Mattarella. Il faro di una politica in perenne tempesta

Il mio editoriale sul Domani

Sobrietà. Tra i possibili aggettivi per sintetizzare il mandato del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella il riferimento a un’esperienza di Presidenza parca mi pare quello adeguato. Contenuto nelle esternazioni, diplomatico, fermo nei valori, saggio nelle consultazioni e praticamente inflessibile nelle forme. Una rarità nel panorama politico e istituzionale del Paese, troppo sovente incline a digressioni personali, atteggiamenti extra protocollari e invasioni di campo. Chi confondesse la sobria pacatezza con la remissività sbaglierebbe enormemente ché la storia del settennato di Mattarella insegna molto, ed è un monito.

La popolarità del Presidente Mattarella è elevata, al pari dell’apprezzamento per l’operato, e al netto di alcune differenze tra gli elettorati, è nel complesso trasversale tra gli schieramenti. Fin dal giorno dell’elezione Mattarella ha inviato segnali chiari, simbolici e metaforici, ricchi di contenuto e coerenti nella difesa e nel rispetto della Carta costituzionale. La prima uscita fu nel pomeriggio dell’elezione, recandosi alle Fosse Ardeatine, poi il magnifico discorso di insediamento, compendio di educazione civica e politica. E i lunghi silenzi loquaci delle prime settimane lasciarono costernati i giornalisti assiepati smaniosi di un commento su tutto e tutti. Eletto dodicesimo capo dello Stato al quarto scrutinio con il sostegno del PD, di Sel e Scelta civica con 665 voti (come Saragat e Scalfaro) e la benevolenza di Forza Italia, imbarazzata su rigettare una figura tanto autorevole. Con un chiaro percorso politico nella DC e nel centro-sinistra, Mattarella a 74 anni è eletto come “indipendente”, giudice costituzionale in carica al momento del voto. La terzietà, o meglio l’imparzialità sono state la cifra dell’intero settennato.

Tra gli atti formali più significativi, Mattarella ha nominato due giudici costituzionali, numero dettato dalle disposizioni costituzionali (art. 135). Ha inoltre nominato una senatrice a vita (L. Segre). In questo caso avrebbe potenzialmente avuto maggiore agibilità, ma l’interpretazione di Mattarella della disposizione Costituzionale è andata nella direzione di seguire la consuetidine (dopo l’eccezione di Pertini e Cossiga) per cui si hanno contemporaneamente un massino di 5 senatori a vita di nomina presidenziale. Il settennato 2017-2022 è stato segnato da una significativa presenza nel processo di nomina del Presidente del Consiglio dei ministri. È cruciale segnalare che la Carta (art. 92.2) non impone alcun vincolo o criterio esplicitio rispetto al percorso che conduce alla nomina. L’azione di Mattarella si inserisce in un contesto politico e partitico mutato significativmente. L’incertezza emersa nel post-elezioni 2018, il sostanziale tripolarismo e l’elevata frammentazione, nonché l’emergere di alleanze e coalizioni differenziate rispetto al momento elettorale hanno palesato un quadro di sostanziale ingovernabilità del Parlamento. L’azione di Mattarella è stata incisiva e significativa in almeno in due dei quattro casi di nomina e formazione del governo, nel Conte II e per Draghi. Ma già dopo il momento elettorale del 2018 il Capo dello Stato aveva chiaramente marcato la statura di incondizionato rispetto della collocazione europea dell’Italia. Mattarella non procedette alla nomina di P. Savona quale ministro dell’economia in virtù delle chiare, reiterate, posizioni contro l’EU e l’Euro. Ne derivò una grave tensione politica che culminò con la richiesta di L. Di Maio di attivare la procedura per messa in accusa del Presidente per alto tradimento (sì, concordo, la Storia va ricordata). Per il resto Mattarella prese atto con imparzialità dell’alleanza “sovranista”. Il governo Conte II nacque sull’incertezza tattica di Renzi e sul cambiamento di posizione del PD, ma soprattutto sulla scia del voto del Parlamento europeo a favore di U. von der Leyen.

