Il ruolo chiave che hanno i partiti

Il mio editoriale di oggi per il Corriere di Bologna-Corriere della Sera

La democrazia è fatta di partiti politici. Senza, semplicemente la democrazia non esisterebbe. Poiché rimanderebbe ad una società monista, e pertanto autoritaria. Le organizzazioni politiche garantiscono pluralità, differenziazione di interessi e partecipazione politica. Non è un caso se la Costituzione italiana serba loro un ruolo chiave quali associazioni che garantiscono ai cittadini di organizzarsi liberamente per “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (art. 49).

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La tempesta perfetta

Sul Financial Times il mio pensiero sulle ore concitate che la politica italiana sta affrontando per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. “Siamo di fronte a una tempesta perfetta. Se Draghi diventa presidente della repubblica, il governo potrebbe non reggere. I partiti corrono contro il tempo per trovare una persona che possa tenere unita la maggioranza fino alle elezioni del 2023. Questo è il fulcro delle intense trattative di queste ore.”

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Dei diritti e dei doveri

Il mio editoriale per il Corriere di Bologna-Corriere della Sera

Anche nella città sedicente “più progressista d’Italia” (perché non d’Europa?) proliferano le istanze rivendicative di diritti, prevalentemente individuali. Giustamente. Ma ormai siamo al profluvio, quasi catartico, di richieste che talvolta travalicano il confine del “legittimo interesse” per strabordare nella sfera della pretesa. Con il rischio di confliggere con altrui, altrettanto legittimi, interessi e diritti e perfino con l’interesse collettivo, al netto della parzialità sempre mutabile di quest’ultimo. L’egocentrismo, l’individualismo assunto a ideologia ha raggiunto tratti parossistici, non solo in Italia. Il punto è che le istanze, i reclami, i proclami, le richieste e le rivendicazioni sono soltanto una componente della sfera civile. Del resto, non è strano e nemmeno fortuito, se la Carta costituzionale, nella prima parte, subito dopo i principi fondamentali riservi alla sfera dei diritti e doveri dei cittadini quattro “sezioni” che regolano e normano i rapporti civili, sociali, economici e politici. La Costituzione limita, ad esempio, la mobilità “per motivi di sanità o di sicurezza”, e mai, si badi, per motivi politici. Intima ai genitori di istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio. Regolamenta lo sciopero, e prescrive che l’attività economica privata non possa svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. Anche l’esercizio del voto è rappresentato quale dovere civico, fino alla difesa della Patria quale sacro dovere del cittadino. Trattandosi di un consesso sociale, la Carta, molto progressista effettivamente, impone che tutti debbano concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Come avrebbe detto Jürgen Habermas il welfare state come una sorta di solidarietà coatta. L’apogeo della chiamata al dovere pubblico si ha in riferimento, ovviamente, alla fedeltà alla Repubblica nonché alla Costituzione e alle leggi. Ma, un richiamo davvero repubblicano, lo si ritrova in riferimento a quanti ricoprano funzioni pubbliche che hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore.

Tuttavia, a fronte di tali indicazioni, il dibattito politico, sociale e finanche quello intellettuale- sempre più conformista e pavido – è saldamente abbarbicato nella difesa aprioristica di qualsivoglia gemito identitario, per paura di apparire conservatore. E perciò risultando fuori fase. Trascura completamente la seconda componente di quella importante sezione, i doveri. Il rispetto delle regole, delle norme sociali- scritte e consuetudinarie- è relegato in secondo piano, è fuori dall’agenda. Non è mai entrato in partita nemmeno nella recente campagna elettorale, a tratti sciapa e monocorde. Sebbene una cospicua fetta del pensiero politico, filosofico, etico, e religioso, si innervino attorno all’intersezione tra diritti e doveri. Sull’asse del rispetto del bene pubblico, degli individui, senza che però questo sfoci nella prevaricazione di un diritto singuli

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Quirinale, l’identikit del perfetto candidato alla presidenza della Repubblica

