Meloni-Salvini contro Schlein-Lepore

Per Niccolò Machiavelli i nuovi Principi per crescere devono costruire dei nemici. E la destra leghista/post-fascista ha individuato in Bologna il bersaglio centrale. Il crescendo di critiche – fisiologiche e democratiche – si è nelle ultime settimane trasformato in un sistematico attacco a Palazzo d’Accursio e in particolare al Sindaco Lepore. Il quale è stato oggetto di intemerate da parte degli esponenti locali del duo Lega-FdI, in particolare per le sue posizioni sui diritti civili, ma anche sui diritti sociali nella proposta della città – ancora da costruire in pieno – “più progressista”. Quel progetto rappresenta un Manifesto ostile su tutti i fronti all’agenda del governo di destra-destra che guida il Paese. Per Palazzo Chigi la città felsinea è il principale e più credibile, e perciò pericoloso, avamposto dell’opposizione sociale, culturale e politica al disegno di ridefinizione dei rapporti di forza in Italia. Il principale avversario, ma anche il baluardo da cui il PD e i suoi alleati potrebbero rilanciare la sfida, e perciò nei radar meloniani disturbano la navigazione futura.

La distanza è netta e profonda, con il rischio, e forse per qualcuno è anche una volontà e un auspicio, che si trasformarsi in frattura. Su tutti i temi cruciali Roma e Bologna sono agli antipodi. Sulla Costituzione, sulla memoria, ma soprattutto sulla storia dell’antifascismo, sullo ius soli e quindi sulla definizione di cittadinanza. Le urla contro le lezioni di Lepore di civismo nelle scuole vanno al di là di uno scandalo solo immaginato. Sui migranti dopo la strage di Cutro, Bologna ha per l’ennesima volta mostrato pietas e solidarietà, mentre a Roma il Governo restava di sasso sulle dichiarazioni del Ministro Piantedosi, allineate alla tradizione del predecessore leghista. Sul progetto nazionale, Lepore ha più volte chiaramente indicato la strada per tenere insieme il Paese evitando che il Sud rimanga stritolato dalla riforma di c.d. autonomia differenziata che suona quale secessione dei ricchi, mentre Fratelli d’Italia ha ormai appaltato alla Lega (nord) il tema per ragioni di equilibrio coalizionale. E anche sulle famiglie omogenitoriali il punto di distinzione è chiaro.

La sinistra bolognese che guida però l’opposizione presenta un Pantheon progressista, mentre la destra-destra una lettura ultra-conservatrice e reazionaria, con chiari tratti di nazionalismo identitario. Sul piano sindacale la Presidente del Consiglio condanna l’”estrema destra” parlando dal palco della Cgil, ma non riesce a rimarcare la matrice fascista dell’assalto alla sede del sindacato, mentre Bologna dialoga con i rappresentanti del mondo del lavoro e della cooperazione e difende i patrioti/partigiani. Dalla città a misura di bambino e di pedone che la giunta bolognese sta varando, alla velocità da incrementare sulle autostrade proposta da Salvini. Il quale ricorda ancora amaramente il colpo di schiena civico-politico delle Sardine che lo mandò al tappeto proprio da Bologna e che consentì a Stefano Bonaccini di rimanere guida della giunta regionale. Insomma, un armamentario di differenze che al di là dei singoli punti, marcano il territorio e preparano il confronto futuro. Meloni e Salvini da un lato e Schlein/Lepore dall’altro. Bologna è sempre stato un simbolo politico, bacino elettorale della sinistra e fucina di amministratori locali; luogo di sperimentazioni e di contaminazioni, di elaborazione politica e di progetti elettorali, dalle prime giunte di centro-sinistra fino all’Ulivo, le primarie e Romano Prodi, fino alla prima segreteria donna del PD. E ancora la persistenza di uno zoccolo duro nei collegi uninominali alle politiche scorse. La contrapposizione non fa bene a nessuno se finalizzata a sé stessa, ma il conflitto ideale e politico, viceversa aiuta a decifrare e a chiarire le posizioni, ad elaborare. Il conflitto di idee, quando sano e pacifico, è un motore di cambiamento. Gli attacchi al duo Schlein/Lepore parlano più di quanto non dicano le dichiarazioni zelanti dei singoli esponenti della destra. La neosegretaria e il sindaco sono giovani (meno di ottanta anni in due), con un ricco pedigree politico e amministrativo e hanno idee chiare sul futuro del centro-sinistra. C’è un nuovo paradigma che va al di là delle singole politiche: la destra ha indicato il campo di battaglia futuro, ha marcato il territorio per scavare le trincee del confronto elettorale del domani prossimo. Bologna è insomma nel mirino politico delle forze di coalizione maggioritarie in Parlamento: è un salto di qualità, il riconoscimento di un ruolo guida del campo progressista, individuato in Bologna e nei suoi massimi rappresentanti, ma anche un potenziale rischio di sistematico attacco. L’asse Bologna – Roma è sempre più caldo e nazionale. 