Nelle consultazioni per la formazione del governo Draghi va ribadito che esiste reciproca e datata stima con il Capo dello Stato. Mattarella ha preso atto della situazione di impasse in Parlamento nonché della conflittualità tra i partiti della coalizione, della crisi interna al M5s che avrebbe reso ancora più precaria la vita del Governo. La verifica affidata al Presidente della Camera, eletto dal M5s, per fugare dubbi su ostilità verso Conte, ha certificato l’assenza di altre possibilità e ha raccolto evidenze di consenso su Draghi. Infatti, sebbene sovente si tenda a interpretare il confronto politico e istituzionale su basi personali, il grado di interventi dei Presidenti dipende dalle opportunità offerte dal contesto. Le caratteristiche soggettive incidono sul modo concreto in cui l’azione si esplicita: nel caso di Napolitano, ad esempio, l’intervento è più esplicito in virtù della sua cultura del primato della politica. Nel caso di Mattarella, l’azione è meno esposta, ma non per questo meno forte, abituato a una cultura che fa emergere l’attivismo con azioni mediate, e quasi effetto inevitabile di una crisi ormai matura. Secondo la celebre metafora di Giuliano Amato i poteri presidenziali si comportano come il mantice di una fisarmonica che si espande quanto più le crisi sono profonde. In sintesi possiamo indicare tre grandi periodi. 1) 1948-1993: crisi “extra parlamentari” con coalizioni tendenzialmente stabili e governi con durata media inferiore a un anno. L’intero processo era governato tra i partiti e nei partiti. L’impossibilità dell’alternanza al dominio democristiano contribuiva a rendere il Presidente un attore che ratificava. La supplenza presidenziale agiva allorché fosse esaurita una formula, ma non ancora pronta la successiva (Gronchi tra fine del centrismo e inizio del centrosinistra, Pertini tra solidarietà nazionale e pentapartito). Tra il 1992-1994 la fisarmonica si è aperta frequentemente, tanto che si è parlato di forma parlamentare a correttivo presidenziale. Una constatazione, ma anche evidentemente un problema, in termini di maggioranze instabili. 2) 1994-2013: a inizio legislatura si insediano governi che rispecchiano l’esito elettorale, ma poi c’è un “intervento presidenziale” (Scalfaro con Dini e Napolitano con Monti). Infine, 3) dal 2013 assistiamo a una maggiore azione e intervento del Capo dello Stato (Letta, Conte II e Draghi), proprio per la ragioni menzionate e per la crescente frammentazione partitica e l’ascesa del M5s come terzo polo.

In questo contesto sclerotizzato, il Presidente Mattarella ha rappresentato un faro nella notte della tempesta politica di una legislatura paralizzata. Il Capo dello Stato appare una sfinge, ma il sobrio intervento è una sicurezza nei momenti difficili per il Paese. Recentemente Mattarella segnalando la propria indisponibilità a ricandidarsi ha indicato la possibile riforma costituzionale per l’abolizione del semestre bianco perchè nessuno potrebbe essere accusato di favorire la successione. “Il semestre bianco … potenzialmente può consentire un periodo di irresponsabilità politica”. Cristallino ha sintetizzato il rischio assai grave di un periodo di grande tensione, confusione e palude parlamentare.
Il Parlamento pensi alle riforme necessarie in tal senso. Dal semestre bianco alla riforma dei criteri di eleggibilità, abbassando l’età da cinquanta a quarantanni. Qualora persistesse l’indisponibilità del Presidente Mattarella a un nuovo mandato, il Parlamento dovrà individuare analoga figura capace di accompagnare la fine ordinata della legislatura fino alla scadenza regolare, come ragionevole per condurre in porto il programma di Governo.

Salvini lascerà il Governo. Anzi non ci è mai entrato.

Il mio editoriale per Il Riformista

Nella letteratura scientifica di riferimento si chiama “genetica dei partiti”, per definirne il carattere identitario, la cifra ideologica e politica. Si tratta di elementi tipici difficilmente superabili, modificabili e cancellabili, e che rimandano alla nascita del partito, alla sua natura, all’essere e all’agire.  Sono caratteristiche ascrittive, un po’ come il colore degli occhi, sostanzialmente immodificabili. A meno che la leadership del partito non proceda a profondi, radicali cambiamenti che investano l’intero assetto ideologico, organizzativo e identitario. Affinché tale atto rivoluzionario vada a buon fine è però indispensabile la presenza del combinato disposto della volontà politica e, soprattuto, di una guida autorevole, riconosciuta e riconoscibile per condurre l’operazione. Taluni, ignari o interessati, ripetono la cantilena della Lega nazionale e della Lega che sarebbe diventata nello spazio di un mattino un partito responsabile e istituzionale. Il tutto perchè il partito ispirato ad Alberto da Giussano ha deciso di sostenere, per ora, il Governo Draghi. Ma già in passato il partito fondato da Umberto Bossi ha dato prova di acrobazie politiche e parlamentari, di tattiche estreme per sopravvivere e addattarsi al contesto. 