Il mio editoriale per il Domani 

Molti voti, ma, soprattutto, pochi veti”. Per accedere al soglio quirinalizio è necessario raccogliere un numero cospicuo di consensi, ma per farlo è indispensabile essere il meno invisi possibile. Evitare cioè il giuoco dei veti incrociati che tante illustri vittime ha mietuto sulla strada della presidenza della Repubblica. Dal 1948 in Italia ci sono stati undici presidenti per dodici mandati (Giorgio Napolitano rieletto nel 2015) nonché il capo provvisorio dello Stato, Enrico De Nicola, preceduto da Alcide De Gasperi che da presidente del Consiglio ricoprì per poche settimane lo stesso ruolo nelle concitate fasi post elezione dell’Assemblea costituente e referendum istituzionale. Guardando alle principali caratteristiche professionali, sociodemografiche e politiche dei capi dello Stato è possibile indicare un “profilo” che sintetizzi – senza velleità statistiche – qual è il cursus honorum che favorisce l’ascesa al Quirinale. Sebbene sia stabilito per legge che è necessario aver compiuto il cinquantesimo anno di età per essere eleggibili, l’età media di chi ha ricoperto la carica è comunque molto più elevata di quella indicata nella Carta. Settantadue anni aveva in media chi è stato eletto sino ad ora alla presidenza della Repubblica, con tre di loro sulla soglia degli ottanta. Sandro Pertini il più anziano (82), seguito da Napolitano (81) e da Carlo A. Ciampi (79). Sul versante opposto il più “giovane” fu Francesco Cossiga, che aveva meno di sessanta anni (57) al momento dell’elezione. Soltanto altri tre presidenti sono stati eletti avendo meno di settanta anni: Giovanni Gronchi (68), Giuseppe Saragat (66) e Giovanni Leone (63), che insieme ad Antonio Segni (71) sono i soli ad essere sotto la media complessiva. 

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Giuseppe Saragat: socialdemocratici

Il mio editoriale per il Domani parte di una serie di approfondimenti dedicati ai Presidenti della Repubblica

Dopo un liberale e due democristiani fu il turno di un socialdemocratico. Che aveva già tentato la scalata alla Luna contro Segni. E per poco non riuscì nell’impresa, che forse però avrebbe intimorito gli avversari del nascente centrosinistra per l’avvicendamento tra un esponente conservatore della Dc e uno riformista dei socialisti.   

Saragat aveva maturato grande esperienza politica e competenze. Da ministro degli esteri, ambasciatore a Parigi. E soprattutto in qualità di (primo) presidente dell’Assemblea costituente tra il 1946-47. E soprattutto segretario del partito socialdemocratico, a più riprese, prima e dopo la parentesi del settennato al Quirinale. Da antifascista fu costretto all’esilio in Francia negli anni Venti, per poi tornare in Italia all’indomani dell’8 settembre ed essere però arrestato, recluso a Regina Coeli e condannato a morte dai nazisti. Con lui c’era a condividere la sorte un altro futuro capo dello Stato, e socialista, Sandro Pertini. Entrambi liberati grazie a una audace azione di partigiani, avvocati, socialisti, degna di un film d’azione. Ininterrottamente deputato dal 1946 sempre ri-eletto nella circoscrizione di Torino – città natale – fino all’elezione presidenziale e successivamente senatore a vita per diritto. Fu artefice della cosiddetta scissione di “palazzo Barberini”, un’operazione politica d’avanguardia, lungimirante che puntò a scardinare l’asse tra Pci e Psi per proporre una politica di stampo socialdemocratico riformista proprio partendo da una critica al marxismo ortodosso. Ne nacque il Psli nel 1947 e coerentemente con questa scelta si oppose alla strategia elettorale del cartello delle sinistre social-comuniste alleate nel Fronte popolare nel 1948. Le vicende successive alla pubblicazione del Rapporto segreto di Nikita Chruščёv sui crimini dello stalinismo fecero barcollare molte delle certezze socialiste e l’alleanza strategica con i comunisti. Saragat e Nenni, acerrimi nemici, siglarono un patto di alleanza (il famoso incontro di Pralognan, in Francia) che di fatto aprì la strada alla futura creazione del centrosinistra organico con la Dc. E in cui, nel 1963, proprio Saragat ebbe un ruolo di rilievo ricoprendo la carica di ministro degli esteri nel primo Governo Moro. 

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