Meloni ha due ricorrenze per chiudere i conti con il passato

La storia d’Italia è piena di cicatrici, frutto di ferite aperte da eventi sociali e politici, nazionali e internazionali. Tra i colpi inferti alla giovane democrazia sin dagli inizi della sua storia si distinguono due tragici eventi di cui nelle prossime settimane ricorre l’anniversario.

IL GOLPE BORGHESE

L’8 dicembre del 1970 il “principe” Junio Valerio Borghese, criminale di guerra e comandante della X Mas, flottiglia che dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 aveva proseguito la guerra combattendo al fianco dei nazisti, tentava un colpo di stato.

Era l’acme della strategia golpista condotta nella penisola da frange neofasciste, componenti delle forze armate, della polizia, del mondo imprenditoriale e politico che temeva l’ingresso dei comunisti nell’alveo governativo.

Il 1970 e il tentativo, fallito, di Borghese era il prosieguo naturale delle manovre golpiste, mai del tutto chiarite che si erano dipanate nel 1964 a opera soprattutto del comandante generale dei carabinieri Giovanni de Lorenzo. E che avevano investito, sebbene indirettamente, anche il Quirinale e i rapporti del capo dello stato Antonio Segni con Aldo Moro. Il centro-sinistra e l’avvicinamento dei socialisti e delle sinistre alla Dc non era congeniale agli anti comunisti e agli atlantisti oltranzisti.

Il mio editoriale per Domani lo potete leggere qui

La Costituzione che verrà

Il mio editoriale per Il Corriere della Sera

Libertà. Democrazia. Questa la diade di concetti che ispirò e guidò il voto degli italiani il 2 giugno del 1946. Il referendum istituzionale sancì un passaggio costituzionale cruciale, dalla monarchia alla repubblica. Gli elettori non si pronunciarono sull’assetto istituzionale, ma votarono in larga misura per respingere il recente passato autoritario e la monarchia con le sue indegne complicità, e correità con il fascismo. È però sintomatico che l’Italia repubblicana nacque per via referendaria, un istituto di democrazia diretta, ma anche carico di contraddizioni, emotività. Una scelta compiuta per evitare che la tensione polarizzante si trasferisse nei lavori della Costituente investendo i partiti. Il voto palesò profonde differenze territoriali, una decisa frattura tra nord (maggioritariamente repubblicano, tranne due province) e sud (prevalentemente monarchico, tranne due province. A Bologna finì 54% vs 46% per la Repubblica. Per la prima volta votarono anche le donne, anche se qualche giornale titolò “ci moriamo di fame e pensiamo al voto alle donne”. La politica fu più dignitosa e ambiziosa.

Contemporaneamente il voto servì ad eleggere l’Assemblea costituente che lavorò per un anno e mezzo al testo costituzionale prima dell’approvazione finale. La Carta Magna della Repubblica italiana entrò in vigore il 1 gennaio del 1948: per inciso insieme al nuovo anno nei comuni italiani si potrebbe concepire un appuntamento fisso per celebrare la Carta. Le urne “costituenti” consegnarono anche il primato alla Democrazia cristiana, seguita dai socialisti (Psiup) e dal Pci, con questi ultimi due che concorreranno uniti nel 1948 (Fronte popolare) per poi vedere i comunisti prevalere, unico caso in Europa occidentale, sui fratelli maggiori socialisti sino al 1992.