Il cambiamento, per essere serio, definitivo e profondo necessiterebbe di una pubblica discussione, di abiura di precedenti esperienze e proposte e di innovazione. Il tutto guidato da una leaderhsip carismatica. L’attuale segretario del partito, il senatore Matteo Salvini, evidentemente non ha alcun carisma, e anche la popolarità è decrescente, come le intenzioni di voto per il suo partito, la Lega Nord. Salvini non solo manca di carisma, ma soprattutto non controlla il partito. Che è sostanzialmente alla deriva, senza un’indicazione chiara sulla strategia nel medio e lungo periodo, ormai allineato alle politiche mainstream. La mitica base è spaesata. Il finto cambiamento pro-Europa è maturato in due ore davanti a un gelato nel cuore della capitale. Parimenti il cambiamento contro il “proprio” governo (Conte I) avvenne ingurgitando un cocktail alcolico. C’è dunque un aspetto parapsicologico del rapporto cibo-posizionamento politico che mal si concilia effettivamente con la sobrietà, la pacatezza e la statura internazionale del Presidente del Consiglio dei Ministri, e della partecipazione a un Governo europeo ed europeista. Le inversioni di rotta della Lega Nord non sono una novità. Il passaggio dal radicalismo finto celtico, dalla secessione sbraitata, alla chimera della secessione, agli strali contro lo stato unitario, alle invettive contro il 25 aprile (quando Bossi invece dichiarava il partito antifascista), alle melensi e odiose carezze alla destra neofascista, dal razzismo contro i meridionali a quello più redditizio verso gli immigrati, dal sessismo, dalla violenza verbale contro tutti i diversi, una congerie di contraddizioni e di proposte scoordinate e spesso strampalate. Il collante era però Bossi, il suo carisma, l’autorevolezza del padre fondatore (astemio) e l’ideologia di una chimera dichiarata a portata di mano. 

La Lega Nord naviga oggi in cattive acque. Il partito è accreditato di un consenso, sovrastimato, attorno al 20%. All’incirca il dato del 2018, dopo l’ebbrezza del 2019. Ad aggravare la crisi della Lega Nord c’è la condizione di socio di maggioranza, con sostegno a politiche espansive e pro-EU, ossia una costrizione cui il partito reagisce sanguinando elettori, e che Salvini vive come una vera contrizione. Nella situazione odierna il senatore eletto per caso a Locri ha le polveri bagnate, non può dare fino in fondo sfogo alle intemerate contro il “sistema”, non può criticare il capo del governo accusandolo di incompetenza, non ha elementi per scagliarsi contro la gestione del Codiv avendo un malgoverno a guida Lega Nord in Calabria e in Lombardia. È come una fiera in gabbia, e molti elettori sembrerebbero ormai mitridatizzati al suo richiamo continuo alla mobilitazione contro il nemico imminente di invasioni immaginifiche. Per questo tenta piccole azioni di sabotaggio quali le discussioni sugli orari del coprifuoco, o rimarca una pregiudiziale identitaria sulla legge contro l’omotransfobia. 

Inoltre Giorgia Meloni da mesi incalza la Lega, e sta recuperando consensi e il sorpasso è ormai prossimo. Una chiara Opa ostile, con Salvini schiacciato tra l’ala governista e la spina nel fianco di Fratelli d’Italia. Alla sfida sulla destra si somma il ritrovato attivismo pacato, ma probabilmente efficace del segretario del PD. Letta ha finalmente iniziato a discutere della possibilità di recuperare i voti del Nord, posto che in maggior parte si tratta di lavoratori (dipendenti), per cui se la Sinistra dismettesse l’atteggiamento rinunciatario potrebbe recuperare molti consensi. Il bacino leghista è assolutamento contendibile, è sul mercato, e disorientato aspetta parole e atti rassicuranti. Per il PD, con una politica “aggressiva” e propositiva sul territorio, sarebbe possibile vincere persino in Veneto, dove il sedicente buongoverno del Presidente Zaia ha generato spesso problemi ambientali, estese diseguaglianze sociali nonchè un sistema sanitario orientato al privato. 

La conviveza nel partito tra massimalisti e riformisti, o meglio tra estremisti di destra con e senza doppiopetto, è ormai impossibile. Addirittura, secondo alcune fonti, Salvini e il ministro Giorgetti avrebbero sfiorato la rissa a causa di divergenze sulla gestione dei fondi europei post pandemia. 

Ai primi di agosto inizierà il “semestre bianco” presidenziale, una ghiotta opportunità per essere non responsabile e allo stesso tempo criticare senza tregua il Governo in carica con l’assicurazione che il Presidente della Repubblica non potrà sciogliere le Camere. La condizione perfetta per un uomo politico da trincea come Salvini che ha costruito il suo effimero consenso su provocazioni, proposte senza evidenze empiriche, e con il complice silenzio di ampi settori dell’informazione che solo in pochi casi ha chiesto conto delle affermazioni fatte. A quel punto Salvini potrà alzare il tiro e il tono, sia che la Lega rimanga nel governo con i ministri sia che la delegazione lasci la maggioranza. Sarà comunque una fuoriuscita politica, e lui potrà negoziare il capitale elettorale mentre i filo governativi saranno in balia delle sue provocazioni. Saranno mesi di grande tensione, con l’asse FdI-Lega Nord che torneranno a dialogare e a sfidarsi ma da alleati in una lunga campagna elettorale in vista del 2023. L’identità del partito è dunque in grave pericolo, e anche l’organizzazione, un tempo efficace macchina elettorale e oleata struttura capace di fare da sentinella sugli umori del Nord, è annichilita dopo un lustro di osanna, e relative risorse, dirottate verso il sedicente capitano di ventura. 

