Le elezioni amministrative possono far cadere una Monarchia. Contano, eccome

Le elezioni amministrative non contano. Anzi sì.

Nel 1931 la Monarchia spagnola cadde per colpa del pessimo risultato delle elezioni amministrative che avevano visto la vittoria di molti candidati repubblicani. Le politiche successive del 1933 videro la sconfitta della “sinistra” e la vittoria dalle destre alle elezioni in cui votarono per la prima volta le donne. Quindi le elezioni locali contano oppure no?

In Italia, come spesso capita, dopo il voto del ballottaggio scorso, si è aperta un “dibattito” sensoriale tra esultatori del voto espresso e negazionisti della sconfitta. Le elezioni locali, contano eccome. Altrimenti non si spiegherebbero le dimissioni del Presidente Massimo D’Alema nel 2000 dopo le regionali condotta con la “nave azzurra” da Berlusconi. E la successiva sconfitta, eclatante del centro-sinistra di Rutelli l’anno dopo. E non ci sarebbe stata ragione di accanirsi contro i perdenti dopo le comunali “storiche” del 1999 a Bologna, o di esultare per la storica vittoria del centro-sinistra a Verona o a Catanzaro. O la rimonta del centro-sinistra che dal 2009 in poi vinse tutte le amministrative ed elezioni “minori”. E gli esempi sarebbero decine. Si tratta di confusione teorica e logica. Ogni voto ha il suo peso, che certamente non va confuso, ma nemmeno sottovaluto.

Le regionali e amministrative del 1975 generarono quello che fu definito un “terremoto” perché spostò l’asse delle forze in campo a favore dei comunisti, e le europee del 1984 permisero al PCI di superare, forse con una vittoria di Pirro, la DC, e galvanizzò un partito già in grosse difficoltà da almeno un lustro.
Anche a livello comparato è così. Le elezioni di metà mandato negli Stati Uniti hanno speso rappresentato un cambio di ciclo politico, oltre che strumento per introdurre il governo diviso. Del resto, l’attenzione per il voto del prossimo novembre rappresenta il termometro del consenso per Biden ed eventualmente della salute politica dei Repubblicani dopo il disastro del 2020.

Le elezioni amministrative sono consultazioni di “secondo ordine”, perché non decidono direttamente il governo nazionale, ma hanno un peso. Per gli elettori, motivandoli e mobilitandoli; per i partiti, offrendo spunti per ripartire, correggere l’agenda, modificare il processo di reclutamento; per i leader politici, per rilanciare la propria azione, definire strategie comunicative e chiudere diatribe interne o tacitare sfidanti. È del tutto evidente che il voto per il comune X non sia assimilabile al voto nazionale, al voto nell’intero paese. Ed è altrettanto pacifico che il consenso espresso a livello municipale risente di fattori diversi da quelli che incidono sulla scelta elettorale allorché si decida per il Parlamento. Tuttavia, è bene considerare che spesso non si vota in un solo comune (ad esempio nell’ultima tornata si è votato in un ottavo di essi), ed inoltre alcune città rappresentano dei test significativi: per popolazione, storia politica, collocazione geografica, etc. Rappresentano cioè delle sentinelle, inviano dei segnali non molto criptici circa il movimento di chi vota, e anche di chi si astiene. L’impatto della “storia e della geografia” è rilevante, perdere o vincere a Milano non è decisivo per le politiche, ma indica un chiaro segnale. Nel 2016, ad esempio, il Movimento 5 stelle vinse tra le altre città, a Torino e Roma, e ne seguirono nei rispettivi campi giuste rivendicazioni di successo e amare considerazioni sulle ragioni della sconfitta.

Le elezioni comunali del 1993 sono paradigmatiche. Non fu colpa del voto nelle principali città italiane a “confondere” i politici, ma furono quei politici, mal consigliati, a decifrare molto male il messaggio delle urne. L’errore, per il centro-sinistra fu marciare diviso, separato dal centro, mentre Berlusconi applicò alla perfezione la logica, e la meccanica, del sistema elettorale appena introdotto. Il centro-sinistra pensò di trasfondere il dato molto positivo del voto nei comuni di Roma, Milano, Venezia, Torino, Napoli e Palermo, nella campagna dell’”allegra macchina da guerra” guidata da Achille Occhetto.

Nel passaggio dalle elezioni “locali” a quelle nazionali vanno debitamente tenuti in conto diversi fattori. Quelli che Maurice Duverger chiamava gli effetti psicologici e meccanici su partiti, elettori e candidati. I quali si adattano al contesto, al sistema elettorale, alla posta in palio. I partiti selezionando il tono e i temi della campagna nonché i candidati. Questi ultimi calibreranno la loro azione comunicativa enfatizzando le loro qualità ovvero quelle del proprio partito/coalizione. Infine, gli elettori risentiranno della propria storia sociale, politica e culturale, ma anche, e molto in tempi recenti, di elementi di contesto: le condizioni economiche, le caratteristiche dei principali candidati nazionali, la situazione del paese, etc. Il tutto in un crescente ambito di volatilità elettorale, ossia di mutamento di opinione elettorale tra due consultazioni consecutive. Come dimostrano i dati emblematici di M5s, Lega e Fratelli d’Italia.

Il voto della scorsa settimana è chiaro: la destra ha perso e la sinistra ha vinto. È successo il contrario in altre occasioni. Non esiste nessuna relazione causativa tra il voto del 2022 e quello del 2023. Ma esistono tanti indicatori che se interpretati, se legati assieme, se gestiti da esperti e non da imbonitori da social media, possono fare la differenza. Anche le elezioni amministrative nel loro piccolo si … fanno valere.
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