Il “2 giugno”, la repubblica democratica, non esisterebbe e non sarebbe nata senza il “25 aprile”, senza la lotta partigiana, senza la guerra civile, senza la Liberazione dal nazi-fascismo. Quella data è l’anticamera, ma soprattutto la condizione indispensabile per discutere poi di “come” effettivamente organizzare l’assetto istituzionale (si sarebbe potuto anche optare per una monarchia parlamentare, come in Spagna, ma solo una volta ritrovate “libertà e democrazia”). In realtà, l’apertura democratica era iniziata il 25 luglio del 1943, con la caduta del fascismo, e l’ordine del giorno “Grandi” (che era bolognese) che sancì la destituzione del Duce, e che si protrasse fino al 18 aprile del 1948, giorno delle prime elezioni politiche democratiche. L’estensione temporale del processo costituente favorì un esito negoziale di compromesso, accentuando il consenso anche su punti dirimenti (articoli 1 e 7 in particolare) e divisivi sebbene sul versante governativo i partiti del Comitato di liberazione nazionale si separarono con l’incombere della Guerra fredda che spinse De Gasperi a espungere i comunisti dall’esecutivo a seguito dell’accordo sul piano Marshall.

Il dibattito, nel c.d. comitato dei 75, e in Assemblea con lo scontro ideale tra i principali partiti e leader ha reso possibile l’approvazione di un testo moderno, lungimirante, innovativo e per diversi aspetti rivoluzionario. I principi fondamentale (primi 12 articoli) permangono somma garanzia, tutela e promozione dei diritti del cittadino, e delle persone sia quanto individui che in associazione.

Tra tutti gli articolo ho a cuore l’articolo 3, compendio di rispetto, riconoscimento e azioni per rimuovere gli ostacoli che vanifichino i principi di uguaglianza. Una Costituzione “bella”, certamente, ma non immodificabile, e da riformare, da aggiornare in talune parti, dal processo legislativo e rappresentativo al rapporto tra centro e periferia (Titolo V) ed evitando il rischio della torsione comunitarista.

Per molti aspetti oggi, ancora, direbbe Piero Calamandrei, la Costituzione “non è attuata”. Rimangono aree da tutelare, diritti da garantire, ostacoli da rimuovere, disuguaglianze da eliminare. Nuove e vecchie ingiustizie da combattere. Negli occhi dei migranti, nella dignità violata negata di troppi lavoratori, nel volto di bimbi cadaveri sulle spiagge dove peregrinava Enea, nei soprusi del potere, nelle raccomandazioni, nei traffici di rifiuti, nell’istruzione per pochi, nella negazione dell’accesso alla sanità pubblica … Ovunque ci sia una violazione dei diritti ci sarà la Costituzione. Ché i principi costituzionali, frutto di lotte, di sangue e di ideali, vivono sulle gambe, nella mente e nel cuore dei suoi cittadini. La Repubblica, tramite, la Costituzione, è un ideale da perseguire e – ancora Calamandrei – un “programma” da attuare. Buona Festa della Repubblica!

Monta la marea nera

Il mio editoriale per Il Riformista

Enrico Berlinguer e Aldo Moro progettarono, sognarono, una democrazia della competizione e non della segregazione. In cui l’alternanza al governo fosse fisiologica, risultante del comportamento di voto e non della separazione ideologica e degli schieramenti intangibili. Il tutto in un contesto internazionale bipolare che poneva l’Italia in condizione di discutere le forme di tale appartenenza, ma non la sua collocazione nello spazio occidentale, come deciso a Yalta. Con l’avvio della “terza fase” e l’avvicinamento e la normalizzazione dei rapporti con il Pci, la Democrazia cristiana era finalmente «liberata dalla necessità di governare a tutti i costi», come disse Aldo Moro. Mutatis mutandis, dopo quarantacinque anni è quanto accade al centro-sinistra, e in particolare al Partito democratico in un Paese con una democrazia ancora monca, avendo un polo non (auto)escluso, ma ampliamente illiberale. La similitudine con il concetto moroteo è emersa riecheggiando nelle parole di Enrico Letta insediandosi al Nazareno. Con una destra a trazione estrema il sistema è inceppato, il Pd “obbligato” a governare, a supplire, a sostituire, a garantire continuità e stabilità. Tant’è che in questa legislatura abbiamo avuto quasi tutte le combinazioni di coalizione che nemmeno in un manuale di scienza politica. E tutto ciò è dannoso per l’intero sistema. E alimenta il populismo, ieri di matrice grillina, domani con tinte nere. 

La destra italiana è ancora largamente e maggioritariamente immatura, illiberale, di estrema destra. Non ha compiuto i passaggi indispensabili per porsi quale forza “normale” del panorama politico nazionale e nel contesto dell’Unione europea. Che rappresenta per l’asse nero-verde la croce e la delizia delle alterne fortune politiche ed elettorali. 