Nessuno può scappare alla propria identità. Salvini è un politico, tattico decente, nella migliore delle ipotesi. Spesso è trascinato dagli eventi, nel senso che trae vantaggio adattandosi al contesto. Non c’è nessun disegno metapolitico, nessuna superstrategia segreta, semplicemente Salvini è rimasto vittima della rivolta della componente “governista” del partito. Non una componente moderata, come ripetuto acriticamente, ma semplicemente quella più pragmatica. In questo Salvini è più leale al carattere “movimentista” del partito. Lo scontro tra le due componenti è in corso da tempo e nel deflagrare farebbe implodere il partito. Per tutte queste ragioni Salvini presto lascerà la maggioranza provando a portare con sè le residue forze irredentiste della (fu) Lega Nord. Salvini non esce dal Governo, non ci è mai entrato

Le primarie a Bologna: benvenuto conflitto

Il mio editoriale per IL CORRIERE DI BOLOGNA

Ex malo bonum. Le primarie di coalizione tra i candidati del centro-sinistra possono rappresentare l’occasione per dirimere le frizioni e le conflittualità emerse nell’ultimo anno. Uno strumento utile, non sempre, non in assoluto, capace di mitigare le tensioni e soprattutto di legittimare la scelta dell’aspirante candidato alla carica elettiva, in questo caso di Sindaco. Il Corriere di Bologna è stato tra i primi a segnalare in varie occasioni l’opportunità delle primarie per procedere all’indicazione dell’aspirante successore di Virginio Merola. La decisione di Isabella Conti di competere rende l’esito della contesa incerto, e potenzialmente amplia l’interesse dei cittadini e degli elettori bolognesi per la campagna elettorale, anche a circuiti meno vicini ai partiti. I principali contendenti – in attesa delle determinazioni di A. Aitini – hanno presentato i rispettivi desiderata, fin’ora linee programmatiche generali, in due “dirette” sui social network entrambe abbastanza noiose e “tattiche”. Come ragionevole fosse al primo “appuntamento”. Possiamo però già trarre qualche elemento di riflessione. Il sindaco di San Lazzaro pare intenda giocare una partita all’insegna della rassicurazione, dell’appello alla “società” esterna al Partito democratico. I toni sono stati concilianti, a tratti troppo melensi, quasi da libro Cuore. La giusta reputazione di cui gode, data da popolarità, doti amministrative e coraggio, deve però trasformarsi in proposte di politiche pubbliche concrete, fattibili, misurabili e comparabili. Non si tratta solo evidentemente di una questione di scala (comparare San Lazzaro e Bologna non è un indicatore sensato, da non abusare ambo lati), ma di affrontare le questioni dirimenti e le prospettive di vita sociale e urbana dei prossimi trent’anni per la capitale felsinea. Per cui sarebbe più opportuno fare riferimento a proposte di miglioramento sempre necessari piuttosto che a presunte gravi deficienze cittadine, viste che tutto sommato Bologna non pare sia assediata dagli Unni. Essere candidati indipendenti può essere un plus, purché i partiti, e il PD non siano visti come un male.

Matteo Lepore, ha esperienza, visione, capacità amministrative e politiche. Per vincere dovrebbe evitare di rinchiudersi, di rimanere ancorato al gruppo di riferimento, ai soliti noti, e a volte non troppo disinteressati consiglieri. La reazione altèra sarebbe esiziale, tanto quanto considerare -come in parte ha fatto – la sfida di Conti come una lesa maestà. E nemmeno l’attacco a Matteo Renzi, accomunato a Salvini, appare ragionevole, almeno in questa fase, posto che Italia viva è composta di molti elettori di centro-sinistra. Tiri fuori, con umiltà, il coraggio di navigato amministratore, di giovane miliante e capace promotore della bellezza della Città, senza timore di lanciare il cuore e la mente nell’arena un pò affollata. Allarghi partendo dal PD, ma guardano oltre.

L’apertura della competizione ha innescato una normale, fisiologica, azione di ri-posizionamento e un confronto serrato tra sostenitori della lealtà coatta ed eroismi in favore della libertà di voto. Le primarie “aperte” coinvolgono gli elettori che si riconoscono nei valori (e nel manifesto) della coalizione, e che versano un obolo, si spera. Pertanto, le accuse di tradimento quanto gli strali contro il presunto liberticidio appaiono ampiamente sovrastimati. Una diatriba ristretta a pochi funzionari ed eletti. Che poco dovrebbe interessare il “popolo delle primarie”, stante la logica intrinsecamente “aperta” dei “gazebo”. La libertà va garantita, ovviamente, e non hanno senso i richiami alla disciplina, le minacce di espulsioni o i toni da anni Cinquanta. Tuttavia, è altresì bene essere consapevoli che i partiti politici non sono taxi o autobus, e nemmeno lo sono le istituzioni o le correnti, da cambiare a ogni mutar di Eolo. Pena la scarsa reputazione presso i cittadini. 

Meglio sarebbe, invece, per Conti e Lepore, raccogliere la sfida, puntando sul confronto rispetto ai temi. 

