito scavalcato a destra da Giorgia Meloni, e con la crisi economica che ha sbiadito il tema immigrazione, palesando il balbettio leghista sulle proposte.
Da sempre Napoli ha rappresentato la gola stretta, ostico budello per il passaggio dei “barbari sognanti” verso i mari caldi e i bacini di voti di elettorali “volatili” del Sud. I segnali sociali che provengono dalla Sicilia, dalla Calabria, da Torre del Greco e da Napoli indicano che l’aria è cambiata davvero. La Lega torna al Nord.
In Campania la lista di Salvini andrà sotto al 5% scomparendo dai radar locali; in Puglia se Michele Emiliano fosse sconfitto a prevalere sarebbe il centro-destra a trazione “Alleanza nazionale”, da sempre forte in regione, e forzista, ossia la “Casa della liberta’” rivista e corretta, con la Lega a traino. La stessa dinamica si potrebbe avere nelle Marche, sebbene la portata del cambio di governo sarebbe più ampia, ma avrebbe comunque la Lega (Nord) in posizione ancillare. L’unica vittoria quasi certa, anche per abbandono dell’avversario, è il caso Veneto, in cui il centro-sinistra ha rinunciato troppo presto, assecondando l’adagio non verificato del “buon governo” di Luca Zaia. Uomo politico della Lega (Nord), o meglio della Łiga Veneta, militante da sempre, ma competitore diretto del segretario nazionale e percio’ non ascrivibile alle vittorie di Salvini. La Liguria delle fazioni a sinistra, delle vendette e dei ricatti, menù fisso dei progressisti, vede al vertice della Giunta un politico affine alla Lega e a Salvini che pero’ difficilmente potrebbe includere tra le vittorie stretegiche delle camicie verdi-brune.
Rimane la Toscana, diventata suo malgrado luogo di una finta sfida all’O.K. Corral, mentre in realta in un Paese “normale” si tratterebbe solo di una competizione locale. La vittoria della coalizione di centro-destra non sarebbe un attentato alla democrazia, al netto dell’insipienza delle proposte politiche della candidata alla Presidenza e degli strafalcioni sulla Storia. Si tratterebbe semmai di fisiologica, e persino auspicabile, alternanza al potere. Ma la sinistra, e Matteo Renzi, dominus della regione, ne hanno fatto un luogo e una contesa meta-simbolica in cui si gioca una partita nazionale (come lo scorso anno in Emilia-Romagna) nella quale l’ex Presidente del Consiglio puo’ segnalare la sua rilevanza e indispensabilità. Ma in assenza di un progetto nazionale sifdante, e in difficoltà per la coabitazione con il populismo del Movimento 5 stelle, il PD inscena la consueta battaglia di civilta tra il “bene” e il “male”. Uno schema schmittiano, in atto stancamente dal 1994, che va bene a Salvini, a Renzi e al PD in cui tutti gridano alla liberazione.
Tuttavia, nella trasposizione cinematografica della Resistenza napoletana delle “quattro giornate” c’è un eccelso Gian Maria Volonté, che guida il riscatto, la dignità e il valore del Sud, e metaforicamente dell’Italia intera a pochi giorni dell’8 settembre. Fuori dai teleschermi non si intravede analogo afflato, ma solo lo scimmiottamento in chiave iper-realista. Ne riparleremo.