La Lega (Nord) è rimasta impantanata non solo nel fango della pianura padana quanto a insediamento elettorale e soprattutto sociale, ma ha anche dovuto subire una torsione verso l’estrema destra per assecondare i desiderata del nuovo segretario. Il senatore Matteo Salvini ha infatti sottoposto il partito a una rapida seduta di trucco provando a dargli sembianze meno tribali, e enfatizzando una prospettiva nazionale in chiave e funzione anti-immigrati. In questa operazione ha imbarcato il sostegno, esplicito politicamente e culturalmente, delle scorie settarie fasciste del movimentismo violento (da Casapound in giù). La componente identitaria e regionalista del partito, quella filogovernativa – la Lega Nord ha partecipato al Governo per dodici degli ultimi 24 anni – ha vinto la contesa per il sostegno all’esecutivo Draghi, ma è ostaggio del sen. Salvini, sul piano culturale ma soprattutto su quello elettorale. Senza il truce politico di carriera la Lega (Nord) avrebbe ancora meno voti di quelli declamati dai sondaggi recenti, ma al contempo è bloccata verso una possibile transizione di partito conservatore su basi locali, simile alla Csu bavarese, esempio pure chiaramente indicato da esponenti della prima ora come Roberto Maroni. 

La via alla costruzione di un partito nazionale è stata percorsa solo come tour enogastronomico utile a far scordare alle plebi le ignominiose azioni, intenzioni e dichiarazioni dello stesso senatore e dell’intero apparato, da sempre razzista verso il sud. Facezie prêt-à-porter sui social network di fianco a derrate di cibi, ma il sud prontamente escluso dalla distribuzione del recovery fund che nelle intenzioni della Lega Nord serve solo a ripagare i padroncini e i padroni delle ferriere del Nord. Un partito, del nord, dal nord e per il nord. Alla favoletta nazionale crede ormai solo qualche pennivendolo o poche migliaia di disperati, anche perché non v’è più traccia dei comizi sbraitanti nelle regioni del Sud contro le presunte invasioni di migranti. Resta il nazionalismo, sempre in chiave territoriale, ossia sub-nazionale. Identità finto celtica, nazione padana inesistente e politiche ultraconservatrici. Difesa dei privilegi e nessuna spinta alla lotta alle disuguaglianze sull’asse economico, sbandamenti teorici e strategici in politica estera, perseguita senza alcuna bussola geopolitica, ma piuttosto condotta su basi spontaneiste e di opportunità. Le peregrinazioni del senatore Salvini da Locri hanno toccato i vari angoli del globo in una geografia diplomatica volta a rafforzare il precario controllo sul partito, sulla base, per evitare di essere definitivamente disarcionato dalla Lega ministeriale e industrialista. Per mostrare i muscoli in patria Salvini incontra il gotha dell’estremismo di destra, da Le Pen a Orban, da Kaczyński, da Bolsonaro a Trump, fino alla penisola Iberica con le proposte neo-franchiste di Vox e i portoghesi di Chega, senza scordare il rinnegato Putin e il nazionalismo sionista di Netanyahu e le simpatie per Alba Dorata. Un frullatore incoerente e che è anni luce distante dalla Lega Nord, posto che i primi – con vari livelli di differenziazione – perseguono un nazionalismo della patria, mentre Salvini è solo il portavoce della componente governista di un partito regionale. La Lega è il sindacato di base della classe media/alta del triangolo lombardo-veneto-friulano.  

Fratelli d’Italia punta decisamente ad ammaliare le casalinghe disperate, il ceto medio impoverito, gli elettori meridionali circuiti dalle sirene leghiste e del M5s, scordati dal Pd romanocentrico. Il partito guidato da Giorgia Meloni, e inebriato da rilevazioni demoscopiche che misurano la popolarità e solo in parte le intenzioni di voto a due anni dalle urne, continua a sovrapporre la riconoscibilità del leader con la reale forza politica. E, pertanto, non si cruccia di condurre una profonda, radicale, decisa e definitiva revisione delle coordinate ideologiche rimanendo ben piantata nel solco della destra post-fascista. L’unica difesa di FdI è il mantra che le ideologie non esisterebbero e che andrebbero valutati i programmi. Uno scaltro escamotage, non nuovo peraltro, che mira a rilanciare evitando di affrontare le questioni dirimenti. Tuttavia, il filo rosso programmatico del partito è interamente dedicato alla chiusura sui diritti civili, al nazionalismo identitario, il tutto ribadito con toni apodittici sulla società globale, la denuncia del dominio plutocratico e le ambiguità sulle libertà di culto, e ovviamente le barricate contro le migrazioni. E decine di esponenti che non lesinano, impuniti, simpatie e apologie del ventennio ancora presenti finanche nel simbolo elettorale. La permanenza nel gruppo Conservatori e riformisti, un ossimoro concettuale, serve solo a distogliere semanticamente l’attenzione dalla sostanza, ché è composto da partiti di chiara ispirazione neo-patriottica, religiosa, nazionalista, tradizionalista e reazionaria. Gli atti sono conseguenti, come il voto contro la risoluzione europea a condanna di ogni forma di violenza, razzismo e odio, e le reiterate posizioni contro “l’ideologia” gender. 