Il conflitto ideale è sempre foriero di avanzamento sociale e culturale, di progresso e civiltà. Confronto libero, serrato, argomentato e scevro da risentimenti, in una vera logica di competizione dove “prevalga il miglior candidato”. La nostra città ha raggiunto altissimi risultati in ambito sociale, economico, culturale, proprio grazie alla sinistra, al centro-sinistra. Ma non basta onorare il passato per conquistare il futuro. Bisogna reinventare un nuovo modello che affronti il post-Covid. Ma partendo dal patrimonio comune che è Bologna, con la sua vasta e solida ricchezza, economica e immateriale. Ne tengano conto i pretendenti per non rischiare di disperdere l’obiettivo primario nella temperie e nella polvere della tenzone elettorale. 

Le primarie prossime anticipano la contesa elettorale autunnale e decideranno, de facto, il prossimo primo cittadino di Palazzo d’Accursio, come rilevato anche dal Presidente P.F. Casini. Lo dicono i numeri del centro-sinistra a Bologna e l’annoso ritardo programmatico della destra locale. Conti e Lepore, diano dunque fuoco alle polveri delle proposte, delle idee, dei numeri, dei sogni, delle visioni, e della partecipazione politica. In entrambi i casi prestando maggiore attenzione ai temi e meno alle paturnie personali. 

Sistema elettorale: la quadriglia bipolare

Il mio editoriale per DOMANI

La quadrille bipolaire. Era così definito il sistema partitico francese degli anni Settanta-Ottanta per la presenza di due partiti rilevanti in ciascuno degli schieramenti. Ogni polo aveva un partito medio-grande che fungeva da guida e uno medio-piccolo che svolgeva al contempo il ruolo di sfidante, di stimolo, e di alleato. I socialisti capitanati da F. Mitterrand potevano contare sul sostegno del PCF, il partito comunista, mentre i gollisti di J. Chirac beneficiavano del fedele sostegno dei liberali centristi dell’UDF di V. Giscard d’Estaing. La meccanica bipolare era sostenuta e favorita dal sistema elettorale maggioritario per le politiche e amplificata dall’elezione popolare diretta del capo dello Stato. Ossia la caratteristica principale introdotta da C. De Gaulle su cui nacque, o meglio si consolidò, la Quinta Repubblica. La guida per ciascun campo, e quindi l’accesso al Governo attraverso un proprio Primo ministro e la candidatura quale front runner per la Presidenza della Repubblica, dipendeva dai rapporti di forza tra i rispettivi frères ennemis. Il partito in testa al primo turno, delle presidenziali e delle politiche, riceveva il sostegno esplicito del compagno di coalizione/schieramento. Il tutto in una chiara e distinta dinamica bipolare tra centrodestra e centrosinistra. I socialisti sono stati indiscussi egemoni del campo di sinistra per un trentennio, mentre nel campo conservatore la contesa è stata meno definita grazie all’attivismo e alla personalità di Giscard d’Estaing, capace di sfidare, sebbene temporaneamente, Chirac e i gollisti. L’implosione elettorale socialista e ancora prima la presenza crescente del Front national hanno modificato quell’assetto. 

Nel caso italiano la discussione sul sistema elettorale, meritoriamente rilanciata da Enrico Letta, e le prospettive sul doppio turno, aprono una potenziale strada per il consolidamento del sistema partitico italiano. Il quale è debole e quindi andrebbe contro-bilanciato dalla forza del sistema elettorale, per evitare l’eccessiva frammentazione, e la conseguente instabilità e immobilità decisionale. La discussione è ancora preliminare e sarà decisivo capire se l’orientamento potrebbbe andare in direzione dei collegi uninominali (come in Francia) ovvero di una contesa nazionale. La quale, attualmente più probabile, ha il vantaggio di conferire una maggioranza numerica cospicua, ma pone altresì alcuni problemi potenziali su cui utile riflettere, laicamente. Il doppio turno nazionale è normalmente adottato in regimi presidenziali, ossia per eleggere cariche monocratiche. Nel caso in specie, dovendo allocare dei seggi andrebbe tenuto conto di un rischio politico, posto che sul piano giuridico la Corte Costituzionale si è pronunciata favorevolmente. Potenzialmente una coalizione/partito otterrebbe il 55% dei seggi pur con circa il 45% al primo turno; e viceversa sarebbero possibili casi in cui il vincitore del ballottaggio riceva la stessa quantità di seggi pur con percentuali di voto superiori al 55%. Ne deriva che andrebbero discussi alcuni elementi quali: 1) il limite minimo per vincere al primo turno; 2) l’adozione di soglie accessorie come la percentuale di elettori recatisi alle urne; 3) il raggiungimento di una quota di voti (35%, per esempio) nella maggioranza delle province/regioni per evitare vincitori territorialmente definiti; 4) l’entità del “premio”. Ossia disegnare un sistema con due livelli di soglie, cosiddetto double complement rule

Al di là del dibattitto che verrà, la discussione sulle riforme è indispensabile: non solo sistema elettorale, ma anche Titolo V, ad esempio. Quel famoso cantiere riformatore deve essere riaperto proprio per le questioni rimaste in sospeso, mal modificate o bisognose di aggiustamenti.