La Destra italiana, come direbbe Juan Linz, è pervasa da una “mentalità” autoritaria, ossia di una ideologia vaga, confusa, di una linea prevalente fatta di un espresso riferimento alla triade Dio, patria e famiglia. Ove ciascuno dei termini è declinato secondo un chiaro indirizzo a base escludente: dio cattolico, patria e ius sanguinis, e famiglia da pubblicità per biscotti. 

L’asse si è spostato decisamente a destra, sull’estrema destra, anche per la scomparsa di Forza Italia dotata di una solida struttura liberale, che spesso pativa sotto le manovre scomposte e azzardate di Berlusconi, ma che riusciva a contenere proprio grazie a un’ossatura moderata e anche ad innesti di individualità di provenienza democristiana, socialista e libertaria. 

La destra italiana oggi è dominata da una ideologia del culto della persona/lità che repelle il dibattito, il confronto e la costruzione delle idee. Che pure potrebbero arrivare da vari esponenti che orbitano attorno al duo Melo-Salvini, troppo chini su sé stessi, tuttavia. Nessuna Scuola di Chicago, nessun approccio neocon, non la rivisitazione delle politiche conservatrici di Reagan/Thatcher o del popolarismo di Kohl, della destra di Sarkozy o Aznar, e nemmeno il disegno neo-repubblicano di G. Bush. Piuttosto le lodi acritiche per un nuovo protagonismo americano sull’onda del post “11 settembre” à la W. Bush o del nazionalismo isolazionista di Trump. E, come, nota permanente il nazionalismo anti-EU, surrettiziamente mascherato dalla sussidiarietà, mentre il vero obiettivo è tornare al 1945.  

Un conservatorismo caritatevole e popolare solo nella propaganda, mentre nei fatti il grande capitale rimane un solido alleato, e il racconto della difesa del popolo trova molte specificazioni e sottogruppi allorché ci si allontani dall’ideale del maschio bianco. 

A suffragare questa dinamica, questa analisi, esistono messi di dati, pubblicazioni scientifiche nonché auto-dichiarazioni di esponenti leghisti e di FdI sempre meno a disagio nel palesare intenti fascistoidi ed estremisti.

La Lega Nord e Fratelli d’Italia non hanno compiuto nessuno degli atti politici, intellettuali e organizzativi prodromici al passaggio verso una formazione moderna, conservatrice. Ma, il fato e gli dèi sono magnanimi, posto che in Italia quasi nessuno li considera illiberali; pochi ritengono anomalo che stiano al governo (nel 1999 levate di scudi in tutta Europa per l’accesso al rango ministeriale del partito di Jorge Haider in Austria): altra Europa, altri tempi.

Bologna come Parigi

Il mio editoriale per il Corriere di Bologna

Bologna per me provinciale Parigi minore”. Così il Maestro Francesco Guccini definiva la città adottiva. Parimenti, le primarie del PD (centro-sinistra) somigliano alla politica francese, almeno nell’atteggiamento dei due candidati, nella maniera in cui stanno conducendo la campagna elettorale in queste settimane. Matteo Lepore somiglia a François Mitterrand, mentre Isabella Conti ricorda il percorso di Emmanuel Macron. Entrambi eletti Presidenti della Repubblica, con strategie asimmetriche, ambedue vincenti, in contesti di rinnovamento del sistema. Di passaggio di fase. 

Considero, come scritto, le primarie quali primo turno della competizione autunnale, e in parte anche il ballottaggio, a meno che il centro-destra non dimostri capacità eclettiche nell’ultimo miglio, o il centrosinistra imbocchi la strada fratricida. In questa dinamica Lepore sta giocando una partita molto identitaria, che rimarca i confini politici dello schieramento – ideologico e partitico – che lo sostiene. Richiama la Storia della città, della sinistra, i suoi valori e le sue prospettive. Senza arroganza, ma con tranquillità, a volte sfociando in eccessiva fiducia nel proprio campo. Sta operando un richiamo alla mobilitazione, alla fierezza della tradizione, del buongoverno, con temi “tipici” della socialdemocrazia, dai diritti, all’ambiente, al lavoro. Punta cioè a vincere invitando tutto il bacino progressista a votare il 20 giugno per sancire immediatamente un’affermazione definitiva. La Force tranquille che evoca – non sempre seguita nella filosofia da taluni pasdaran troppo facinorosi – potrebbe essere la carta vincente, ma considerando adeguatamente la seconda parte del match, ossia l’eventuale ballottaggio autunnale. Anche Mitterrand puntava a mobilitare i “suoi” al primo turno, mostrandosi come candidato di partito, per poi presentarsi “presidenziale” al duello finale, dovendo giocoforza ampliare l’area di riferimento per giungere all’Eliseo. Sapeva cioè, come scrisse e disse, che il “serbatoio” a sinistra – allora il PCF – era ormai quasi svuotato e, dunque, dovesse per forza aprire, non a singole sigle, ma all’intera Francia. Lepore punta a giungere in testa senza “compromessi”. 

La candidata Conti pare stia conducendo una campagna che genera una dinamica uguale e contraria. Evoca i tratti di concorrente indipendente, slegata dai partiti, di amministratrice capace e innovatrice, competente e decisionista. In grado di guidare la macchina organizzativa di Palazzo d’Accurso senza negoziati, senza le temperie dei partiti, con piglio innovatore e moderno. Ricorda la discesa in campo di Macron che sfidò l’establishment socialista di cui prosciugò le traballanti basi elettorali ed organizzative. Conti mira a disegnare un campo largo senza l’ingombro dei partiti, senza l’impiccio delle sigle politiche e, sempre come Macron, si rivolge a tutti sin dal primo turno. Ha intravisto la opportunità di scardinare il sistema partitico e di farlo invocando l’appoggio dei cittadini-elettori in quanto tali, senza etichette politiche. Con scivolate in richiami populisti. In qualche misura, Conti è, tecnicamente e in forma avalutativa, una candidatura antisistema, intesa a disarcionare il gruppo che amministra la città da due lustri. È però trattenuta dall’infliggere il colpo finale perché ha nel suo ricco pedigree una solida esperienza politica-partitica, e il sostegno del candidato vice Alberto Aitini, e di ampi settori democratici. Non c’è soltanto la recente militanza in Italia viva, e soprattutto nel PD, ma anche l’attivismo nei Democratici di sinistra, che essa stessa spesso rivendica per scacciare insinuanti attacchi su sua deriva destrorsa. Conti, proprio insieme a Lepore, era nella segreteria provinciale dei giovani DS. Ergo, chiuderei la diatriba sul punto. Lepore non mi pare uno stalinista né Conti una sprovveduta parvenue.  

In tutto questo i temi, gli argomenti, si stanno pericolosamente eclissando sebbene presentati dai candidati, ma sommersi dal rumore di fondo della diatriba, degli ultras, dello scenario di guerra interna. In cui si è insinuato recentemente un altro scontro latente, ma permanente in città, quello tra Ascom e mondo cooperativo. Mentre la città ha bisogno di crescita economica, di sicurezza fisica e sociale, di cultura e visione. Gli sfidanti possono essere artefici di una presenza maggiore di Bologna in Europa. 

Lepore affronta le primarie/primo turno come fossero l’antipasto dell’incoronazione, rivolgendosi ai “suoi”, per fare il pieno di consensi di “sinistra”. Conti gioca la competizione interna come se si trattasse del ballottaggio delle vere elezioni comunali appellandosi ai bolognesi e per svuotare il bacino del malumore piddino. Chi la spunterà, dunque? 

Due strategie opposte, entrambe potenzialmente vincenti. La chiave di volta sarà la partecipazione elettorale. Tutto dipenderà infatti da quanti saranno coloro che andranno alle urne (virtuali o reali), e da quali profili avranno gli elettori mobilitati nella vigilia d’estate.