È utile altresì osservare che la discesa in campo di Letta ha impresso una nuova dinamica “maggioritaria” al confronto politico tra i partiti e all’interno degli stessi. Le attuali forze politiche somigliano a una quadriglia bipolare. L’assetto del sistema partitico potrebbe svilupparsi proprio secondo lo schema “francese” ovviamente al netto delle differenze esistenti tra i contesti e astraendosi dalle valutazioni valoriali dei singoli attori politici. 

Il centro-sinistra pare riorganizzarsi attorno al duo PD-M5s. Il Partito democratico ha chiaramente abbandonato l’idea di essere condannato alla subalternità al Movimento 5 stelle. Le azioni del neosegretario hanno ristabilito un clima di fiducia e velato ottismo, in parte della volontà, e maggiore attivismo degli iscritti/elettori democratici troppo spesso trascurati, ma ancora desiderosi di partecipare. La prospettiva di una coalizione ampia, ma con al centro il PD che rilanci la vocazione maggioritaria, ossia l’obiettivo di essere guida perno e pivot riformista dello schieramento, contribuisce a ristabilire e ricomporre l’area di centro-sinistra.  

Dal canto suo il Movimento 5 stelle parrebbe infine attestarsi su posizioni meno populiste sebbene le acrobazie ideologiche e le oscillazioni politiche degli ultimi anni suggeriscono grande cautela e andrebbero verificate e testate. L’emergere di una classe dirigente rinnovata, pienamente europeista nei valori, nei comportamenti e nelle proposte, ancora non è del tutto all’orizzonte. In questo senso Giuseppe Conte potrebbe capitalizzare la recente esperienza a capo del Governo per imprimere un’accelerazione, tuttavia rimanendo cauto nelle procedure per evitare fughe massimaliste/movimentiste residue e in parte irriducibili. Alla coppia PD/M5s si contrappone stabilmente l’asse sovranistra di (estrema) destra Lega Nord e Fratelli d’Italia. Con il primo saldamente ancorato alle origini nordiste e il secondo alla ricerca di una identità nuova, combattutto tra revanchismo anni Settanta e neo-conservatorismo europeo. Gli equilibri politici ed elettorali nei due poli sono per ora stabili posto che il primato della Lega appare fragile e la contesa tra democratici e grillini è in fase preliminare. Insieme i quattro partiti cumulano circa l’80 per cento dei consensi, ossia la stragrande maggioranza della rappresentanza parlamentare. 

Ciascun polo sta ricomponendo la propria identità, l’equilibrio interno e la strutturazione politica e ideologica. L’intento di Letta di volere conferire e definire la leadership del campo progressista in base alla conta dei consensi tra PD e M5s va nella direzione di configurare una stabile alleanza che si confronta alle elezioni e successivamente converge in Parlamento. Il Partito democratico dovrà attingere dalle migliori energie intellettuali per declinare in proposte concrete, fattibili, attuabili e soprattutto condivisibili la prospettiva programmatica lanciata da Letta. “Progressista nei valori, riformista nel metodo, radicale nei comportamenti” è un ambizioso e lodevole manifesto politico. Contempla la lotta alla disuguaglianza, la parità di diritti e opportunità, l’etica e l’afflato riformatore. La costruzione di un solido partito che coniughi la spinta socialista e quella liberale per ridare fiducia, crescita e sviluppo al Paese. Il M5s, orfano del leader fondatore è piombato sulla realtà dopo l’ebbra esperienza sull’ottovolante populista e della finta democrazia diretta, ha la storica opportunità di convogliare le tante energie positive che il movimento contiene alla sua base, ma innervandolo di visione, di politica e di politiche coerenti con una società veramente aperta. E inclusa nella piena logica della democrazia rappresentativa, e non anti-sistema. 

Analoga dinamica di ristrutturazione si intravede tra amici/nemici Lega/FdI. 

I leghisti oscillano tra la malinconia salviniana per le ampolle del Po, e la rinnovata identità regional sovranista ben tutelata dal controllo del Mise, e la finta apertura europeista nella sostanza sempre orientata ad alleanze con il nazionalismo ungaro-polacco, non tanto differente da quello turco nella sostanza del rispetto dei diritti civili. Prima di sfidare l’alleato la Lega dovrà risolvere la questione della leadership perche Salvini non potrà convivere a lungo con il ruolo di “responsabile”. Questa circostanza rende FdI potenzialmente abile a superare i leghisti a patto che Giorgia Meloni rinnovi dalle fondamenta il partito, scommettendo sul ruolo all’interno del movimento conservatore europeo, mentre la strada dell’identità di (estrema) destra nazionale sarebbe di corto respiro e farebbe rimanere ai margini il partito, specialmente allorché la popolarità della leader iniziasse a eclissare. 

In questa dinamica bipolare i partiti minori dovranno aggregarsi o rimanere irrilevanti. 

Lo schema è duque segnato: alleanze pre-elettorali lungo l’asse sinistra/destra, competizione per la leadership interna e poi confronto nelle urne. L’adozione di un sistema elettorale maggioritario avrebbe effetti benefici e salutari sul sistema partitico italiano nel suo complesso. La competizione apparirebbe più chiara in termini di identificazione dei contendenti e della loro promessa di azione politica e legislativa futura. Di conseguenza anche il processo di accountability, di rendere conto ai cittadini/elettori, sarebbe rafforzato. La solidità dei governi, la loro stabilità, la corenza interna e l’operatività risulterebbero maggiormente tonificate. In un contesto in cui si sono avvicendati tre governi in tre anni con formule politiche letteralmente opposte. 

Gli elettori potranno sia esprimere un voto sincero/espressivo delle loro prime preferenze e anche sostenere il partito meno lontano dal loro sentire politico senza pertanto essere forzati. I partiti, soprattutto quelli estremi, sarebbero indotti a moderare il bagaglio ideologico per essere appetibili al secondo turno. Una sana dinamica bipolare sarebbe un bel colpo al populismo. 

La Destra conservatrice che manca all’Italia

Il mio editoriale per il RIFORMISTA

Tornate nelle fogne. Carogne fasciste. Molti dei gerarchi, degli esponenti del regime e del partito nazionale fascista erano effettivamente vili e meritavano anche di essere estromessi da ruoli politici, istituzionali e sociali apicali nel sistema repubblicano successivo alla Liberazione e alla nascita della Repubblica. È così sostanzialmente avvenne, sebbene l’epurazione fu parziale nell’azione del governo Parri e insieme all’amnistia del ministro Togliatti resero l’esclusione di quanti coinvolti criminosamente con il regime mussoliniano meno efficace. La messa al bando del disciolto partito nazionale fascista e la limitazione dei diritti politici (in deroga temporanea all’articolo 48 della Costituzione) per i capi responsabili del regime furono un compromesso, ma anche un chiaro segnale di liberazione e di tentativo di riconciliazione nazionale. Di fatto, poi, gli epigoni del fascismo, riorganizzati nel Movimento sociale italiano, furono esclusi dall’accesso al governo, insieme al PCI – sebbene in forme limitate ed evolute nel tempo -, nella nota conventio ad excludendum, che impediva appunto l’ingresso alle stanze governative per i partiti antisistema. 

La guerra di Liberazione dal nazifascismo, la guerra civile, dall’8 settembre del 1943 al 25 aprile del 1945 non era stata per nulla superficiale e in varie zone del Paese, specialmente al Nord, aveva reso sanguinose le ferite sociali profonde generate dal fascismo e dal conflitto mondiale. Come disse con celeberrima retorica Sir Winston Churchill di lì a poco calò una cortina di ferro tra l’Est e l’Ovest, e in tutto ciò l’Italia faceva, letteralmente, da confine. La Guerra Fredda ebbe inizio e con essa la necessità di Stato, derubricata ipocritamente a “ragione collettiva” inibì ogni serio, diffuso, condiviso processo di elaborazione dell’onta autoritaria, delle leggi razziali, dell’odio, della guerra. La memoria non fu e non divenne storia comune, rimarcando distanze e distinguo che acuirono diffidenze, avversione e violenza. L’”armadio della vergogna”, un mobile addossato con le ante a una parete affinché non disvelasse il contenuto di documentazione inerente alle stragi nazifasciste del dopo Armistizio, segna simbolicamente quel rifugio della memoria, tentativo di scappare dal, senza elaborare il Ventennio, e gli interrogativi circa la natura del “consenso”. In Germania i figli interrogarono i padri e i nonni circa le loro attività nel periodo totalitario, mentre in Italia il contesto nazionale ed internazionale, insieme a una congrua dose di viltà e malcostume morale, frenarono una seria discussione sul passato, e come superarlo senza dimenticarlo. 

I partiti dell’arco costituzionale accettarono la presenza di un partito neofascista, che non rinnegava quasi nulla del fascismo, ma lo relegarono giustamente ai margini. Pertanto, la Destra conservatrice non ha avuto solide basi in Italia a differenza del resto dell’Europa occidentale, per i citati fattori nazionali ed internazionali. Il MSI era una formazione legata a doppio filo con il regime fascista, dal punto di vista ideologico e personale. La “politica del doppiopetto” di Giorgio Almirante solo in parte scalfì l’immagine di partito nostalgico, spesso ambiguamente troppo vicino ad ambienti eversivi, quanto meno fino alla campagna sulla “doppia pena di morte” del 1978 in piena emergenza terroristica. Ma l’MSI non procedette mai a rescindere i legami, personali e culturali, con il Ventennio. Non voleva farlo, non sapeva farlo, e in parte non poteva farlo ingabbiato nella Guerra Fredda italiana. Il progetto di Destra nazionale naufragò incagliato negli anni di piombo, mai rivisitati criticamente, mai condannati senza appello. 

Quel ignavo “non rinnegare, non restaurare” propugnato da Almirante che teneva in mezzo al guado il partito neofascista, in un gioco di specchi con il nemico comunista che permetteva alla Democrazia cristiana di ergersi perennemente a baluardo verso gli estremismi. Il piduista Silvio Berlusconi e il mutato scenario internazionale consentirono al MSI di accedere al mondo istituzionale che conta. Molto lavoro fu svolto da Gianfranco Fini che osò sciacquare panni e fez nell’acqua di Fiuggi nel 1995, eliminando i residui fascisti, emarginando l’ala oltranzista e revanchista. Mise Almirante in una teca e provò a creare una destra “normale”. Descrisse il fascismo come male assoluto, visitò Gerusalemme chinando il capo e aprì ai conservatori europei. L’ambizione fu però bloccata da colui che aveva aperto le porte delle istituzioni: Berlusconi espulse Fini reo confesso di tentato golpe e rigettò i nostalgici nelle mani del passato. L’eredità del MSI-Alleanza nazionale, mutatis mutandis, è stata raccolta, rinnovata e rilanciata da Giorgia Meloni. La quale ha le potenzialità per fagocitare la Lega Nord e diventare egemonica nel campo della Destra. Ma per farlo non dovrebbe tornare a un aureo passato, a “ordine, disciplina e gerarchia”, alla triade autoritaria “Dio, Patria e Famiglia”; non all’antico, ma continuare nell’azione di rinnovamento, di modernizzazione. 

Per capire se intenda diventare politicamente adulta sarà utile verificare se Meloni punta a costruire una forza della destra repubblicana, una ridotta della Lega Nord, una costola in franchising del partito di Marine Le Pen (che si ispirò al Msi…), ovvero una sezione fuori tempo e nemmeno troppo edulcorata di Alleanza nazionale. Per divenire centrali nel campo di centro-destra Fratelli d’Italia dovrebbe operare scelte radicali. Nessuna ambiguità sui diritti civili, niente indulgenze su blasfeme frasi di ex colonnelli aennini ebbri, né azioni squadriste come quelle dei delatori di immigrati “citofonatori” emuli di Salvini. La Destra repubblicana italiana deve ri-scoprire De Gaulle, Kohl, Thatcher, … non satrapi postsovietici, orientali o i populisti nazionalisti di estrema destra che pensano al 1918 con nostalgia. Casa Pound va abbandonata, nella forma e nella sostanza, al pari del tentativo di recuperare frange dell’estrema destra. La legalità e l’antimafia ribadite anche nelle scelte dei candidati locali. Il patriottismo sano può avere spazio insieme al ruolo dello Stato, dalla scuola all’economia, ma non può esserci acritica difesa delle forze dell’ordine anche quando ci sono evidenti reati e responsabilità personali.

L’autorevole intervento di Ernesto Galli della Loggia sul Corsera indica alla destra un possibile percorso modernizzatore che però, in realtà, rischia di risucchiarla negli anni Sessanta/Settanta. I concetti evocati rimandano alla destra postfascista e non a quella moderna e conservatrice. E proprio sull’antifascismo, mai “di professione”, ci mancherebbe, ma sempre necessario per le ragioni di italica smemoratezza, Fratelli d’Italia dovrebbe fare di più, molto. 

La Storia repubblicana include il 25 senza cui non c’è il 2 giugno, e su questo andrebbe fatto uno sforzo intellettuale. Nella sua risposta a Galli della Loggia Meloni quasi ribadisce il carattere fieramente identitario della Destra d’antan, mentre lo sforzo andrebbe compiuto nella direzione opposta a quella evocata. Non abbia paura di mollare gli ormeggi. Per costruire una Destra moderna Meloni dovrebbe definitivamente abbandonare gli ululatori di Eja! Eja! Alala e le schegge missine che continuano a infangare la storia patria rimestando in presunti allori del fascismo. Meloni dica chiaramente che non concede credito a millantatori di patrie da difendere, che non ci sono navi da affondare, porti da chiudere, manifestanti da manganellare e centri sociali da sgomberare. Punti alle idee della destra repubblicana, ha molti spunti da cogliere: dal partito repubblicano americano, ai think tank a esso legati, dalla destra francese a quella tedesca e persino spagnola e scandinava. Colleghi che frequenta meritoriamente visti i suoi recenti incarichi. Il suo contributo passerebbe alla storia come modernizzatore, viceversa sarà derubricato a transeunte e il partito avrà scarsa fortuna. La competizione con l’estremismo leghista non giova al partito ed ha breve respiro. Lo spazio elettorale per i conservatori è ampio, ma Fratelli d’Italia ha la zavorra del passato; presunto o reale che sia molti elettori lo percepiscono. 

Che i postfascisti del terzo Millennio “escano dalle fogne” per sempre non può che essere salutare per il Paese. Anziché rigettarli nelle mani del fanatismo vanno accolti e sostenuti i passaggi riformatori, se verranno.